Opinioni pubbliche, denunce isteriche e il silenzio possibile / Blasfemia, censura e letteratura

6 Febbraio 2016

L'attacco contro la redazione di “Charlie Hebdo” del 7 gennaio 2015 a Parigi è stato il prologo alle stragi successive, come gli attacchi sincronizzati del 13 novembre 2015. Attraverso la scelta dell'obiettivo e con le loro motivazioni, i killer e i loro mandanti hanno tentato di legittimare quel gesto clamoroso e tutte le stragi successive. Viene da chiedersi se la redazione di una rivista satirica che vendeva circa 30.000 copie a numero sia davvero un obiettivo strategico in uno “scontro di civiltà” come quello che vorrebbero scatenare Al-Qaeda, il Daesh, i loro padrini teologici e i loro alleati.

 

Il 7 gennaio non è stato colpito un obiettivo militare, e nemmeno un simbolo come il World Trade Center (emblema ed epicentro della globalizzazione made in USA, a pochi metri da Wall Street) o lo Stade de France, dove stava per scendere in campo la nazionale di calcio francese. In fondo quelli di “Charlie Hebdo” erano solo stupidi scarabocchi! A essere trucidato orribilmente è stato un gruppuscolo di vignettisti anarcoidi, assai lontano dalla destra e guardato con diffidenza dalla sinistra. Insomma, un bersaglio in apparenza marginale, forse irrilevante.

 

Se non fosse che l'episodio è il culmine di una lunga serie di eventi, che ruotano intorno a una lunga campagna contro la blasfemia e al presunto divieto di raffigurare il Profeta. In altri termini, una guerra parallela alla guerra combattuta con le armi e i massacri sui campi di battaglia e nelle città, una guerra che si combatte nell'immaginario del mondo globalizzato.

 

Nel pamphlet Hanno ucciso “Charlie Hebdo” (Lindau, Torino 2015), Giulio Meotti, giornalista de “Il Foglio”, ricorda un'impressionante serie di antefatti. Il punto di partenza è la fatwa lanciata dall'ayatollah Khomeyni il 14 febbraio 1989 contro Salman Rushdie per il romanzo I versetti satanici: la condanna a morte per blasfemia ebbe gravissime conseguenze, a cominciare dall'omicidio del traduttore giapponese del romanzo e dal ferimento di quello italiano, Ettore Capriolo. Forse la terza guerra mondiale è iniziata con quella fatwa.

 

Meotti cita l'omicidio del cineasta olandese Theo van Gogh e il caso della sua amica Ayaan Hirsi Ali, deputata olandese di origini somale costretta a rifugiarsi negli USA. Ricorda la persecuzione contro gli autori delle vignette pubblicate dal quotidiano danese “Jyllands-Posten”, ma anche casi meno noti come quello della disegnatrice americana Molly Norris, letteralmente scomparsa dopo le minacce ricevute a causa di un manifesto dove si ironizzava sull'iconoclastia. Impressionanti anche le sequenze di censure e autocensure che riguardano il mondo dell'arte e quello del teatro: Meotti ne accumula decine, più o meno note.

 

L'intimidazione e la violenza si sono rivelate efficaci. La paura ha preso il sopravvento. Dopo l'attacco a “Charlie Hebdo”, la redazione di “Jyllands-Posten” – oggi protetta nella civile Danimarca come una base militare USA in Afghanistan – decise di non pubblicare più le vignette satiriche: “Siamo consapevoli che di fatto ci inchiniamo alla violenza e all'intimidazione” (p. 95). È solo una delle testimonianze accumulate in Hanno ucciso “Charlie Hebdo”. Se a volte la motivazione esplicita di censure e autocensure è il desiderio di non urtare la sensibilità della comunità musulmana, in genere emergono la paura e il timore di ritorsioni violente. L'obiettivo delle minacce? “Far calare un silenzio assoluto sulle democrazie e le loro opinioni pubbliche. E il metodo è sempre uguale: una minaccia violenta, l'isolamento di un 'provocatore', la denuncia isterica e corale di un'opera e di un testo di giornalisti, letterati, pittori, registi, vignettisti. È così che si è imposta l'immagine ribaltata di quello che l'Europa per mezzo secolo era stata, ovvero il rifugio di tante intelligenze, di tanti dissidenti, di tanti irregolari” (p. 22). Molti artisti hanno scelto “il genere del silenzio”. Quelli che rifiutavano di adeguarsi a questa retorica della reticenza, sono stati “normalizzati” da direttori e curatori timorosi delle conseguenze.

