Conversazione con il filosofo / Remo Bodei: tra eterno dubbio e immediata soluzione

17 Luglio 2017

Il Festival “Pensare serve ancora?”, organizzato dall’Associazione culturale Pensiamo insieme e giunto alla sua terza edizione, quest’anno avrà come tema La mente pieghevole. Ambiguità: ragioni e s/ragioni.

In un mondo fluido, instabile, sconcertante, in continua trasformazione, appare necessario coltivare un’intelligenza elastica, capace di divenire complice del reale assumendone la natura polimorfa, flessibile, molteplice e mutevole. Il successo su una realtà ondeggiante e inafferrabile, in cui non vi sono regole fisse e ricette pronte a cui rifarsi, non può che dipendere dalla capacità di dare prova di una maggiore mobilità e duttilità.
Occorre, però, domandarsi quali rischi si celino dietro alla rivalutazione in termini positivi dell’ambiguità come capacità degli individui di rispondere alle sfide della modernità. Può darsi un orizzonte entro il quale l’ambiguità risulti compatibile con valori quali l’autenticità, l’onestà e la verità? In che modo una mente pieghevole può evitare il rischio di ricadere in una dimensione dominata dalla menzogna, in cui ad essere premiata è la furbizia?

Nella serata del 23 luglio il Professor Remo Bodei si confronterà con il Professor Marco Francesconi a proposito di Autenticità: cibo per la mente?, affrontando il tema del Festival attraverso la questione del dubbio.

 

E.G. Husserl ritiene che l’atteggiamento filosofico, in rapporto alla possibilità della conoscenza, sia caratterizzato proprio dalla sospensione del giudizio. Hegel, in polemica con lo scetticismo dogmatico dei moderni e in linea con lo scetticismo radicale degli antichi, afferma che il dubbio costituisce l’inizio del pensiero e che la filosofia deve necessariamente fare proprio l’elemento negativo, di autoesame. Cartesio, in una prospettiva antirealista, pone il dubbio alla base del suo metodo. Il dubitare può essere considerato l’atto di nascita della filosofia?

R.B. Per quanto riguarda Cartesio, quando si traduce il cogito ergo sum con “penso dunque sono” si compie un errore, dal momento che nella Seconda Meditazione cartesiana si dice chiaramente che cogito, da coagito, significa non solo pensare, ma anche immaginare, amare, odiare, sentire. In analogia con la sua fisica basata sul vortice degli atomi, il cogitare è ciò che si agita nella nostra mente e permette di pensare, di sentire, di amare. In Cartesio il dubbio è sorpassato da questa cogitazione, cioè da forme di ragionamento coerente che si sviluppano come un teorema di matematica.

Invece, in linea con Spinoza, si può affermare “dubito dunque sono”: un dubbio è l’attività della mente che non si pone come obiettivo di dare una immediata risposta categorica a qualsiasi problema, ma vi si sofferma. E il soffermarsi, appunto, emerge in diversi aspetti delle riflessioni elaborate dagli autori menzionati nella domanda.

Per esempio, lo scetticismo antico è alla base della dialettica di Hegel. Spesso si fa confusione considerando la dialettica il culmine del pensiero hegeliano, mentre essa è il momento negativo, “dissolvente”, quindi qualcosa che distrugge l’isolamento dei concetti. Il culmine, come mostra per esempio il paragrafo 82 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, è rappresentato dalla speculazione, cioè un modo di pensare razionale che mantiene superato, “tolto”, l’elemento negativo, nel senso del latino «Agnus Dei qui tollis peccata mundi», per cui la comunione cristiana toglie i peccati, ma non li dimentica. Dubitare, quindi, è l’attività che nella tradizione medievale è riconosciuta come vis feri. Come dice Dante, la verità tende a farsi strada per conto suo come fa la bestia quando cerca la sua tana e in quella trova riposo: Posasi in esso, (l’intelletto) / come fera in lustra (nella tana), / tosto che giunto l’ha; e giunger puollo. Tuttavia continua affermando: Nasce per quello, a guisa di rampollo, / a piè del vero il dubbio; ed è natura / ch'al sommo pinge noi di collo in collo (a scollinare). Il dubbio, quindi, è sostanzialmente parte della verità: senza la verità il dubbio non ci sarebbe.

Il problema è che oggi le fake news e la “post-verità” non individuano un’opposizione diametrale tra verità e falsità, ma le considerano realtà parallele, in cui una – quella vera – è difficile da individuare e l’altra, siccome più semplice e molte volte più attraente, trova maggiore circolazione.

