Inchiesta sui pretini

28 Novembre 2014

Mi chiamano dalla redazione. È tantissimo – mi fanno notare – che non si parla di seminari e di seminaristi, ma hai visto che gli asini ci ha fatto un dossier? In effetti la rivista strilla – raglia? – in copertina proprio un bel dossier su “Come si diventa preti”. Casualmente avevo appena visto in dvd il film, in qualche modo autobiografico, di Gabriele Cecconi, Il Seminarista, uscito da poco. Va bene, mi dico, si vede che è il momento anche per me. Il film è però ambientato nel 1959, il dossier de gli asini parla di oggi, dei seminaristi di oggi. Meno male, penso.

 

 

In effetti, una prima grande differenza balza subito agli occhi: è quasi scomparso il Seminario Minore, il luogo in cui si entrava a 11 anni se si voleva diventare preti. Oggi sono rimaste quasi soltanto le cosiddette “vocazioni adulte”, infatti le sei testimonianze raccolte dalla rivista sono di giovani uomini dai 19 ai 31 anni che – cito letteralmente dall’introduzione – «frequentano il primo anno di una “comunità vocazionale” a Castello Roganzuolo, nella diocesi di Vittorio Veneto, in provincia di Treviso». Oggi, «dal Seminario Minore (scuole medie e superiori) provengono sempre meno vocazioni (i ragazzi dell’età della scuola media sono praticamente assenti): attualmente, in una realtà che ha visto in pochi anni dimezzarsi drasticamente il numero delle ordinazioni sacerdotali, su dieci preti, almeno sei vengono da comunità vocazionali». La rivista parla di «cinque ragazzi», in realtà le testimonianze sono sei perché l’ultimo vive tra la Toscana, Genova e Pavia e non a Vittorio Veneto, ma – visto che sta a pieno titolo nell’inchiesta – non si vede perché non contarlo.

 

La domanda alla base dell’indagine – e della mia curiosità – è ovvia, ovvia da formulare, per niente ovvia nella sua risposta: «perché un giovane decide di diventare prete oggi?». Se lo chiede la rivista, me lo chiedo – speranzoso – io.

Leggo dunque con grande attenzione le testimonianze, e gli abbondanti commenti di alcuni sacerdoti che la rivista colloca prima e dopo le storie dei “ragazzi” (per me non sono ragazzi, comunque, ho scritto giovani uomini, e la differenza non è di lana caprina) e mi trovo subito in grave imbarazzo, perché mi tocca parlare di persone citate per nome e cognome età residenza che di fatto non conosco. D’altra parte non c’era ragione di mantenere l’anonimato. O sì? Per come farei un’inchiesta io, sì, e non per questioni di pudore o di privacy, ma proprio per il carattere di generalizzazione che un’inchiesta deve avere, dichiarando i propri limiti e confini. Comunque la frittata è fatta e pazienza.

 

Ho avuto, leggendo le parole di questi futuri preti, la risposta alla domanda della rivista e mia? Lo dico subito, no.

Nessuno di loro parla di sesso, di ragazze, di celibato, di desiderio di figli o di una famiglia (ben strano per dei venti-trentenni, e in ogni caso fra i temi più cruciali da sempre, e oggi certo all’ordine del giorno perfino nelle alte sfere). Sì, ci sono un paio di accenni, ma così finti, così poco credibili, così detti per dire, che meglio se non c’erano. E – udite udite – nessuno di loro, ancora meno forse che di ragazze (o di ragazzi, è uguale), parla davvero di Gesù di Nazareth, della fede nella Resurrezione, insomma di ciò che dovrebbe non solo stare alla base, ma essere il centro della predicazione evangelica e dell’identità cristiana soprattutto, lo “specifico” cristiano, l’unica cosa che realmente distingue un cristiano da un ebreo o da un musulmano, ma anche, volendo, da un induista.

 

E allora di cosa parlano? direte voi.

Ecco di cosa parlano.

Giulio, 21 anni (io comunque il cognome non lo trascrivo, anche se sulla rivista c’è), fa risalire la sua chiamata alla filosofia, alle domande sul senso della vita, alla lacerante questione del dolore umano (lacerante lo scrivo io, perché lui sembra parlarne con la stessa intensità che si potrebbe dedicare a una brioche). Esempio massimo di passione e precisione cui arriva: «La paura è di non riuscire a superare le difficoltà che si incontreranno in seguito, la Chiesa è una cosa bella ma ti fa anche soffrire». Fine della testimonianza. Quali difficoltà? Perché la Chiesa è una cosa bella? Perché, in che modo, quando come dove ti fa anche soffrire? E perché questo ventunenne che parla come un ragazzo, in questo caso sì, della prima liceo vuole fare il prete invece che il pensatore laico? Da Giulio non lo sapremo mai.

 

Giuseppe Pongolini, Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 2007  Giuseppe Pongolini, Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 2007

 

Gli altri cinque sono tutta concretezza. Ma quale?

Per Giovanni, 23 anni, la vocazione è scegliere fra la passione per la matematica e impegnarsi fra i tossicodipendenti, i giovani carcerati, i disabili, gli anziani. Fine.

Per Davide, 19 anni, è stare vicino alla gente, ai giovani, alle famiglie e poter pregare cantando e suonando, «essendo io pianista e organista». Ok, invece di X Factor, il seminario, e per il futuro una chiesa parrocchiale in Veneto al posto di Sanremo. Ma perché? Non si sa e non si saprà mai. Almeno da lui. Fine anche di questa storia.

