Gianni Sassi Millepiani
Come si fa a mettere in mostra Gianni Sassi, cioè il suo lavoro, gli infiniti progetti a cui ha dato vita fra gli anni Sessanta e Novanta di un Novecento sempre più sideralmente lontano?
Stiamo parlando – per chi non lo conoscesse, e ahimè sono in molti – di una delle figure più importanti della cultura italiana di quel periodo. Sassi è stato la mente dietro la Cramps Records degli Area e degli Skiantos, ma anche di John Cage, Steve Lacy e molti altri; è stato lui a inventarsi quel festival oggi inimmaginabile che fu MilanoPoesia; e c’era sempre lui dietro ad “Alfabeta”, forse l’ultima vera rivista culturale che abbiamo avuto in Italia. Ma Sassi è stato anche un grafico rivoluzionario, un promotore di eventi controcorrente, un pubblicitario sui generis, che fra le altre cose si è inventato Battiato – questo Battiato – e una rivista, “La Gola”, che faceva del cibo un argomento degno di discussioni ‘alte’. Più ampiamente, stiamo parlando di un personaggio che per trent’anni ha messo in moto idee e situazioni, lavorando insieme a intellettuali come Nanni Balestrini e Umberto Eco, Gianni-Emilio Simonetti e Demetrio Stratos, Francesco Leonetti e Maria Corti – ma si potrebbe andare avanti elencando decine di altri nomi.
Insomma, come si può contenere tutto questo nello spazio di una mostra? E una mostra è davvero lo spazio giusto per raccontare ciò che Sassi ha fatto?
Una risposta prova a darla Gianni Sassi. Gioia e Rivoluzione, la mostra dal titolo ‘areano’ che ha inaugurato lo scorso 21 febbraio all’ADI Design Museum di Milano, e che resterà aperta fino al 22 marzo. A curarla è Aldo Colonetti, supportato dalla Fondazione Mudima di Gino Di Maggio e da un comitato scientifico composto da altri sodali di Sassi. L’art direction è invece di Faycal Zaouali, l’ultimo grafico a lavorare con lui, e la messa in scena di Studio Azzurro.
Non si tratta della prima mostra in assoluto su Sassi. Nel 2016 Mudima gli aveva dedicato una splendida retrospettiva, di cui è testimonianza il volume Gianni Sassi uno di noi; in piena pandemia, il Teatro Out-Off di un altro suo compagno di viaggio, Mino Bertoldo, aveva programmato tre serate su di lui, con annessa esposizione di materiali; e nel 2023, nella Pesaro dell’amico fraterno Franco Bucci, la figlia Viviana aveva proposto una mostra incentrata sulla “Gola”.
Detto questo, Gianni Sassi. Gioia e Rivoluzione non si limita a replicare ciò che è già stato fatto. Chi ha avuto la fortuna di assistere alle mostre che ho appena ricordato difficilmente avrà una sensazione di déjà-vu. E ciò malgrado alcuni materiali fossero già stati esposti in quelle occasioni.
Sono tre, direi, le idee forti dietro la mostra attualmente in corso. La prima è la scelta di concentrarsi su un numero ridotto di materiali. A fronte di una vastissima quantità di testi, immagini, manufatti, gli allestitori hanno puntato su alcuni dei lavori più iconici di Sassi, disponendoli – seconda idea – in cinque stanze, ciascuna delle quali ruota intorno a una parola chiave: grafica, cibo, arte, musica, poesia. Che poi sono i mondi che lungo tutta la sua carriera Sassi ha attraversato, non di rado mettendoli in comunicazione.
Sta di fatto che visitando la mostra si possono vedere, fra le altre cose, varie copertine di “Alfabeta” e della “Gola”, i poster pluri-pannello, se si dice così, di MilanoPoesia, alcuni dischi Cramps, ascoltabili tramite apposite postazioni sonore. C’è anche il disegno alla base della storica copertina di “bit”, anno 1967, quella accompagnata dal claim “Dipingi di giallo il tuo poliziotto”. E ci sono due dei pianoforti ‘preparati’ (rispettivamente da Ben Vautier e Arman) provenienti da Pianofortissimo, la rassegna pianistica ospitata da Mudima nel 1990. Tutta la mostra, poi, è costellata da varie fotografie, per lo più scattate da Fabrizio Garghetti, il più fedele dei fotografi-collaboratori di Sassi, che catturano alcuni momenti clou della sua carriera: come la 24h?Satie, la maratona pianistica del 1980 al Teatro di Porta Romana, con Juan Hidalgo e Walter Marchetti che suonano per ottocentoquaranta volte Vexations di Erik Satie; o come le riunioni fuoriporta di “Alfabeta”, quando Sassi&co. andavano in Francia per incontrare Balestrini, lì ‘in esilio’ dopo il famigerato processo del 7 aprile 1979.
E poi – terza idea – lungo il percorso è disposta una serie di installazioni video. Oltre a una riproduzione in scala della mostra Gli stili del corpo, promossa dalla Coop a fine anni Ottanta, ci sono sei monitor che trasmettono altrettante interviste ad artisti legati a Sassi, da Nam June Paik a Wolf Vostell, da Ben Vautier a Yoko Ono. Nell’ultima stanza c’è invece un montaggio di spezzoni tratti da diverse edizioni di MilanoPoesia: un’ora abbondante di video in cui sono in azione Edoardo Sanguineti, Amiri Baraka, Andrea Zanzotto, Evan Parker, Paolo Volponi e moltissimi altri. Autori spesso distanti anni luce, ma che il contenitore progettato da Sassi (con in regia prima Antonio Porta e poi Giovanni Raboni) idealmente avvicinava.
