Romanzo di un giovane povero
Simone Carella (1946) è pugliese d’origine ma romano d’adozione. È stato uno degli animatori del teatro di ricerca, ma non solo, a Roma dalla fine degli anni ’60 ad oggi. Dalle prime esperienze al teatro Dioniso di Giancarlo Celli al movimento studentesco, dall’amicizia con Gino De Dominicis all’ideazione del mitico Festival di Poesia di Castelporziano, Simone non ha mai smesso di inventare spettacoli, festival ed eventi che hanno contraddistinto un’epoca.
Simone Carella
È stato l’animatore del Beat 72 di Roma, un teatro off che è stata una vera e propria fucina dell’avanguardia culturale italiana della seconda metà del Novecento. Regista teatrale, autore, impresario, factotum, perfomer, Simone Carella ha fatto tutto e di più e ancora oggi continua a lavorare guardando avanti senza nostalgia del passato. Per chi – come chi scrive – quegli anni li ha vissuti solo a parole, l’esperienza umana e professionale di Simone è preziosa. È un invito a non dimenticare i protagonisti di quell’avanguardia romana la cui storia è ancora tutta da scrivere, nella speranza che le nuove generazioni possano contribuire a far sì che ciò che è stato creato non svanisca nel nulla.
Simone Carella, Autodiffamazione, 1976 - Teatro Beat ‘72
Partiamo dall’inizio. Tu non sei di Roma?
Sono di Bari; più precisamente Carbonara di Bari, che nel 1946 – quando sono nato – era praticamente un borgo. Sono venuto a Roma nel 1960.
Come mai?
Una classica storia di emigranti. Mio padre era in Venezuela e non riuscendo più a mantenere la famiglia, mia mamma e mia sorella decisero di trasferirsi a Roma. Qui ho frequentato il Castelnuovo che in quegli anni era un liceo sperimentale molto interessante. Era a Monte Mario. Il corpo docenti era straordinario. Il preside era Giambattista Salinari che aveva coinvolto insegnanti come Enzo Siciliano o Mario Socrate. Era un liceo sui generis considerando quegli anni.
Dopo il liceo hai continuato gli studi?
Beh, il liceo non l'ho finito completamente perché ho avuto la tubercolosi. Quindi ho dovuto lasciare la scuola e andare in clinica per sei mesi. Ero al cinema dei preti a vedere “La Valle dell’Eden” quando ho cominciato a stare male. Non sono più riuscito a vederlo così come non sono mai riuscito a leggere La Montagna Incantata di Thomas Mann perché inizia col racconto del sanatorio. La scuola l’ho finita da privatista. Poi sono andato a fare il fattorino da Roberto Capucci.
È un romanzo di un giovane povero il mio. Capucci non era non solo un sarto ma un vero artista. Quando uscivo dal lavoro camminavo per via Gregoriana e scendevo per Piazza di Spagna che era il ritrovo dei capelloni. Mi fermavo spesso lì. C’era un tipo altissimo con i capelli lunghissimi che si vestiva in maniera singolare e aveva una motocicletta immensa. Era il capo dei capelloni e si pavoneggiava. Comunque li conoscevo tutti i capelloni. Mi ricordo uno che si chiamava Flavio Sorrentino e faceva il marchettaro. Un ragazzo bellissimo che somigliava a Jean-Pierre Leaud. Mi diceva “scommetti che se fisso una donna, la faccio arrossire?”. E ci riusciva! Io mi fottevo qualche profumino o saponetta al lavoro e glieli portavo. Ero entrato nel loro giro. Una sera Flavio mi disse “andiamo in una cantina dove fanno il teatro d’avanguardia”. Il teatro mi piaceva e lo frequentavo molto. Andavo al Quirino, all’Eliseo, al Valle.
Questo quando eri al liceo?
Sì. Mi ricordo che andai al Quirino spacciandomi per il rappresentante del comitato scolastico del Castelnuovo e chiesi dei biglietti. Mi diedero un pacchetto con tutte le riduzioni. All’Eliseo invece c’era una mia lontana parente che faceva la cassiera al bar. Andavo a vedere tutti gli spettacoli. Il primo fu Il Diavolo e il Buon Dio di Sartre messo in scena da Luigi Squarzina con Alberto Lionello come protagonista. Fu uno spettacolo formidabile. Riuscii anche a entrare al concerto di Frank Sinatra.
Simone Carella, Luci della città, 1976 spettacolo realizzato per la Rassegna Teatrale di Cosenza
Sempre all’Eliseo?
Si. Era un concerto per beneficenza. Tutto il gran mondo romano era lì. Entrai dall’ingresso di servizio perché ormai mi conoscevano tutti. A un certo punto sentii un brusio nella folla con tutti i fotografi intorno. Era Liz Taylor che in quel momento stava girando “Cleopatra”. Dopo pochi minuti un altro trambusto e arrivò Richard Burton completamente ubriaco. Riuscii anche ad infilarmi nel camerino di Frank Sinatra con un cameriere. Mi ricordo che aveva una cicatrice sul collo, una specie di bruciatura. Fu un concerto straordinario. Aveva il tic di pulirsi le scarpe dietro i pantaloni.