Giacomo, 23 anni, lascia una ragazza – una sola, in 23 anni – per la quale palesemente prova lo stesso interesse che io provo per il nuoto sincronizzato, forse anche meno (io e il nuoto sincronizzato, zero, sia chiaro) e decide di dedicarsi ai disabili mentali o ai rifugiati politici che ha intravisto a Padova.

 

Un altro Davide, 27 anni, ha rinunciato ad aprire una pasticceria perché ha sentito un giorno il vescovo dire che «in seminario c’erano dei posti liberi» (letteralmente). La sua paura (letteralmente) è questa: «L’unico dubbio che avevo era il fatto che io sono astemio, e mi chiedevo come potevo celebrare la messa» (per quel goccio di vino che c’è nel calice, suppongo). Anche qui fine della storia.

Tommaso, 31 anni, ha l’unica vicenda un po’ corposa. Anche se vissuta di luce riflessa. Parte dall’idea di un cristianesimo «pratico» (parola sua), che si traduce in «incontri sulla frontiera dell’emarginazione, di lotta contro le varie forme di solitudine, di pomeriggi all’ospizio e di serate coi barboni alla stazione». Tommaso è di Pontedera, collabora a Pisa con un giornale «che non mi appassionava più» (ma non c’è una sola cosa, passata presente futura, che sembri appassionare questi uomini), però ama Genova: per la Sampdoria, per De Andrè, e partecipa perfino agli scontri del 2001. Alla fine conosce don Andrea Gallo – che diventa il suo eroe – vive tre anni con lui, e così decide di fare il prete come lui. Naturalmente la Chiesa lo sbatte a Pavia in seminario, don Gallo – vivo o morto – e la sua comunità, nonostante siano l’unico esplicito modello per Tommaso, non possono certo essere adatti a preparare qualcuno a fare il prete cattolico.

 

A stare ai fatti – ma non è il mio genere, non credo ai fatti – c’era più vita nel 1959, più passione intensità problemi conflitti contraddizioni nei vecchi seminari e nel film di Cecconi che in questi giovani e nelle “comunità vocazionali”. Questi sembrano dei morti viventi, delle sbiaditissime controfigure, delle sagome di cartone, non so. Non c’è corpo, e non c’è nemmeno anima, a dirla tutta.

Dopo essermi chiesto se avessi avuto qualche cenno di risposta al perché uno vuole fare il prete oggi, ed essermi risposto di no, mi sono domandato se mi fosse venuta voglia di incontrare almeno una di queste persone, di conoscerla meglio, di farle delle domande. E la risposta è stata ancora una volta no.

Ma non può essere.

Piccolo passo indietro, prima del finale.

 

Giuseppe Pongolini, Nuova Crocifissione, 2004Giuseppe Pongolini, Nuova Crocifissione, 2004

 

Mi sarebbe forse bastata la consolazione – davvero sotto il minimo sindacale – di vedere questi futuri preti consapevoli almeno che il loro penoso balbettio li colloca comunque nel cuore di una polemica intercattolica molto appassionante e attuale (non solo per i cattolici, vorrei dire), e durissima, combattuta quasi a sportellate, tra due linee, il primato della fede contro quello della carità, l’uomo Gesù di Nazareth o il Dio Assoluto, il Priore di Bose Enzo Bianchi (che tiene per l’uomo Gesù) o il teologo superstar Vito Mancuso (che tiene per il Dio dell’Universo) con Sandro Magister, grande vaticanista dell’Espresso, da settimane ferocemente all’attacco di Enzo Bianchi unito nella polemica allo storico della chiesa Alberto Melloni.

 

E poi la vecchia intrigante questione dei “cristiani anonimi” (“se sei un brav’uomo sei cristiano anche se non lo sai”, secondo la formulazione originaria del teologo Karl Rahner, animato da intenzioni universaliste, oggi si direbbe inclusive, in realtà massimo esponente dell’integralismo: “decido io per te se sei cristiano o no, ti piaccia o meno”). E poi San Paolo, e il suo presunto primato della carità sulla fede, ma che arriva in un ambito storico preciso e ben circoscritto. Per dirla come va detta, un cazziatone a dei cristiani che predicavano bene e razzolavano malissimo, ed è a loro e in quel contesto che Paolo di Tarso dice che se uno ha fede ma poi si comporta da stronzo non va bene, cosa che è un po’ diversa dal primato delle opere (del “fare” direbbe Renzi?) sulla fede tout-court.

 

Nulla di tutto questo, nemmeno un barlume, un lumicino, “un soffio di fiato” ( Pooh) nelle testimonianze. Che – al di là della vacuità spaventosa e fasulla di queste vite così come si leggono – non ci fa capire, titolo a parte, se stiamo leggendo un’inchiesta su giovani che si preparano a fare i preti o che stanno facendo il corso di Emergency o anche solo dei Vigili del Fuoco.

Il fatto è che io non posso limitarmi a prendere atto. Non posso credere che esistano giovani uomini così finti. Ne conosco centinaia e nessuno è così morto. Non posso credere che tutti e sei siano così. Che loro, questi sei, siano così. Non ci credo neanche se li vedo. E i casi allora sono solo due: o sono finti loro, o è finta l’inchiesta. Cioè “sbagliata”. Dalla prima all’ultima riga. La scrittura è “sbagliata”.

Per me, è la seconda. E qui cascano gli asini.

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