Meredith Monk, voci dal profondo

10 Maggio 2024

Descrivendolo come luogo ideale per la musica (anche se l’asserita eccellenza dell’acustica è ormai una sorta di leggenda metropolitana), l’illustre pianista András Schiff è solito ribadire che al teatro Olimpico di Vicenza (anno 1585, architetto Andrea Palladio, scena fissa prospettica di Vincenzo Scamozzi) è opportuno suonare solo Bach e Beethoven, Haydn, Mozart e Schubert. Schiff realizza nella sala palladiana, da oltre un quarto di secolo, un importante festival internazionale, e le sue scelte di programma non si sono quasi mai scostate da questi autori. Per fortuna, c’è chi la pensa diversamente. Ad esempio, il jazzista e musicologo Riccardo Brazzale, fondatore e direttore di un festival giunto alla ventottesima edizione, propone nello stesso spazio selezionati incontri con il miglior jazz disponibile fra Italia, Europa e Americhe. Restando al pianoforte, Uri Caine e Brad Mehldau sono passati di là.

In questo ‘auditorium’ del tutto particolare, i compositori rinascimentali e barocchi sono naturalmente ammessi ‘d’ufficio’, ma anche il Novecento storico è ormai ampiamente sdoganato, Stravinskij in testa, e semmai è la musica del nostro tempo quella che rimane sulla soglia. Non si dice di rock e pop, tecnicamente esclusi a prescindere (qualsiasi cosa si pensi nel merito) per i limiti di decibel ovviamente imposti dalla Sovrintendenza ai monumenti (banalmente: è vietato fare troppo rumore). Ma di tutta la composita galassia creativa in cui si entra attraversando il ‘buco nero’ della Nuova Musica post-weberniana, oltre il quale ci si trova in mondi inattesi e sorprendenti, anche se tendenzialmente sempre più simili uno all’altro. Per dire, mai la musica di Luigi Nono, o di John Adams, o di György Ligeti è risuonata al cospetto delle statue che adornano la frons scenae, imperitura memoria dei nobili componenti dell’Accademia (tuttora esistente) che volle realizzare questo teatro. Del resto, la volta che a Vicenza arrivò Philip Glass (era il 2010), chiamato a eseguire personalmente un florilegio dei suoi pezzi per pianoforte solo, lo fecero salire su di un palco in Piazza dei Signori. Dove, comunque, gli organizzatori poterono contare su di un pubblico almeno doppio di quello che può prendere posto all’Olimpico. E pazienza se l’amplificazione lasciava alquanto a desiderare.

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In questo quadro, il recente debutto all’Olimpico di Meredith Monk (New York, 1942) – unica data italiana quest’anno – ha avuto il senso non solo di un recupero del tempo perduto, ma anche e soprattutto della scoperta che nuovi orizzonti sono possibili anche nel teatro coperto più antico del mondo. Peraltro, essendo universalmente riconosciuto che l’artista americana non si può confinare in un genere preciso e determinato (non solo musicista, cantante, coreografa, ballerina, regista, ma tutto questo in un mix creativo sicuramente coinvolgente e soprattutto molto comunicativo), definire lo spettacolo proposto all’Olimpico come un concerto appare sicuramente riduttivo. Anche se non fuorviante. Sotto il titolo Duet Behavior 2024, Monk si è presentata insieme al percussionista John Hollenbeck (Binghamton, NY, 1968), con un programma di una decina di pezzi che spaziavano cronologicamente dagli anni Settanta di Songs from the Hill (“Wa-lie-oh” e “Insect Descending”)  agli Ottanta di Light Songs (“Click Song #1”) e Book of Days (“Madwoman’s Vision”), per arrivare fino a brani recentissimi, come il militante May the Dark Ignorance of Sentients Beings Be Dispelled , scritta a quattro mani con Hollenbeck nel 2022, o Simple Sorrow, che è del 2020.

Nell’insieme, oltre il carisma performativo di Monk (che sfocia in un magnetismo comunicativo ancora più fascinoso considerando la sua rispettabile età), un piccolo polittico piuttosto diseguale. Le ascendenze minimaliste della scrittura musicale, mediate da un’inventiva intermittente nella quale la riflessione su John Cage e Steve Reich è elaborata in maniera talvolta perfino un po’ scontata, sono tuttavia solo un aspetto di queste proposte. Né l’evidenza di una scrittura tendenzialmente improntata alla modalità (rivisitazione ‘arcaica’ dell’armonia tonale che attraversa tutta la musica da almeno un secolo), a scale pentatoniche e altri dispositivi più o meno ‘etnici’, cambia il punto. Che consiste in due aspetti strettamente collegati fra loro.