Cosa ti affascinava del teatro?
Non lo so. Quando era ancora a Bari, le monache mi facevano recitare perché da bambino facevo il pagliaccio. Evidentemente ho sempre avuto una voglia di esibizionismo. All’epoca frequentavo anche le mostre d’arte all’Obelisco o alla Marlborough. Qui vidi una mostra di Beverly Pepper.
Quindi dove ti portò il tuo amico capellone?
Al teatro Dioniso a via Madonna dei Monti. La sede l’aveva presa Giancarlo Celli che era l’animatore di questo teatro sperimentale. Celli è una figura importante. E’ stato il primo gruppo di teatro dove sono entrato. Era una cantinaccia con a malapena la luce. Facevo il tutto fare. La cosa formidabile è che Celli in quel periodo stava preparando due spettacoli: un adattamento di Fecarolo di Elio Pagliarani e I Furfanti di Gaetano Testa. Due testi del Gruppo 63. Mi piaceva il modo in cui usavano la lingua e si opponevano al servilismo lirico della poesia.
Chi si esibiva al Dioniso? Solo giovanissimi?
No c’erano attori professionisti. Celli era più grande di noi. Io avevo 21 anni. Ho cominciato a lavorare lì perché si lavorava su testi di autori che mi interessavano. Sapevo più di Balestrini, Sanguineti, Pagliarani, Porta e Giuliani che di Zanzotto. L’altra cosa straordinaria è che nel 1967 Celli aveva deciso di fare un festival off durante il Festival di Spoleto.
Affittò una grande cantina su due piani. Siamo rimasti a Spoleto durante tutto il periodo del festival eseguendo l’intero repertorio del Dioniso. Giancarlo, già prima del mio arrivo, aveva fatto diversi esperimenti. Il suo era un teatro quasi di strada, molto sperimentale, basato sulla ricerca della partecipazione attiva del pubblico in quello che considerava l’assemblea teatrale. Qualsiasi spettacolo iniziava solamente se c’era uno spettatore che lo faceva scattare. Era una vera comunità.
Simone Carella a Spoleto nel 1967
Quanto sei rimasto al Dioniso?
Tre anni circa. La mia prima esperienza con il Dioniso è stata a Spoleto. Quell’anno c’era Jerzy Growtosky con Il Principe Costante.
L’idea di Celli dell’attivazione dello spettacolo tramite il pubblico non è influenzata da Growtosky? In fondo è un po’ il discorso duchampiano…
Il coinvolgimento diretto del pubblico al fatto teatrale apparteneva più al Living Theatre. Growtosky era più mistico, esoterico, spiritualista. Doveva esserci un rapporto emotivo molto forte. Il Principe Costante era impressionante. C’erano questi due, tre attori dentro una cavea di legno. Ryszard Cieslak era veramente un attore che vibrava. Non c’era nulla. Tutto veniva evocato.
E’ lo stesso anno in cui il Living Theatre fece il tour in Europa?
Beh era già venuto. La presenza più forte quell’anno era Growtosky, che già era un nome tutelare. Il Principe Costante è lo spettacolo che gli ha dato la fama.
Per voi era già un mito?
Beh sì.
Lui venne?
Sì. Noi avevamo fatto amicizia con gli attori tra fumate e ubriacature varie, ma Growtosky stava sempre per conto suo. Aveva questa barba lunghissima e fumava in continuazione. Era quasi monastico. Non parlava con nessuno.
Quindi sia lui che il Living erano già istituzionalizzati?
Sì. Loro erano invitati. Noi eravamo outsider.
Allestimento di Viaggio sentimentale e oltre…, 1976 - Teatro Beat ‘72
In cosa vi differenziavate voi? Qual’era lo scarto rispetto alla concezione teatrale di Growtosky che già aveva rotto tutti i canoni? Era un modello che facevate vostro o che volevate in qualche modo superare?
Era semplicemente diverso. Non esisteva conflittualità. Growtosky era importante e ci piaceva, così come il Living, Bread and Puppet o El Teatro Campesino o il libro di Richard Schechner sul teatro ambientalista o quello di Guy Debord sul Situazionismo. Erano testi e idee che giravano. Celli aveva una sua singolarità e originalità che era la ricerca ossessiva del pubblico.
Guarda il caso di Fecaloro. Come tradurre in spettacolo il poemetto di Elio Pagliarani? Lui lo divise in poemetti di 150 versi e in 8 parti quante le lettere del titolo. Costruì queste lettere sulla parete e creò una scacchiera tirando delle corde dipinte d’oro. Da un’altra parte mise i numeri. Gli attori erano sul fondo. Lo spettacolo cominciava quando uno del pubblico entrava in questa rete e faceva scattare la lettera, come in battaglia navale. Lettera C con il numero 4. C’erano otto attori. L’attore C recita il pezzo numero 4 e via dicendo.
Il pubblico era obbligato in qualche modo a partecipare?
No. Lo spettacolo poteva anche non cominciare mai.
