Manganelli: basta con il Natale!
Basta con il Natale!, l’esclamazione prorompe dalle pagine de Il presepio (Adelphi 1992) che Giorgio Manganelli sta redigendo alla fine degli anni Settanta nella sua casa romana seduto alla macchina per scrivere. In verità nel dattiloscritto che esce dal rullo della macchina non dice proprio così. Manganelli è più sottile, meno greve, ma non per questo meno diretto o pesante: “La mia memoria dei Natali infantili è estremamente penosa”; e ancora: “I preparativi per il Natale hanno qualcosa di cupo, di tetro, per l’appunto come preparativi per tener testa ad una invasione, o ad una minaccia non precisa che si addensa sulle nostre indifendibili frontiere”. Cosa ha il Natale per sembrargli così pernicioso? Al Natale “non si dà fuga; in nessun modo”. Nessuno può evadere dal Natale.
Per questo Manganelli decide di immergersi nel Natale, lo fa affrontando una delle sue “istituzioni”: il presepe. Il testo che sta scrivendo ha come oggetto proprio questa “scena”, come la chiama Manganelli. Questo è il presepe. Se c’è una felicità natalizia – e chi la nega? – c’è però anche una certa “infelicità natalizia”, scrive chi ha redatto il risvolto di questo libro stampato postumo nel 1992, vent’anni dopo essere uscito dalla macchina del Manga. Come tutti coloro che riescono a vedere l’altra faccia delle cose, il luogo in ombra, oscuro, nascosto, egli coglie l’elemento pericoloso che il Natale reca con sé, quello stesso che lo rende davvero rischioso, difficile, grave.
Il Natale è la festa dei bambini, per i bambini. Anche gli adulti quel giorno diventano bambini. Ma se fa parte della galassia infantile, è anche vero che questo accade perché è uno dei “riti necessari alla produzione dei morituri”. Di più: con il Natale, e non solo con questo, si fa “moneta dell’infanzia per dilazionare il disastro del mondo”. Ritiene che sia un modo per procrastinare il disastro usando l’infanzia. Non c’è rimedio tuttavia a tutto questo, dal momento che se bastasse porre fine al Natale per scongiurare questo stato di cose, staremmo tutti meglio. Ma al Natale non si sfugge, ripete, ragione per cui non lo si può neppure abolire.
Cosa trova di così terribile Manganelli nel Natale? Il fatto che è uno spettacolo: messa in scena di una nascita; chiama tutti ad assistere a questo evento. Ma è proprio un evento? Ne dubita. Il presepe è la negazione della nascita. Nel presepe non nasce nessuno. Le statuine vengono poste lì per rappresentare. Non nasce nessun Bambino. Nel Natale convergono, e in parte si confondono, il Bambino, ovvero Gesù, il-già-nato, e il Vecchio, ovvero Babbo Natale, la vecchiezza come forma del Mondo. Forse si confondono anche le due coppie puer-senex e senex-puer; si tratta in definitiva dell’incontro tra due mitologie e due teologie.
Quello che disturba lo scrittore è che il Natale sia essenzialmente una rappresentazione. Tutto complotta per produrre le innocue lacrime del sentimentalismo che hanno il solo scopo di tenere a bada suicidio e omicidio, tutta la volgarità “contro cui preme la demenza”. Che sono poi i sintomi della condizione umana, profondamente umana. Scrive nelle prime pagine: “Quelle fragili fole natalizie erano terribilmente pertinenti la denuncia della mia, della nostra indecorosità; ero circondato da magie sarcastiche. Investiva le famiglie di una nobiltà sacerdotale che non poteva svelare l’odiosa, repulsiva tristizia dei conflitti coniugali e filiali. Erano, e sono, giorni, notti fitti di fantasie funerarie, anche delittuose; il tutto mescolato a pianti di verace compunzione, a teneri abbandoni, a propositi inani di riscatto, dopo naturalmente, quel delitto che per altro era impossibile”. E ancora: “mai come a Natale la demenza si lascia respirare ai dementi”.