 

Il pamphlet di Meotti lancia una durissima denuncia. Per un equivoco multiculturalismo, per evitare complicazioni, per “una specie di autocensura collettiva dettata dalla paura” (Gijs van de Westelaken, p. 85), e naturalmente per salvaguardare interessi economici, elettorali, geopolitici, l'Occidente – secondo Meotti – ha ormai rinunciato a uno dei suoi valori fondanti: “è la storia di “una resa, di una abiura (…) il liberalismo occidentale ha sacrificato la libertà di parola nella sua risposta al caso Rushdie” (p. 33). La riprova? “Il tradimento e l'abbandono di 'Charlie Hebdo'” (p. 18), appena placata l'ondata di solidarietà emotiva causata dalle stragi. Dopo l'euforia di #JeSuisCharlie, l'hashtag che nell'immediato ha invaso i sociali network globali, la cronaca del 2015 è scandita da una progressiva dissociazione dai “vignettisti blasfemi”: “La strage è orribile, ma...”

 

Esemplare l'intervista che Hanif Kureishi ha rilasciato a “El País” il 7 giugno 2015: “Non bestemmio perché non sono così stupido. (…) Bestemmiare è un diritto, ed è molto importante. Io non lo userei, ma lo difenderei sempre”. Sul “Corrierre della Sera” Pierluigi Battista spiega che Kureishi “non è contro la bestemmia per qualche nobile motivo (…) Non si deve bestemmiare, perché è un gesto poco intelligente. Poco intelligente in che senso? Nel senso che devi essere intelligente per capire che se bestemmi ti accoppano, che finisci male, che vieni coinvolto in una carneficina, come i poveri vignettisti, che stupidi che erano, di 'Charlie Hebdo'” (Pierluigi Battista, Se essere “intelligenti” significa cedere ai nemici della libertà, “Corriere della Sera”, 2 agosto 2015).

 

Molti artisti, scrittori, colleghi, intellettuali, politici hanno preso le distanze da “Charlie Hebdo”. Compresi Papa Francesco, il Partito Comunista Cinese e “gran parte dell'élite culturale del Regno Unito” (p. 21) e degli USA, a cominciare da sei autorevoli esponenti del Pen Club, con una lettera aperta a firma di autori del calibro di Michael Ondaatje, Peter Carey, Francine Prose, Teju Cole, Rachel Kushner e Tajye Selasi. Il creatore di Maus, Art Spiegelman, si è visto rifiutare dalla rivista “The New Statesman” una copertina in cui difendeva “Charlie Hebdo”. (Su queste vicende, vedi anche, oltre al saggio di Meotti, l'intervento dell'autore di questo articolo, dal titolo Dopo la strage di “Charlie Hebdo”. La libertà degli artisti nell'era del fondamentalismo, al convegno “Blasphemia. Il teatro e il sacro”, Vicenza, 8 novembre 2015, in corso di pubblicazione).

 

Il “metodo Charlie” può anche suggerire imitazioni grottesche, come l'insensata lista di proscrizione dei libri “gender” emanata dal sindaco di Venezia, Brugnaro, nel luglio 2015 o il ridicolo inscatolamento della statue dei Musei Capitolini in occasione della visita di Stato del presidente iraniano Hassan Rouhani nel gennaio 2016, che ricorda le distruzioni dei patrimoni dell'umanità da parte del Daesh in Siria e Iran (su questo vedi anche Viviano Domenici, Contro la bellezza, Sperling & Kupfer, Milano 2015; sull'iconoclastia vedi anche su doppiozero Oliviero Ponte di Pino, Il grande vecchio e al guerra delle immagini).

 

La sequenza dei fatti riportata da Meotti è agghiacciante: l'assalto a “Charlie Hebdo” è la battaglia culminante di una lunga guerra contro la libertà di espressione in Occidente.