Quanto ci è voluto perché si attivasse?
Abbastanza presto. C’era una grande curiosità…
Tu partecipavi anche come attore?
No, l’attore mai. Ho sempre fatto il factotum. Comunque il mondo che ruotava intorno al Dioniso non era solo quello del teatro. Vi partecipavano artisti come Giordano Falzoni, uno che puoi definire veramente come l’ultimo dei surrealisti.
Falzoni collaborava con Celli?
Sì. A Spoleto dopo ogni spettacolo c’era una cosa proposta da Giordano.
Simone Carella e Bob Wilson
In cosa consistevano i suoi interventi?
Erano degli advertising show. Una sera dd esempio voleva costruire il vino azzurro. Era una cerimonia teatrale dove il pubblico era invitato insieme agli attori a costruire il vino azzurro. Si prendeva l’acqua, l’anilina e altri elementi. Giordano era una persona che riusciva a coinvolgere tutti. Dato che la cantina era nel centro di Spoleto, avevamo ottenuto l’attenzione dei giornali. Quell’anno lì poi c’era una mostra pazzesca intitolata 11 Artisti Italiani degli anni Sessanta con Kounellis, Mattiacci, Pascali etc. Ho ancora le foto…
E gli artisti sono venuti alle vostre serate?
No perché gli artisti fanno le mostre e poi se ne vanno.
Di loro chi conoscevi?
Ancora nessuno.
Kounellis aveva già realizzato qualcosa per il teatro?
Mi sembra di sì.
Mi ricordo che Kounellis aveva fatto le scenografie per lo spettacolo AlterAction di Egisto Macchi scritto da Mario Diacono.
Ah sì. Il regista di quello spettacolo, Sergio Tau, era fidanzato con Sophie Marland, un’attrice del Dioniso. Un’altra cosa da sottolineare è che il Dioniso era frequentato da tutti i musicisti d’avanguardia.
Quindi il pubblico era molto variegato…
Era un punto di riferimento di artisti in senso lato.
Quello che oggi si definisce interdisciplinare, all’epoca si faceva realmente, senza dichiararlo.
Non c’era nessun tipo di obbligo sociale. Si trattava di corrispondenze, curiosità, interessi, scambi tra persone di una stessa generazione. Attraverso il Dioniso ho conosciuto il mondo della musica d’avanguardia, dell’arte, della letteratura. L’anno successivo, nel 1968, mi sono legato al gruppo degli “Uccelli”.
Chi erano i componenti?
Roberto Federici detto Diavolo, Paolo Liguori detto Straccio e altri. L’occupazione del Campanile di Sant’Ivo alla Sapienza è stata una delle cose più belle mai fatte.
Simone Carella, Luci della città, 1976 spettacolo realizzato per la Rassegna Teatrale di Cosenza
E’ stato un episodio isolato?
Gli “Uccelli” era un gruppo formatosi all’interno della facoltà di Architettura, che occuparono costringendo Renato Guttuso a fare una decorazione sulla facciata dell’edificio di Valle Giulia. Occuparono il campanile del Borromini perché quella era la prima sede dell’Università La Sapienza. Da un punto di vista architettonico quel pinnacolo è simbolico. Rappresenta il fuoco della conoscenza in quanto si sviluppa su sé stessa e sopra c’è una corona a di fiamme. Andare là sopra e starci tre giorni è stata una cosa fantastica, un gesto difficilmente ripetibile. Contemporaneamente si andava a occupare le case.
Siamo nello stesso periodo della battaglia di Valle Giulia?
Sì.
Te avevi partecipato?
Io stavo a Giurisprudenza. Mi ero iscritto lì perché, avendo la maturità scientifica, non potevo iscrivermi a Lettere. Mi ero iscritto per vedere cosa succedeva ma non è successo un cazzo! Ho provato a sostenere un esame di Filosofia del diritto. Il professore mi interrogò e, vedendo che non ero preparato, mi chiese “Cosa sei venuto a fare qua?”. Ed io: “Voglio fare il teatro d’avanguardia. Mi sono iscritto per fare un anno.” Lui disse: “Faccia una cosa. Scelga se vuole fare il teatro d’avanguardia o Giurisprudenza!”. Io gli risposi: “Ha ragione. Faccio il teatro d’avanguardia!”. E me ne andai. L’anno dopo alla facoltà di Lettere venne il Living Theatre. Fummo tutti arrestati.
E l’esperienza del Dioniso è continuata?
Giancarlo Celli aveva portato avanti un altro esperimento intitolato Da zero a uno in cui il rapporto tra pubblico e spettacolo era esasperato. Non c’era più una struttura preordinata. Partiva da una vera assemblea teatrale. Il numero degli attori era infatti determinato dal numero del pubblico. Se c’era uno spettatore, c’era un attore; due spettatori, due attori, e così via. Tutto era paritario. Questo ha creato una profondissima crisi e rottura. Il gruppo teatrale originario si sciolse. Quindi ci fu la necessità di cercare dei nuovi collaboratori.