Nel presepe, istituzione natalizia in cui Manganelli stesso si iscrive con un gesto proditorio, e anche felice, nonostante tutto, si manifesta l’infelicità stessa del Natale, “una infelicità esclusiva, viscida, serpentesca, e insieme calamitosa”. Nella sua visione apocalittica che gli fa vedere nel Natale una cigolante macchinazione cosmica, si produce uno spettacolo. Una rappresentazione che occulta ogni altra cosa e ci fa guardare le figurine di cartapesta del presepe. Eccole: la Madre, il Padre, i Pastori, la Vecchietta, il Ruscello, l’Asino e il Bue. E poi: gli Angeli, e persino i pipistrelli. Senza la Madre la rappresentazione stessa non sarebbe neppure pensabile, non prenderebbe avvio la macchina teatrale che include il Bambino. Lui, che ne sembrerebbe il protagonista, non lo è.
Il presepe “non ha fondali; dietro non c’è niente”. Che si tratti di una mangiatoia o di una spelonca, di una grotta o di una caverna, in ogni caso è un luogo di passaggio, un corridoio. Il presepe è collegato con l’Inferno, ne rappresenta, a detta di Manganelli, una delle porte d’ingresso. Da dove viene il presepe, dal Cielo o dal mondo ctonio? Com’è possibile che esca proprio dal basso? Perché è degli inferi la simulazione, si risponde. Dal buio della caverna sono usciti il Padre, la Madre, il Bambino. Altrimenti non si spiegherebbe la sua capacità di essere fonte purissima d’angoscia. Il Natale la suscita, questa angoscia.
Nelle pagine di questo dattiloscritto rinvenuto da Ebe Flamini tra le carte di Manganelli dopo la sua morte, sono due i personaggi che più colpiscono: l’asino e il bue. A sua detta si tratta degli unici esseri viventi dell’intera rappresentazione sacra: non somigliano per nulla alle statue taciturne, ai simulacri senza età. Loro non escono dalla caverna, non appartengono al mondo infero. La loro è una singolare alleanza. “Un errore li ha generati”, scrive. Sono due animali umili, percossi, e uno, il bue, poi, è castrato. Questo è poi un vero enigma. La mitezza del bue ha qualcosa di torvo. La sua natura è di essere appunto un castrato: era un toro poderoso, scrive Manganelli, e generante. La sua mitezza è il rovesciamento della forza. L’asino è la potenza del sesso, la sua forma furente, persino pericolosa. I due animali sono i veri padroni di casa – stalla, mangiatoia, caverna, antro, rifugio –, loro due, il castrato e il priapeo, sono quelli posti più vicini al Bambino. “Sono viventi che amano la noia”, scrive.
Seduto alla sua macchina per scrivere, questo teologo negativo batte furiosamente sui tasti producendo un delirio a-teologico, una sua macchina teologica (sia pure di teologia negativa) da opporre a quella delle figurine di cartapesta che giacciono nel presepe. La sua è una felicità del vanverare, del parlare a vuoto, che tuttavia coglie un elemento fondamentale: la natura infera di questa scena che colleghiamo all’avvento del Regno, alla Nascita del Salvatore, alla venuta di Gesù nel Mondo. Il Bambino c’è già, è lì. Non è nato, c’è.
Il libro si conclude con una scena. E non si sa dove Manganelli l’abbia trovata, in quale presepe l’abbia vista. Forse l’ha sognata? Forse. Eccola. La Vecchia, figura archetipica, cava dalla sua sacca una trottola e la lascia cadere nel buco: nel nulla, nell’antro infernale che si apre dentro il presepe. Dal buco è uscito il Natale stesso con la sua forma infera. “Per quel bel bambino”, dice la Vecchia. Poi getta la trottola policroma, oggetto magico, che “subito discende con un sibilo melodioso, infernale”. È fatta. Nessuno può più fuggire. Il Disastro è accaduto. Si dia inizio alla festa. Il Natale può cominciare. L’angoscia è al culmine, la catastrofe dispiegata. Sediamoci a tavola tranquilli e pranziamo. Viva il Natale!