Luoghi dove il sacro rompe i confini / Il sussurro degli dei
Where Gods Whisper è il titolo dell'ultimo libro della fotografa e giornalista polacca Monika Bulaj. Pubblicato dalle edizioni Contrasto con testo inglese e inserto in italiano, raccoglie immagini prese nel corso degli ultimi anni viaggiando lungo le terre di confine tra popoli, culture e religioni, dal Marocco all'Egitto, dall'Iran alla Siria, fino al Tibet, all'Afghanistan (a questo paese Bulaj aveva già dedicato un libro nel 2013, Nur: la luce nascosta dell'Afghanistan, definito dal Time uno dei migliori libri fotografici dell'anno). Fino a quello «specchio dell'Africa» che è l'isola di Haiti, dove il confine è l'intero Atlantico e i riti voodoo (grande spirito divino) fondono cristianesimo e antichissime religioni africane, celebrando la comunione tra vivi e morti, l'«incessante conversazione con gli antenati». Dove l'acqua diviene elemento centrale del culto, perché è attraverso l'acqua che finalmente tornano a casa, in Africa, i morti. Per le religioni animiste dell'Africa i morti non sono morti (come recita il titolo di una poesia del senegalese Birago Diop, alla quale si è spesso ispirato l'artista Bill Viola), non sono mai andati via, non sono sottoterra; il loro respiro si coglie nel fuoco, nel vento, nei movimenti e nei suoni della natura. Il mondo voodoo non conosce confini tra la vita e la morte.
Ed è proprio il confine il filo conduttore della ricerca di Monika Bulaj. Viaggiando sempre da sola, protetta soltanto dalla sua macchina fotografica, per essere libera di seguire quello che incontra, di andare dove i luoghi la chiamano, la fotografa percorre le terre in cui da sempre le culture si scontrano. Ma ancora più spesso si incontrano, scivolando un poco l'una nell'altra, prestandosi riti e preghiere, gesti e luoghi di culto come «i buoni vicini si prestano il sale». In quei territori gli dei davvero sembrano parlarsi l'un l'altro e bisbigliare insieme agli orecchi degli uomini, in una specie di babele che, suggerisce l'autrice, forse dovremmo leggere come intuizione di un ordine diverso e migliore.
Ci sono momenti e luoghi in cui gli dei vanno d'accordo.
Allora anche gli uomini vanno d'accordo, come se finalmente capissero di appartenere alla stessa famiglia. Come tutti i fratelli non sempre si amano, non sempre sono d'accordo, ma come i migliori si rispettano e soprattutto non vogliono liberarsi gli uni degli altri. In quei momenti e in quei luoghi, chi ha occhi per vedere si accorge di come uno spirito sinceramente religioso porti in sé una profezia, perché un Dio uno e molteplice si rispecchia nella molteplicità delle espressioni religiose dell'unico genere umano. In tal modo la religione può diventare finalmente ciò che la parola stessa indica: unione, legame. Con Dio, certo, ma anche e forse prima di tutto, degli esseri umani tra loro e con tutti i viventi. Nonostante molti, in diversi tempi e luoghi, per avidità, ignoranza, irresponsabilità, manipolino le religioni per alimentare odio e divisione tra le genti, profanando il nome di Dio. È dunque importante che qualcuno ci ricordi, come fa Monika Bulaj, che il sentimento religioso è, può e deve essere, sorgente di simpatia nel senso più letterale del termine, di comprensione e rispetto reciproco.
«Mi piace il pensiero che ci siano luoghi dove il sacro rompe i confini» tracciati dagli uomini, dichiara l'autrice, dove la fede popolare degli umili ebrei, cristiani o musulmani mostra nei gesti e nei riti, nei pellegrinaggi, nell'attaccamento agli stessi luoghi l'origine comune e le contaminazioni reciproche che secoli e secoli di convivenza e prossimità hanno costruito. Chissà, mi chiedo io, se quelle maestre piene di buone e dannose intenzioni, che non cantano le canzoni natalizie per non offendere i bambini musulmani, sanno che l'islam considera Gesù il profeta più grande comparso prima di Maometto? Che anche loro conoscono l'arcangelo Gabriele? Che Maria è la donna più venerata nell'islam proprio perché madre del grande profeta Gesù? Chissà se si rendono conto, così facendo di alimentare semplicemente l'astio degli altri bambini per il nuovo compagno o compagna che li priva, senza volerlo, del loro modo di festeggiare il Natale.