Così proposi a Giancarlo di andare a cercare all’Accademia di Belle Arti tra artisti e scenografi. Io ero molto coinvolto. Sempre con Celli un’estate siamo andati a fare una tournée viaggiante. Ci fermavamo per strada e simulavamo degli incidenti usando delle sagome di legno che mettevamo in mezzo alla strada. Succedeva un casino. Poi facevo finta di essere uno della Croce Rossa. Era un vero teatro di strada, provocatorio. Comunque a Giancarlo proposi di andare a trovare dei nuovi attori all’Accademia. Lì ho cominciato ad approfondire la conoscenza di Kounellis, Mattiacci e tutto il mondo che girava intorno alla Galleria l’Attico.
Quindi cominci a frequentare l’Attico in quel momento lì?
Sì, praticamente dopo la morte di Pascali. Pascali l’avevo visto una volta a via Ripetta mentre uscivo dall’Accademia con amici artisti come Mimmo Germanà e Gino de Dominicis, che era allievo per modo dire.
Quando l’hai conosciuto Gino?
In quegli anni lì. Gino ha sempre avuto un sacco di soldi. Era iscritto all’Accademia però aveva un appartamento all’ultimo piano nel palazzo di fronte. Comunque lì coinvolsi varie persone come Mario Romano o Nino Giammarco.
Ma organizzaste qualcosa all’interno dell’Accademia?
No, non abbiamo mai prodotto spettacoli. Era più un progettare. All’epoca c’era Sante Monachesi e tutta una cricca di studenti (Delli Santi, Romano etc.) che si era aggrappata a lui. Monachesi era un artista estroso. All’epoca aveva fondato il movimento agrà (agravitazionale) che sosteneva un’arte cosmica senza la gravità. Andava nei ristoranti con un codazzo di 10/20 persone. Regalava le opere ai proprietari e offriva da mangiare a tutti. Aveva anche fondato un corso per insegnare la tecnica dell’affresco. L’Accademia era un luogo molto vivace. Da lì ho conosciuto Gino e tutto il giro dell’Attico. Vidi la mostra dei cavalli di Kounellis.
E Lo Zodiaco di Gino l’hai visto?
Certo. Ero collaboratore di Gino, lo aiutavo a fare tutto. C’era un’amicizia stretta. A quel punto mi ero staccato dall’attività del Dioniso anche perché Giancarlo Celli voleva trasformare il gruppo teatrale in una vera e propria comunità anarchica e trasferirsi in Sardegna. A me della comunità non me ne fregava un cazzo. Così lui andò in Sardegna ed io rimasi a Roma stringendo rapporti con il giro dell’arte.
Simone Carella e Mario Romano, Iper-Urania, 1980 - Teatro Beat ’72
Hai frequentato i vari festival di teatro e danza all’Attico?
Sì. Avevo cominciato a collaborare con Fabio Sargentini facendo il factotum. Ho visto tutte le mostre. Dai cavalli di Kounellis all’asfaltatrice di Mattiacci alla macchina di Merz oltre tutti i vari festival.
Eri presente quando de Dominicis guidò il trattore a Piazza del Popolo?
No, ho visto solo il filmato.
Quindi hai conosciuto tutti gli artisti che hanno partecipato ai festival dell’Attico?
Certo. Charlemagne Palestine, Simone Forti, Trisha Brown, Deborah Hay, La Monte Young, Steve Paxton, Yvonne Rainer. Yvonne fece uno spettacolo pazzesco con Philip Glass. Venivano proiettare delle diapositive e loro due facevano azioni molto minimal.
Ritratto di Steve Paxton con dedica a Simone
Sargentini mi raccontava come in realtà non ci sia mai stato un vero dialogo con gli artisti locali…
E’ vero. Gli artisti italiani stavano sulle loro e li guardavano con sospetto perché la percepivano come una sottrazione di spazio.
In tutto questo il Beat 72 già esisteva?
Sì. Il mio coinvolgimento diretto nel Beat 72 avviene nel 1970 quindi in contemporanea all’esperienza dell’Attico.
Chi l’aveva fondato il Beat 72?
Ulisse Benedetti insieme al suo amico Fulvio Servadei, titolare di una nota profumeria a Roma. Erano due ragazzi di ventidue anni che erano andati alla ricerca di un locale dove ballare la domenica. Volevano fare un Piper alternativo, un Piper dei poveri. Al Piper si pagava mille lire, al Beat 300 lire e si ballava solo il sabato e la domenica. Avevano trovato una cantina a via Gioacchino Belli vicino Piazza Cavour. Visto che durante il resto della settimana non c’era programmazione, le persone andavano a proporre qualcosa.
Giuliano Vasilicò, Gianfranco Mazzoni, Giancarlo Celli stesso. Avevano addirittura organizzato un’assemblea sulle canzoni di Luigi Tenco o sul poeta beat Ivano Urban. La Beat Generation trovò nel Beat 72 il luogo dove raccogliersi. Lo stesso Carmelo Bene, non avendo spazi dove fare spettacoli, nel 1966/1967 si affittò il Beat 72 per un anno. Fece quattro spettacoli memorabili: Nostra Signora dei Turchi, Salomè, Amleto e Salvatore Giuliano.