Prima mi chiedevo se una mostra è lo spazio giusto per raccontare Sassi, proprio per via della natura – come si dice oggi – transmediale dei suoi progetti, che non nascono per essere affissi a delle pareti. Probabilmente, i video in questione restituiscono questa idea, e insieme suggeriscono come per Sassi l’importante fosse il processo più che il prodotto, le idee ‘in divenire’ più che gli oggetti in sé.
Ma forse è un’altra la domanda da porsi. A chi si rivolge questa mostra? Qual è il suo fruitore ideale? In prima battuta, credo, Gianni Sassi. Gioia e Rivoluzione è pensata per chi non ha mai sentito parlare di Sassi: per qualcuno che visitandone gli spazi può entrare in contatto con alcuni dei suoi ‘pezzi’ più noti, e con le idee alla base del suo lavoro. E sfido che, una volta usciti, non se ne voglia sapere di più, per esempio andando a riscoprire le riviste che Sassi ha realizzato, ad ascoltare altre musiche, a recuperare cataloghi e via dicendo.
È vero, però, che anche chi ha familiarità col lavoro di Sassi può trovare il suo spazio, anzitutto scoprendo materiali non così noti, magari solo visti in rete o su qualche libro. Penso, per quanto mi riguarda, e solo per fare un esempio, a quel bellissimo poster in cui dalla vagina di una donna corpulenta immortalata da Fabio Emilio Simion – la maschera è quella di una Marilyn sfatta – escono parole piuttosto eloquenti: “La ‘creatività’ contemporanea è una forma di obesità culturale, a carattere epidermico. Le sue cause vanno ricercate nella ipertrofia della società mercantile-spettacolare. Le sue conseguenze portano al suicidio della creatività stessa”. Estetica situazionista, certo: ma quell’immagine, risalente ai primi anni Settanta, era stata poi utilizzata per promuovere la mostra, già ricordata, sugli Stili del corpo: a dire della capacità di Sassi di rifunzionalizzare i materiali con cui lavorava, di far convergere l’underground e il mercato, le logiche dell’avanguardia e quelle più istituzionali. E non mi soffermo sul testo in sé, che se solo si provasse a prendere sul serio…
Allo stesso doppio target si rivolge anche il programma di iniziative che affiancano la mostra, una per ogni sabato del mese, con un incontro con musicisti Cramps, la presentazione di un libro su Sassi, la visione di un docufilm a lui dedicato e, nella giornata conclusiva, un evento di poesia che – chissà – più di trent’anni dopo riprenderà le fila di MilanoPoesia. Tutte occasioni che consentono a chi ancora non lo conosce di avvicinare Sassi, ma che allo stesso tempo invitano ad approfondire la sua figura, magari anche a porsi la domanda più difficile di tutte. Cosa ne è oggi del suo modo di fare cultura? C’è qualcuno che lo ha ripreso o è in grado di riprenderlo, di farsi ispirare dalle idee che lo animavano?
Ovviamente, una risposta non c’è; o meglio, tutti si daranno la risposta che credono. Ammesso che vogliano darsela. Perché in fondo, come è giusto che sia, ci si potrebbe limitare a osservare ciò che è esposto, per il puro gusto di entrare in contatto con dei prodotti artisticamente straordinari, senza andare troppo in là con le interpretazioni.
Ma a volersi spingere più a fondo, è probabile che la risposta non possa che essere negativa: no, non c’è alcuna eredità, nessuna attualità nel lavoro di Sassi. Chi oggi lavora o lavorerebbe così, passando disinvoltamente da un’arte all’altra, mettendo in piedi iniziative sempre più ambiziose? Chi può contare su un’identità – visiva e progettuale – talmente riconoscibile da attraversare i decenni? Chi, soprattutto, ha il coraggio di infischiarsene di ciò che può funzionare, cioè vendere? Anche sforzandomi, non mi viene in mente nessun nome.
Eppure, sono convinto che se si prova a scavare più a fondo, interrogandosi su ciò che sta dietro al lavoro di Sassi, possano emergere delle idee che è quantomeno utile sentir risuonare. L’idea, intanto, che per fare cultura non si debbano avere per forza a disposizione grandi capitali. Per tutta la vita Sassi ha lavorato senza soldi, o con soldi che si trovavano a fatica, e che anche quando si trovavano venivano investiti in progetti sempre più ambiziosi. L’idea, poi, che si possa sperimentare restando dentro il mercato, senza rifiutarne le regole ma anche senza affamarlo degli stessi prodotti che ci spinge a consumare. Soprattutto, l’idea che progettare sia sempre un fare comune, che implica dare forma a gruppi di lavoro entro cui il proprio ‘io’ rimpicciolisce o proprio scompare.
Se c’è una cosa che colpisce attraversando le stanze della mostra è che la firma di Sassi non ricorre così spesso. Non metteva in bella mostra il suo marchio, a volte nemmeno firmava i suoi lavori. Al tempo dei content creator e dell’autorialità diffusa è una scelta che può apparire incomprensibile, lontanissima dalla sensibilità, se è sensibilità, oggi imperante. Ma forse proprio la sua inattualità può suggerire che un altro modo di agire è possibile; o almeno, magra consolazione, che c’è stato un momento in cui era possibile.
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Alessandro Del Puppo, Arte e controcultura (1967-1968)