 

Se l'attacco a “Charlie Hebdo” è una presa di posizione ideologica e di propaganda, bisogna anche capire quali siano i suoi fondamenti religiosi, filosofici e giuridici. La “licenza di uccidere” rivendicata da imam e terroristi ha qualche fondamento teologico e legale? Affrontano il problema da diverse angolazioni gli autori chiamati a raccolta da Adalberto Melloni, Francesca Cadeddu e Federica Meloni in Blasfemia, diritti e libertà. Una discussione dopo le stragi di Parigi (il Mulino, Bologna 2015).

 

Sono in gioco due principi: da un lato la libertà d'espressione e la sensibilità di una parte della popolazione, dall'altro il diritto a non essere offesi. Entrano in conflitto due posizioni: “Irridere le religioni degli altri non è (e non può essere) libertà di manifestazione del pensiero” contro “Il rispetto delle religioni degli altri non limita (non può limitare) la libertà di manifestazione del pensiero” (p. 293).

 

In genere prendono le distanze da “Charlie Hebdo” gli studiosi di storia delle religioni come Massimo Campanini (“A mio parere l'irrisione e l'offesa della religione degli altri e dei personaggi sacri alle fedi altrui non può essere spacciata per libertà di pensiero” (p. 19), Giuseppe Ruggieri (“La garanzia che lo Stato offre alla libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale, non dovrebbe portare a configurare come reato le offese più gravi contro di esse, quale ad esempio quella che il Corano considera bestemmia contro il Profeta”, p. 32) e Mauro Perani (“Ci sembra di poter evidenziare che chi ha bisogno di irridere manifesti un atteggiamento in qualche modo basato sull'intolleranza, ossia sul bisogno assoluto che tutti gli uomini abbiano le sue stesse idee, credenze e sistema di valori”, p. 43). Dunque, anche se poi negano il fondamento teologico delle condanne a morte per blasfemia, tendono a imporre limiti alla libertà d'espressione.

 

I giuristi invece prendono atto di un processo di lunga durata “che ha portato diversi Stati ad abolire le leggi sulla blasfemia” (Mauro Gatti, p. 186). La tendenza è confermata, con qualche ambiguità, anche dalla giurisprudenza della Comunità Europea, che tutela la libertà di parola attraverso l'art. 10 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo. Nelle società “in cui è più spiccata è la garanzia delle prerogative del singolo”, scrive Cristiana Cianitto, “le religioni devono accettare il rischio del vilipendio, della critica aspra, senza reclamare una zona franca, assicurata un tempo dal reato di blasfemia e insulto alla religione (p. 209).

 

Vale la pena di ribadire due dati di fatto. In primo luogo le provocazioni di “Charlie Hebdo” si inseriscono in una lunga tradizione, la strenua difesa della libertà d'espressione e la lotta contro il fondamentalismo religioso che risale a Giordano Bruno, Baruch Spinoza e Moses Mendelssohn, e soprattutto all'Illuminismo (anticlericale) di Voltaire. In secondo luogo, nella produzione complessiva del settimanale, le vignette sulla religione e sull'Islam rappresentano una piccola quota. Due sociologi francesi, Jean-François Mignot e Céline Goffette, “hanno analizzato le 523 prime pagine pubblicate tra il 2005 e il 2015: in dieci anni, 38 di esse hanno riguardato la religione (il 7% del totale, contro il 65% relativo alla politica), fra le quali solamente 7 sull'Islam, cioè l'1,3% del totale” (p. 149). La satira contro l'Islam “è quantitativamente più che minoritaria nei confronti dell'insieme dei temi trattati, e nei confronti soltanto della religione cristiana” (Marie Levant, p. 168): il cristianesimo, i preti, il papa, Cristo si sono meritati vignette ferocissime, nel solco di una satira che ha illustri precedenti nella nascita del protestantesimo nel XVI secolo e nell'Ottocento positivista. Va inoltre tenuto conto che quello della rivista è “un giornalismo satirico, certo, ma comunque giornalismo” e che dunque i temi che affronta “corrispondono all'attualità” (Marie Levant, p. 159).