Foto di gruppo al Teatro Beat ’72
Quando aveva aperto il Beat 72?
Nel 1965/66. Io ci sono andato nel 1970 per via di un gruppo di musicisti che avevo conosciuto: Antonello Neri e Giancarlo Schiaffini. Erano successivi a Nuova Consonanza, che era il gruppo d’avanguardia per eccellenza insieme a Musica Elettronica Viva ovvero gli americani (Alvin Curran, Allan Bryant, Frederic Rzewski), che suonavano nel teatrino di via Belsiana. Era una chiesa sconsacrata gestita dal gruppo di Dacia Maraini, Alberto Moravia, Gian Maria Volontè. Era un gruppo di teatranti, attori, intellettuali più rappresentativi e conosciuti.
Come si chiamava?
Teatrino di via Belsiana. Fecero tanti spettacoli tra cui Il Vicario di Rolf Hochhuth diretto da Carlo Cecchi con Gian Maria Volontè che fu bloccato dalla polizia. Era un testo molto provocatorio perché ipotizzava il coinvolgimento di Papa Pio XII con il nazismo per il fatto che non si fosse mai opposto pubblicamente alla Shoah. La polizia impedì fisicamente la realizzazione dello spettacolo. E’ stato uno degli episodi più eclatanti di quegli anni. Era il 1965.
Invece i musicisti che partecipavano ai festival dell’Attico frequentavano il Beat 72?
In generale no, anche se io fungevo un po’ da trait d’union. Veniva Steve Paxton perché era una persona straordinaria. Mi ricordo quando La Monte Young venne nel 1974 per presentare The Well Tuned Piano all’interno della rassegna “East-West Music” e voleva un pianoforte Bosendorfer.
Lo stesso di Charlemagne Palestine…
Sì. Fabio (Sargentini, ndr) era disperato perché non si riusciva a trovare. Quando me lo chiese, gli risposi “Ma ce l’abbiamo al Beat 72!”. Lo usavamo per la nostra stagione di concerti che si teneva ogni lunedì. L’idea era nata parlando con Antonello Neri al quale proposi di organizzare una serie di concerti al Beat 72 il lunedì (il giorno che facevano riposo). Mi presentai da Ulisse Benedetti, che all’epoca non conoscevo bene, il quale accolse subito l’idea. Lì iniziò la collaborazione con il Beat dove poi fui coinvolto più profondamente.
Nel 1971 infatti dissi a Ulisse che non aveva senso fare gli spettacoli in maniera random ma che avremmo dovuto organizzare una stagione. Io avevo già conosciuto Memè Perlini (da poco uscito dal Teatro La Fede), Giuliano Vasilicò (che al Beat aveva portato in scena l’Amleto), Bruno Mazzali (fondatore del “Patagruppo”) e Giorgio Marini. Così proposi di mettere insieme questi quattro registi e commissionarli uno spettacolo a testa in modo da avere una stagione. Così facemmo.
Fu la prima stagione di teatro sperimentale fatto a Roma. Presentammo Le 120 Giornate di Sodoma di Vasilicò, Pirandello Chi? di Memè Perlini, La conquista del Messico di Bruno Mazzali e L’Angelo Custode di Giorgio Marini. Una stagione coi contro cazzi che a Roma non esisteva. In più ogni lunedì c’era un concerto di musica contemporanea. Antonello (Neri, ndr) conosceva Angelo Fabbrini che affittava pianoforti e che gentilmente ci diede il famoso Bosendofer che poi prestammo a Sargentini per far suonare La Monte Young. Mi ricordo La Monte vestito da indiano con la barba lunga che quando lo vide gli prese un colpo.
Rossella Or in Pirandello Chi? di Memè Perlini, 1977 - Teatro Beat ’72
Con quel pianoforte realizzò il celebre Well Tuned Piano, che consisteva sostanzialmente nello scordarlo. Il “ben intonato” sarebbe come il clavicembalo ben temperato di Bach. Era intonato secondo una scala tonale indiana secondo cui gli intervalli di frequenza tra le note è costante.
Tutti loro (La Monte Young, Terry Riley, Charlemagne Palestine) erano molto influenzati da Pandit Pran Nath…
Soprattutto La Monte e Terry Riley.
Ritratto di La Monte Young con dedica a Simone, 1974
Prima mi hai detto che Palestine non volle suonare con quel Bosendorfer. Perché?
Figurati se voleva suonare sul pianoforte di La Monte. Anche se avesse voluto, era tutto scordato. Siamo dovuti andare a recuperare un altro Bosendorfer. Fu l’anno dopo però. Comunque La Monte Young si portò il suo a New York e lo vendette come opera a Heiner Friedrich. Come vedi le mie esperienze personali sono sempre intrecciate. Ne sono molto fiero.
La collaborazione con Gino de Dominicis si intensifica quando cominci a collaborare con l’Attico?
Sì. Dalla Mozzarella in Carrozza fino ad arrivare alla Biennale di Venezia del 1972.