Monika Bulaj si addentra nei meandri in cui i confini tra ebrei, cristiani e musulmani si strappano e «suoni, gesti, atmosfere… talvolta inaspettatamente e dolorosamente disvelano una verità comune sulle cose». Il suo viaggiare assomiglia a un pellegrinaggio non diverso dai tanti da lei stessa documentati, in cui è la fede delle persone a rendere sacri i luoghi, al di là di quello che la tradizione racconta vi sia accaduto. «Ho provato, camminando – scrive – a raccontare dei popoli erranti minacciati dalla follia dell'uomo. Del loro legame con la terra, il fiume, l'albero, la montagna… Del bello e dell'inviolabile santità dell'essere umano, ritrovati nei luoghi più infelici del pianeta. Camminando con… i pellegrini, i fuggiaschi, i nomadi e i loro dei che li seguono come sterne dietro a una nave». Così, siccome «un buon santo è buono per tutti», segue i cristiani e i musulmani che si recano insieme alla chiesa di san Marco, nel quartiere di Muqattam, il più contaminato del Cairo, per farsi benedire e curare dagli spazzini copti, tra i quali si trovano i più rinomati taumaturghi della città.
E in Marocco, attorno al sarcofago del santo musulmano Ibn Ben Aissa, assiste ai riti in suo onore che richiamano le feste dionisiache e antiche cerimonie pre-islamiche. A testimonianza di come le religioni si trasformino, ereditino l'una dall'altra, spesso portando con sé elementi e simboli ai quali, man mano, si attribuiscono significati diversi.
Come il velo, al quale dedica un intero capitolo, che non copre il viso e le spalle ma solo i capelli della Madonna cristiana e, come quello delle donne tuareg, «ne esalta la bellezza senza nascondere nulla». Infatti, nell'Islam rovesciato dei tuareg – «sereno, vissuto con la gioia dell'Africa e la leggerezza del nomade» – esso copre il volto degli uomini e non quello delle donne, solide «come sculture, dure come legno. Sicure di sé da far quasi paura». Nell'Atlante, invece, difende dagli sguardi le spose berbere; a Costantinopoli in una piccola chiesa protegge la santità dell'icona di Cristo; per le afgane è un mantello che ne decreta l'invisibilità, un territorio che le protegge e le annulla nello stesso tempo. Per le iraniane, alle quali i soldati dello shah lo strappavano a forza dalla testa nel 1936, ora è imposto con la stessa violenza. Eppure è lo stesso piccolo pezzo di stoffa che rendeva più sensuale la danza di Salomè ai tempi di Erode e che ritorna nelle danze del ventre di oggi, praticate in mille caffè del nord Africa. E, infine, all'opposto rimanda al mandylion, il velo della Veronica sul quale, si narra, è rimasto impresso il volto sanguinante, bagnato di lacrime e sudore di Gesù.
Nel deserto siriano, a un'ottantina di chilometri da Damasco, si trova un altro luogo in cui uomini e donne cercano un incontro tra fedi diverse. È l'antico monastero di Deir Mar Musa al-Habashi (san Mosè l'abissino) in cui il gesuita italiano Paolo Dall'Oglio aveva fondato una comunità ecumenica chiamata al-Khalil Allah, (l'amico di Dio). Monika Bulaj l'ha incontrato prima che la guerra devastasse la Siria e disperdesse la piccola comunità. A questo luogo e alla missione di padre Dall'Oglio l'autrice dedica lo scritto più lungo del volume raccontando del suo amore per la Siria, per il suo popolo e la sua religione; del suo desiderio indomabile di gettare ponti tra ebrei, cristiani e musulmani sempre più dilaniati da un odio fomentato spesso ad arte da potenti e incoscienti per avidità, miopia politica, ignoranza. Lui era convinto che fosse possibile sempre trovare una via comune attraverso il dialogo, e probabilmente ha pagato con la vita la sua incrollabile fiducia nell'uomo.
Secondo quanto è stato possibile ricostruire, dopo essere stato espulso dal paese nel 2011, Paolo Dall'Oglio vi rientrò clandestinamente recandosi a Raqqa nel tentativo di incontrare i capi dell'Isis con i quali sperava di potere aprire un dialogo. Forse la sua fu ingenuità o forse la follia degli uomini di Dio. A Raqqa fu rapito, nell'estate del 2013 e di lui, fino a oggi, non si conosce la sorte. È stato detto che padre Dall'Oglio si inscrive nella grande tradizione gesuita di dialogo tra fedi e culture testimoniata da figure come Matteo Ricci, che operò in Cina nel XVI secolo, o Ippolito Desideri che nel XVIII secolo intrattenne intensi rapporti con i monaci tibetani. Dall'Oglio, racconta Monika Bulaj, le aveva confidato di temere di fallire la propria morte, «di passarle accanto evitandola, quando la si dovrebbe accettare per giuste ragioni». Non credo l'abbia fallita.