 

Un numero limitato di vignette ha suscitato una reazione feroce, sproporzionata, insensata. E la difesa è stata debole. Lo aveva raccontato a Al Jazeera Charb, il direttore di “Charlie Hebdo”, prima di essere ucciso nella strage del 7 gennaio: “Ogni volta che abbiamo affrontato l'islam radicale abbiamo avuto problemi, indignazione e reazioni violente. Ma quello che mi sorprende di più è la reazione delle autorità francesi, che ci hanno definito irresponsabili e provocatori. Noi rispettiamo le leggi francesi, non le infrangiamo. Abbiamo il diritto di utilizzare la nostra libertà di espressione così come la intendiamo” (citato in Meotti, Hanno ucciso “Charlie Hebdo”, p. 140).

 

A guardare i fatti – e le sentenze dei tribunali francesi – la grandissima maggioranza delle vignette di “Charlie Hebdo” è pienamente accettabile in qualunque società che dia qualche valore alla libertà d'espressione. Non sono razziste, non hanno un bersaglio unico, anche se magari le possiamo ritenere politicamente scorrette, inopportune, idiote, volgari, inutili, di cattivo gusto. Ma questi non sono reati. Su qualche vignetta invece si può forse discutere. Ma una persecuzione giudiziaria rischia di indurre forme di autocensura simili a quelle causate dalla paura. “Appare evidente che la norma penale sia lo strumento meno idoneo a realizzare la prevenzione della conflittualità sociale in materia di contrasti tra libertà fondamentali” (Cristiana Cianitto, p. 220), fermo restando che nel Codice Penale del nostro paese sono in vigore diverse norme che un magistrato zelante potrebbe applicare in caso di presunta blasfemia (il nostro è uno dei pochi ordinamenti in cui il reato è ancora sanzionato), oltre art. 724 (bestemmia). In particolare gli artt. 403-404 (vilipendio), art. 405 (turbatio sacrorum), art. 527 (reati contro la moralità pubblica), art 594 (ingiuria), art. 595 (diffamazione), art. 726 (turpiloquio) (Gabriele Fattori, pp. 230-231).

 

Senza ricorrere ai tribunali, c'è chi suggerisce altre opzioni. “Mi chiedo se non dovremmo adottare un criterio utilitarista/pragmatico ossia valutare le conseguenze dirette e indirette di quelle parole e di quelle vignette” (Massimo Giuliani, p. 291). È vero che l'uso delle vignette danesi, opportunamente veicolato dalla propaganda politico-religiosa, ha causato stragi in diversi paesi. Ma piegarsi a questo ricatto equivarrebbe a smettere di combattere la mafia perché sennò i mafiosi si arrabbiano e magari poi uccidono Falcone e Borsellino.

 

Ci sono altre ragioni per invocare limiti alla libertà d'espressione. In diversi paesi esistono leggi e regole contro lo hate speech, l'incitazione all'odio, e in particolare contro l'antisemitismo (anche se le vignette di “Charlie Hebdo” non ricadono nella fattispecie dello hate speech, pp. 213-215). Tra la difesa a oltranza della libertà d'espressione e i reati di negazionismo e antisemitismo si annida però un paradosso. Il primo a farne le spese è stato Dieudonné M’Bala M’Bala, comico francese noto per le battute caratterizzate da “un antisemitismo quasi patologico” e già condannato per “incitazione all’odio razziale”. Ha invitato ai suoi spettacoli noti negazionisti come Robert Faurisson, ha definito Bin Laden “il personaggio più importante della storia contemporanea” e si è spesso scagliato contro la “setta ebraica”, con pesanti ironie sull’Olocausto. Il 14 gennaio 2015 Dieudonné venne fermato, rinviato a giudizio per apologia del terrorismo (e poi scarcerato), per aver postato su Facebook una serie di frasi su “Charlie Coulibaly” (Coulibaly è il terzo attentatore implicato negli eventi del 7 gennaio). Dieudonné ha difeso così la sua parodia dell'hashtag #jesuischarlie: “Voglio solo far ridere e ridere della morte, proprio come Charlie”.