Paolo Rosa (il giovane veneziano affetto dalla sindrome di down protagonista dell’opera Seconda Soluzione di Immortalità (l’universo è immobile), ndr) lo trovasti tu?
Esatto. Sono stato anche processato insieme a Gino per sequestro di invalidi con l’aggravante della premeditazione. Quando andammo al processo, l’avvocato Fabrizio Lemme mi disse che rischiavo 12 anni. Dagli atti processuali Gino risultava l’ideatore e mandante, ma io l’esecutore materiale del sequestro! Alla fine fummo assolti.
Quanto durò il processo?
Non ricordo. Tra l’istruttoria e tutto, saremmo andati a Venezia almeno un paio di volte. Io mi divertivo perché con Gino andavamo in grandi alberghi, al casinò. Facevamo la bella vita. Tutto nacque perché un giorno passeggiando a via Ripetta, Gino mi fece “Perché non vieni a darmi una mano a fare la sala alla Biennale?” e io gli risposi subito “Quando partiamo?”. La preparazione della sala fu un’esperienza straordinaria, come quella di cercare Paolo Rosa.
Ma lo trovi a Roma?
No, lì a Venezia. Gino appena arrivò nello spazio della Biennale fece togliere tutto il nero dal lucernario per avere la luce naturale. Poi mi chiese di cercare una persona un po’ “ritardata”, un po’ “così”. Io così sono andato in giro e in mezz’ora lo trovai. Andai a via Garibaldi vicino ai Giardini cercandolo con la scusa che dovevamo girare un film.
Quindi Gino l’opera l’aveva già pensata prima di venire a Venezia?
Sì, quella era la Seconda Soluzione di Immortalità.
Come avvenne l’incontro con Paolo Rosa?
Mi dissero che c’era questo ragazzo un “po’ così”. Andai a casa dei genitori. C’erano la mamma e il papà, che faceva il gondoliere. Dissi che lavoravo per la Biennale e cercavo un comparsa per uno spettacolo artistico. Gli chiesi se poteva venire loro figlio, spiegandoli che doveva semplicemente stare seduto su una sedia. Naturalmente gli offrivamo un compenso. Questo è quello che ci ha salvato. Non l’abbiamo fatto con l’inganno. Ovviamente mica potevo dire ad una casalinga che era la Seconda Soluzione di Immortalità! Loro accettarono.
Alla fine per quanto rimase aperta la sala?
Solo la mattina dell’inaugurazione. Giusto il tempo che arrivò il corteo ufficiale. Nella settimana di preparazione Gino aveva già sconvolto tutto il sistema della Biennale. Non si parlava altro che di lui. Ci siamo divertiti da matti. Per esempio alla Biennale quando cercavano qualcuno, veniva annunciato il nome all’altoparlante. Non esistevano i telefonini, quindi c’era un centralino. Gino mi disse: “Sai che fai? Vai dal centralinista, offrigli 10.000 lire e chiedi di fare un annuncio tipo “l’artista Gino de Dominicis è desiderato al telefono” o “chiamata intercontinentale per l’artista Gino de Dominicis” o “chiamata dal direttore del museo tal dei tali per Gino de Dominicis”.” Convinsi il centralinista che si trattasse di un’azione artistica.
Questo prima dell’inaugurazione?
Sì. Siamo stati una settimana a preparare la sala. In giro c’erano già molti artisti che allestivano. Quindi, quando si sentiva questa voce dall’altoparlante, tutti rimanevano stupiti. Il telefonista ci aveva preso gusto e lo faceva ogni 5 minuti. Era tutto un divertimento. Gino passava davanti alla sala dove erano esposti i Piedi di Luciano Fabro e faceva “Senti che puzza di piedi!”. Passavamo le notti a ubriacarci con Mario Merz. Gino si scolava ettolitri di vodka ma non dava mai in escandescenze.
Simone Carella e Allen Ginsberg a Castel Porziano, 1979
Nella sala della Biennale c’eri anche tu…
Sì. Facevo il giovane in Il Giovane e il Vecchio.
Il Vecchio chi era?
Uno di Venezia trovato lì.
Poi c’era la coppia che ballava con la musica nelle cuffie…
Sì. Erano le stesse ragazze che facevano le Vergini in Lo Zodiaco. I ragazzi che impersonavano i Gemelli sempre in Lo Zodiaco facevano invece una conferenza. La sala era molto complessa perché era una sorta di antologica.
Cosa successe con Arturo Schwarz?
Schwarz lo conoscevo perché era il suocero di Marco del Re, che faceva parte della compagnia Patagruppo. Mentre ero seduto in alto, Schwarz mi fece “Simone, non fare il buffone! Scendi subito!”. Ed io “Fatti gli affari tuoi. Vai via!”. Tutto nasceva dall’invidia dei milanesi per essere stati surclassati dai romani. I milanesi erano ancora aggrappati all’astrattismo. Ad eccezione di Manzoni, Fontana, Castellani, Bonalumi, avevano perso quella centralità che era passata totalmente a Roma. Si sono sentiti tutti spiazzati dal gesto di Gino. Hanno perfino detto che era una cosa irriverente perché il figlio di Giovanni Leone, il presidente della Repubblica, era spastico.