 

In un mondo in cui il termine “crisi” assume spesso una connotazione negativa, in cui la politica è sempre politica anti-crisi, il dubbio può far riscoprire l’importanza di ciò che nel mondo greco antico si indicava con la parola krisis, ovvero la capacità di discernere e, quindi, di giudicare? In che senso il dubitare, e quindi l’assunzione di un’autonomia rispetto all’auctoritas di turno, può e deve essere considerato un valore nelle democrazie moderne, contro derive totalitarie?
Il verbo greco da cui deriva il sostantivo krisis vuol dire dubitare, separare; esso corrisponde a un ideogramma cinese che indica, nello stesso tempo, il nostro modo negativo di intendere la crisi, ma anche l’opportunità. I politici, che molte volte disprezzano tanto i tecnici (i così detti burocrati), ma hanno un’autonomia massima di quattro anni e comunque in Italia sono sempre in campagna elettorale, difficilmente mostrano dei dubbi, anche perché il cittadino medio si accontenta di certezze.
Certo, il dubbio farebbe bene ai politici. Ma dubito che possano dubitare.

 

L’asino di Buridano, posto tra due cumuli di fieno perfettamente uguali e alla stessa distanza, non sapendo decidere quale iniziare a mangiare, finisce per morire di fame. Il dubbio radicale implica inevitabilmente l’impossibilità dell’azione o, invece, il dubitare è la condizione stessa per agire? In che modo è possibile evitare che l’incredulo assuma il dubitare in termini fatalistici, come alibi per non agire o che cada in un immobilismo di fondo?
Il grande matematico René Thom, l’autore della teoria delle catastrofi in senso matematico, ossia della perdita degli equilibri che implica la necessità di scegliere di andare da una parte o dall’altra, mi ha raccontato una volta un aneddoto contro la teoria dell’asino di Buridano, che riguarda gli asini ma non gli uomini. Lui, in quanto Immortale, cioè accademico di Francia, nell’attraversare il lungo Senna per raggiungere la sede dell’Académie Française, spesso si trovava in mezzo alla strada poco prima che il semaforo diventasse rosso. Se avesse fatto come l’asino di Buridano si sarebbe fermato in mezzo alla strada. La catastrofe consiste, invece, nel prendere una decisione, seppur rischiosa: scegliere se andare avanti o tornare indietro. Il pavido o colui che non vuole prendere decisioni può ricorrere al paradosso dell’asino di Buridano come alibi, ma il nostro mondo è costretto dall’urgenza di agire e prendere decisioni in un senso o in un altro. I dubbi si possono spingere fino a un certo punto: altrimenti si morirebbe di fame prima di aver aperto una porta.

 

La modernità, iperconnessa e sotto il dominio della nuove tecnologie, vede un susseguirsi continuo e incessante di informazioni, spesso non verificate e non verificabili. Alcuni, sulla base della consapevolezza dell’esistenza di una dimensione irriducibile di non conoscenza, propongono come soluzione una “società dell’ignoranza”. In tal senso la risoluzione di molti problemi dipenderebbe dalla possibilità di interpretare come risorsa una legittima, razionale e giustificata ignoranza. Di fronte a situazioni in cui si ha una conoscenza incompleta sarebbe più conveniente agire in base a quello che non si sa, piuttosto che a quello che si sa, servendosi strumentalmente delle “incognite sconosciute”. Paul Klee, a margine del suo ultimo disegno, annota la frase «Bisogna che tutto sia conosciuto? Ah, io non credo»: il dubitare si pone su questa linea?
Il dubitare non è un elogio dell’ignoranza, anzi, il contrario. Il dubitare è un tentativo continuamente rinnovato, continuamente messo alla prova, di trovare verità che siano più convincenti; che non si basino su qualcosa che vada incontro alle convinzioni radicate di ciascuno. È una forma di auto-sovversione: ci si mette in questione e si verifica se esistono soluzioni migliori.
Naturalmente l’ignoranza è come il mare o come un pozzo, non si può svuotare.

 

Il senso dell’insegnare la filosofia oggi, nelle scuole, non dovrebbe essere quello di insegnare a dubitare, di “moltiplicare le nubi”, come si riprometteva di fare Diderot?
Si tratta di insegnare a usare lo spirito critico, di non dubitare ad excessum, ma neppure di sparare subito una soluzione affrettata. È meditare, coltivare la phronesis, quella che i Latini chiamavano prudentia e che noi chiamiamo “prudenza”. Il termine prudenza, ormai degradato, dovrebbe indicare la saggezza pratica nel prendere decisioni. È sufficiente leggere il VI libro dell’Etica Nicomachea di Aristotele per comprenderlo. Insegnare è insegnare a dubitare, ma anche a trovare soluzioni, altrimenti si tratterebbe di un insegnamento a metà, solo “distruttivo”. Bisogna tener conto dei soggetti che si hanno di fronte: rispetto a individui forti e sfrontati, si dovrà insistere sul dubbio; con persone ragionevoli si dovrà far emergere l’aspetto costruttivo. Davanti a un problema, termine di origine greca che rinvia all’idea di ostacolo, ci si deve fermare e capire in che modo superarlo.
Si ha a che fare con due facce della stessa medaglia: occorre trovare un equilibrio ragionevole tra i due estremi, ovvero tra l’eterno dubbio e l’immediata soluzione.

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