 

Anche sul versante del dibattito culturale, si scontrano diverse posizioni. In società sempre più multiculturali e multireligiose, c'è chi si scaglia contro una laicità che si arroga il diritto di arroccarsi in valori che ritiene sovrastorici (e dunque universali), a cominciare dalla libertà d'espressione. Dall'altro si obietta: “Negare ai musulmani, per principio preso, il senso della derisione nei confronti della loro religione non contribuirebbe a escluderli dalla forma di umanità, o almeno da una forma di modernità?” (Marie Levant, p. 175).

 

Per regolare il conflitto tra due valori inconciliabili, qualcuno invoca il “recupero della distinzione tra libertà e licenza”, perché “le libertà vanno esercitate con responsabilità”, ed eventualmente la creazione di “codici deontologici” (Cristiana Cianitto, pp. 221-222). Un tentativo di compromesso in questa direzione arriva dalla nuova Costituzione della Tunisia, l'unica democrazia emersa dalle “primavere arabe”: all'art. 7 dichiara che “lo Stato si impegna a diffondere i valori della moderazione e della tolleranza, a proteggere il sacro (le sacré) e a proibire di nuocere a esso. Si impegna a proibire le campagne con l'accusa di apostasia (takfir) e l'incitazione all'odio e alla violenza. Si impegna ugualmente a opporvisi”.

 

C'è poi il politically correct, che spinge a non offendere in alcun modo i nuovi cittadini europei e la loro sensibilità. Ne discute Paolo Naso alle pp. 265-273, invitando a “tenere a freno una tendenza che si manifesta con frequenza nelle polemiche pubblicistiche e politiche, sotto la spinta perlopiù di un populismo xenofobo, a considerare ogni manifestazione di autolimitazione nel linguaggio o di quelle che viene spesso erroneamente denigrata come 'correttezza politica', come una autocensura opportunistica, come un segno di codardia, come un cedimento al 'multiculturalismo' evocato spesso come il bersaglio di comodo” (Giancarlo Bosetti, p. 281). Paolo Naso propone come modello “mediano” il melting pot americano, la strada “di una coscienza della responsabilità nell'uso delle immagini e delle parole. Proprio perché la libera espressione del pensiero – anche nella forma pungente della satira – costituisce un bene primario per ogni democrazia, va usata con sapienza e coscienza” (p. 273). Anche perché le vignette satiriche hanno provocato la reazione prevista da Ernst Gombrich quando analizzava immagini analoghe, ovvero “incoraggiare gli avversari a riunirsi in difesa della loro fede” (Lucio Biasiori, p. 78).

 

Spinoza, che visse in un'epoca di guerre di religione e venne perseguitato da zelanti burocrati della sua stessa religione, aveva posto il problema nella maniera più chiara all'inizio del Trattato teologico-politico. Se “fossero perseguibili soltanto le azioni, e le parole rimanessero impunite”, i conflitti suscitati sotto il pretesto della religione “non potrebbero in alcun modo assumere un aspetto giuridico, né le dispute stesse si convertirebbero in conflitti” (cit. alle pp. 290-291).

 

D'altro canto, è sostanzialmente impossibile definire il confine tra un'espressione lecita e una illecita, tra il dicibile e l'osceno, in società sempre più complesse, dove s'intrecciano credenze, sistemi di valori, usanze diverse e contrastanti. Chi deve decidere i limiti della libertà d'espressione? I nostri parlamenti, le nostre leggi, o qualche religioso integralista che incita alla violenza? Affidare la definizione del limite alla coscienza e alla responsabilità dei singoli equivale a lasciare a tutti i più ampi margini di libertà: del resto gli artisti consapevoli conoscono la società in cui operano e i rischi che corrono. Certo, ci si può sempre affidare alle sanzioni sociali (il politically correct è anche questo, almeno in parte) e al comune sentire, ma con l'avvertenza che dietro di essi spesso si nascondono ipocrisia e conformismo.