Non ho mai capito cosa è successo nei giorni successivi. È rimasto qualcosa nella sala?
Gino decise di lasciarla vuota. All’inizio ci doveva esserci un video fatto da Gerry Schum con solo un primo piano strettissimo di Gino. E forse sotto ci doveva essere l’opera audio della risata. Era una sorta di piano b.
Però non si fece niente?
Dopo aver fatto una sala così, che devi fare?
La videro in molti?
Sì, gli artisti e tutto il corteo di invitati all’inaugurazione.
Simone Carella, Il Mistero dello spettacolo: Marina, anni ’80 - Teatro Beat ’72
Quali furono le reazioni degli altri artisti? Merz, Fabro… erano tutti dalla parte di Gino?
Certo. Però i giornali, soprattutto i settimanali, avevano cominciato a prendersela contro Gino che era terrorizzato dall’idea che coinvolgessero la sua famiglia. Ha cercato di mettere tutto a tacere.
Fino a quando continui a collaborare con Gino?
Fino all’ultimo. Anche se non ci collaboravo realmente in quanto Gino aveva il suo assistente. Tuttavia lo vedevo sempre. Andavamo sempre a cena. Gli facevo dei lavoretti in amicizia. Mi ricordo che gli piaceva molto Victor Cavallo, soprattutto una sua battuta: “Ginko, quanto sei stronzo”. Mi disse che voleva fare un libro dove c’era solo la scritta in copertina “Ginko, quanto sei stronzo”. Una volta mi chiamò perché voleva escogitare un congegno a casa sua tramite il quale, nel caso ci fossero i ladri, far scattare dal soffitto una gabbia in modo da bloccarli.
Fino a che anno rimani coinvolto nelle attività del Beat 72?
Fino alla chiusura, nel 1992. Già prima era rimasto chiuso un anno perché giocavamo a ping pong.
Il celebre festival di Castel Porziano coincide con l’arrivo di Renato Nicolini, giusto?
Sì, nel 1979 quando ho pensato di organizzare il festival dei poeti. Anche se abbiamo collaborato con Ulisse Benedetti e Franco Cordelli, è una creatura totalmente mia in quanto fui io a volerla. Nicolini fu eletto assessore nel 1977 e fece subito Massenzio. Nel 1978 ci siamo detti “perché non andiamo a proporre qualcosa?”.
Nicolini lo conoscevi?
No. Nel 1977 al Beat si era organizzata una stagione della poesia ispirata all’antologia “Il pubblico della poesia”. Nel 1975, riprendendo il testimone dal Gruppo 63 e dalla pubblicazione della loro antologia, Franco Cordelli e Alfonso Berardinelli avevano scritto un’antologia di poeti post-Gruppo 63 (Dario Bellezza, Valentino Zeichen, Maurizio Cucchi, Paolo Prestigiacomo, Gino Scartaghiande. Ogni sabato dopo lo spettacolo si presentava un poeta.
Da sinistra Roberto de Angelis, Dario Bellezza, Amelia Rosselli, Renzo Paris, Valentino Zeichen
Il pubblico del Beat immagino fosse cambiato…
Era cresciuto. Era un riferimento.
Una domanda più in generale. In tutte le esperienze che hai fatto, rivedi un elemento caratteristico della Roma di quegli anni? Qualcosa di specifico, di non replicabile…
Indubbiamente c’era ed era quello che tu prima hai definito interdisciplinarietà. Personalmente la mia volontà era di animare un luogo dove si scambiavano continuamente le esperienze e pratiche artistiche senza distinguere tra teatro, musica, poesia, arte visiva, danza e arti performative.
Pur non avendo potuto vivere quegli anni, mi sembra che Castel Porziano rappresenti una sorta di cesura. E’ come se tutte le esperienze di ricerca portate avanti dalla fine degli anni ’60 avessero varcato una soglia immaginaria ed entrati in uno scenario molto più ampio. Solo il fatto che un festival di poesia potessero raccogliere una tale quantità di persone era significativo. Quante erano? 5.000?
Molte di più considerando le tre sere. E’ stata una scommessa favorita ovviamente dal precedente di Massenzio dell’anno prima. C’era una partecipazione collettiva agli eventi culturali. L’idea che proponemmo a Nicolini era di organizzare un Woodstock della poesia, un festival all’aperto invitando i più grandi poeti del mondo.
Festival Castel Porziano, 1979
Costò tanto?
Non moltissimo.
Chi c’era tra i poeti internazionali?
Erano 104 poeti di cui 90 stranieri. Gli americani c’erano tutti.
Il nome più conosciuto era Ginsberg?
Allen Ginsberg ma anche William Burroughs, John Giorno, Lawrence Ferlinghetti, LeRoi Jones…
Simone Carella e Allen Ginsberg a Castel Porziano, 1979
L’avevi già incontrato Burroughs?
No. L’ho conosciuto qui e poi l’ho rivisto a New York.
Era famoso in Italia?
Cazzo! Stiamo parlando del 1979. Tutti loro erano famosi! Dopo il successo di Castel Porziano, nel 1980 il Festival di Poesia si trasferì a Piazza di Siena dentro Villa Borghese, ma estendendosi anche al teatro, alla musica e all’astrofisica. L’anno dopo invece all’Università la Sapienza ci fu una tenzone poetica tra Roberto Benigni e i poeti in ottava rima. I festival dove veramente mi riconosco sono questi primi tre. Poi le cose piano piano cominciarono a cambiare.
Sempre nel 1981 c’è Miseria 81–Festival dei Nuovi Poveri a Campo Boario a Testaccio. Lo facemmo riaprire con Nicolini. Terminò con una sfilata dei trans organizzata da Michael Pergolani. Il primo premio consisteva in un pollo vivo. In quegli anni inizio anche a collaborare con tutto il gruppo de Il Male e di Frigidaire. Con Il Male avevamo organizzato al Beat le serate dell’immobilismo in contrapposizione al dinamismo futurista, invitando ad esempio Bobby Solo.
Manifesto Tunnel ’82-’83
Nel 1983 si tenne il Festival della Satira al Luna Park all’Eur. C’erano Stefano Tamburini e Andrea Pazienza, che dipinse un bellissimo quadro in un pomeriggio. Tutto questa stagione si conclude nel 1985 con la fine dell’assessorato di Nicolini. Quello che era un processo creativo spontaneo comincia a istituzionalizzarsi. Non a caso, nel 1986 nasce RomaEuropa con l’ingresso di capitale finanziario come Ina Assitalia.
E figure come Grifi, Bellezza, Cavallo, Serrao trovano ancora spazio in quel momento?
Lo spazio rimane perché gli spettacoli di Victor Cavallo sono stati negli anni ’80. In generale non si pensava a tesaurizzare la propria esperienza. Comunque non eravamo sempre chiusi al Beat; abbiamo fatto anche cose in altri teatri, ma nessuno pensava a crearsi un percorso che simulasse quello del mondo fuori. Oggi è diverso. Tutti fanno le tournée, si sono moltiplicate le occasioni.
Però molte delle persone che oggi hanno un ruolo di primo piano nel mondo teatrale italiano provengo da quelle esperienze di ricerca.
Sì. Giorgio Barberio Corsetti il primo spettacolo l’ha fatto al Beat dopo che avevo visto il suo saggio alla Silvio d’Amico. Lo stesso vale per Mario Martone.
Qual’era la differenza tra la vostra generazione e loro?
Certamente c’era un’origine più borghese. Io e Victor Cavallo ad esempio siamo degli accattoni di elezione.
Da sinistra Victor Cavallo, Patrizia Sacchi, Simone Carella, Mario Romano
Mi ricordo l’impressione che mi fece da studente scoprire in che condizioni viveva Alberto Grifi. Dimenticato dal mondo…
Eh sì. Pensa a come è morto Alberto. Praticamente non aveva casa. O Paolo Brunatto, un’altra figura fondamentale. Manco si è saputo che è morto.
Per concludere… guardando indietro con un certo distacco riesci a rintracciare un file rouge tra le esperienze seminali del teatro, musica, arte sperimentale degli anni ’60 e ’70 e la situazione attuale?
Un file rouge esiste nell’esperienza personale di ciascuno di noi. Io non mi potrò mai istituzionalizzare perché non ne ho l’indole. Mario Martone giustamente ha fatto cinque film, ha diretto teatri importanti. Giorgio, pur avendo diretto la Biennale di Teatro, è già più estraneo a tutto questo. A me non hanno mai proposto di dirigere la Biennale. Una volta mi chiamò il Teatro La Fenice a rimettere in scena Feu d’artifice. Era un balletto senza ballerini realizzata nel 1917 da Giacomo Balla con musiche di Stravisnky. Una piccola suite sinfonica di 3 minuti e 50 secondi. Sulla musica di Stravisnky, Balla avare realizzato una scenografia astratta che veniva illuminata a seconda delle diverse sequenze musicali con 130 cambiamenti di luce.
Scoprii questa cosa e trovai il modellino della scenografia alla Galleria La Salita. Mi sono detto “Cazzo. Io faccio il teatro senza attori e Balla nel 1917 ha fatto una cosa del genere”. Mi sono detto “Voglio vederlo!”. Così mi sono procurato i disegni originali e le piante dalle figlie di Balla e l’ho ricostruito in scala 1 a 4 dentro il Beat nel 1976. Mi feci da solo un impianto luce in grado di produrre tutti i 130 cambiamenti.
Dopo averlo rifatto al Teatro dell’Opera, mi invitò anche il Teatro La Fenice. Quando gli chiesi il compenso, mi risposero che potevano darmi 300.000 lire ovvero quanto mi aveva offerto il Teatro dell’Opera solo come extra - oltre tre milioni di cachet - per creare l’impianto delle luci! Mi dissero “Ma ne diamo 600.000 a Gianfranco de Bosio…”. E io “Allora fatelo fare a de Bosio!”. Capito come va il mondo?!