 

Una cosa è certa. Piegarsi al ricatto dei violenti, censurare e censurarsi per paura, significa abbandonare uno dei cardini della modernità e della civiltà dell'Occidente. Significa sgretolare il fondamento della moderna democrazia. Significa castrare l'opinione pubblica. Per André Glucksmann, “cedere alle minacce equivale a permettere l'instaurazione di un embrione di sharia, la legge islamica, in Europa Occidentale. La libertà di stampa è fondamento della democrazia. Solo i tribunali possono porre limiti, e solo dopo la pubblicazione. In Europa non può esistere la censura preventiva” (p. 149). “Tutti devono accettare il ridicolo, nel rispetto della legge”, ha dichiarato Flemming Rose, direttrice delle pagine culturali dello “Jyllands-Posten”, nell'aula di tribunale dove nel 2006 veniva processato “Charlie Hebdo”.

 

Però il clima è diverso, più cupo, e sta già provocando ricadute inquietanti. La castrazione della satira è sintomo di una malattia ancora più grave, profonda, come ha avvertito la sensibilità di Salman Rushdie. Nell'affrontare la situazione dell'artista nella società contemporanea, è partito da Harold Pinter e dal suo rifiuto di spiegare il significato profondo, ovvero il “senso” o il “tema” delle sue opere: “Se il deciso rifiuto di Pinter si colloca a un'estremità dello spettro artistico, al polo opposto troviamo i sostenitori di un punto di vista che ho sentito esprimere per la prima volta da Wim Wenders. Il regista mi disse che nella nostra epoca complessa e disorientante era importante che nel narrare storie gli artisti evitassero accuratamente l'ironia. Ormai non potevamo più permettercela. Bisognava invece essere espliciti e cristallini, così che il pubblico, o il lettore, non avesse dubbi circa gli intenti dell'artista. Era un'affermazione importante dalle labbra dell'autore del solenne e, a mio avviso, profondamente criptico, Il cielo sopra Berlino. Così in quel film, chiesi a Wenders, gli angeli Bruno Ganz e Otto Sander appollaiati sopra la città come gargolle in carne e ossa, che guardano con invidia l'umanità dabbasso, e Peter Falk nel ruolo dell'ex angelo che ha rinunciato all'immortalità per poter vivere la vita invece di limitarsi a osservarla – quegli angeli andavano 'letti' testualmente? Sì, rispose Wenders inequivocabile. Peccato, pensai.”

 

Rushdie concluse così la sua lunga riflessione, poche settimane prima dello sterminio di “Charlie Hebdo”: “Come Harold Pinter, preferisco di gran lunga il linguaggio dell'artista, ambiguo e indiretto, che consente molteplici letture di un'opera. Ma, seguendo l'esempio di Harold, non posso, come cittadino, evitare di parlare dell'orrore del mondo in questa nuova era di caos religioso e del linguaggio che lo evoca e lo giustifica, così che i giovani, inclusi i giovani britannici, spinti verso azioni di estrema brutalità, sono convinti di combattere una guerra giusta” (Salman Rushdie, Lo scrittore e l'integralista, “la Repubblica”, 19 ottobre 2014).

 

Un anno dopo questo intervento, Rushdie è stato invitato a tenere il discorso d'apertura alla più importante fiera del libro del mondo, la Buchmesse di Francoforte. Il 13 ottobre 2015 il suo intervento era particolarmente atteso, anche perché in segno di protesta l'Iran aveva deciso “di ritirare il suo stand alla fiera, ripetendo i motivi ('insulto all'Islam e ai valori della religione') con cui nel 1989 l'ayatollah Khomeyni pronunciò la condanna a morte (la fatwa) contro l'autore dei Versi satanici”. Rushdie esordì: “Dovremmo considerare la libertà di espressione come un fatto naturale, inconfutabile, come l'aria che respiriamo. Ma non è così finché uno Stato minaccia scrittori, editori, librai. Voglio però che sia chiaro che limitare la libertà di pensiero e d'espressione non è solo un atto di censura: è un'aggressione alla natura umana”. Alla fine Rushdie lanciò un appello ai “guardiani della libertà”: “Sfidiamo le paure. La letteratura non ha paura” (Ranieri Polese, Appello di Rushdie “La libertà di parola non è trattabile”, “Corriere della Sera”, 14 ottobre 2015).

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