Il primo è l’uso della voce: con sorprendente freschezza, considerando l’anagrafe, Meredith Monk attraversa mondi musicali di interesse diseguale con formidabile profondità. Anche nei 70 minuti della sua performance all’Olimpico si è avuta la palmare dimostrazione di quanto la voce, in questa procedura creativa, possa essere allo stesso tempo mezzo per comunicare e fine espressivo. Una scelta che finisce per relegare in secondo piano la parola stessa, che in quest’arte deve cedere il passo del significato al metamorfico suono elaborato dalle corde vocali, ad altezze definite o meno, secondo moduli melodici o meno. 

In secondo luogo, il messaggio. Esso consiste nel mezzo, come raramente avviene anche nella musica contemporanea. Per esempio, in un pezzo famoso come Happy Woman (da Cellular Songs, 2017), gli aggettivi che accompagnano e delineano questa molto particolare descrizione della condizione femminile, sul piano sonoro non hanno che in minima parte il corrispettivo semantico – nella relazione fra musica e senso del testo – che accompagna la musica occidentale dai suoi albori. L’entità materica del suono vocale, così come plasmato da Monk, basta a sé stessa e sintetizza significante e significato. Lo Zen e l’arte della manutenzione della voce, viene da dire. Una visione del mondo che nasce dal suono interiore appartenente a ciascun componente della specie Homo Sapiens, ma che solo pochi hanno saputo e sanno rendere oggetto e metodo di contemplazione e di comunicazione come è riuscita a fare, in una vicenda artistica ormai sessantennale, Meredith Monk.

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Per questo, la performance all’Olimpico ha avuto le cadenze e gli sviluppi di un incontro fra maestra e discepoli, nell’evidenza che praticamente tutti quelli che gremivano le gradinate e la platea avevano nei confronti della performer americana lo spirito (e la gratitudine) di chi si è affidato al verbo di questa sciamana dell’espressione di sé come evoluzione inevitabile dell’indagine nel proprio profondo. E bastava l’impressionante, interminabile applauso che l’ha accolta al suo ingresso in palcoscenico – la cosa più simile alla gratitudine che ci sia capitato di sentire da parte di un pubblico solo apparentemente eterogeneo come sempre accade, in realtà monolitico – per capire il ruolo conquistato da Meredith Monk nello spirito del tempo. Un ruolo forse oggi più appartato che ai tempi della grande affermazione, ma nondimeno presente e vivo oltre le fortune commerciali di una discografia raffinata quanto imponente e di un’attività “in presenza” inevitabilmente destinata a essere sempre più selezionata.

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E poi, a dimostrazione del fatto che una performance di Monk non può essere mai solo un concerto, ma si identifica di fatto nel grado zero del teatro, e attiene alla sua essenza, assume un significato particolare il fatto che l’evento all’Olimpico fosse il prologo del 77° Ciclo dei Classici, da quest’anno diretto da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, fondatori del Teatro delle Albe di Ravenna. Una “coppia di teatro” affermata e apprezzata che appartiene alla generazione di coloro i quali furono folgorati giovanissimi sulla strada dell’innovazione alla Biennale del 1975, quando un quarantaduenne Luca Ronconi, che dirigeva la sezione Teatro, convocò tutti insieme i giovani maestri del momento: si chiamavano Peter Brook, Jerzy Grotowski, Ariane Mnouchkine, Andrei Şerban, Giuliano Scabia, Robert Wilson e appunto Meredith Monk. Credevano che il teatro potesse cambiare il mondo e si riunirono a Venezia in un’edizione del festival che non è retorico definire epocale. Molta parte del teatro di innovazione in Italia ha avuto origine allora ed è per questo che affidare oggi il prologo di un festival a Monk non è solo una dichiarazione di fede venata di nostalgia, ma è anche una sorta di proclama: nella voce, anzi, nelle voci e nelle loro metamorfosi deve consistere il teatro, a maggior ragione quello dei tragici greci e in uno spazio scenico ‘congelato’ da secoli come quello dell’Olimpico, che a rigore esclude ogni altra immagine rispetto alla Tebe edipica disegnata per l’inaugurazione sofoclea del 1585. 

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Marco Martinelli e Ermanna Montanari, ph. Silvia Lelli.

Sintomaticamente intitolata Coro, la rassegna si aprirà con il ritorno di Theodoros Terzopoulos, che già aveva firmato un’Antigone nel 1984 e quarant’anni dopo proporrà in prima nazionale la Oresteia che realizzerà quest’estate per Epidauro (20 e 21 settembre). Quindi, spazio ai protagonisti dell’innovazione oggi, con i debutti del giovane regista Alessandro Serra (Il canto di Edipo, recitato nella lingua arcaica della Magna Grecia, 27, 28 e 29 settembre) e di Evelina Rosselli, cofondatrice del Gruppo Uror, protagonista della formidabile “riscrittura” dissacrante dell’Orestea firmata da Giovanni Testori, intitolata sdisOrè. Il debutto avvenne nel 1991, due anni prima della morte dell’autore milanese, al Goldoni di Venezia. Per l’Olimpico, una prima assoluta della quale Rosselli sarà protagonista unica, impegnata in tutti i ruoli principali grazie all’utilizzo di maschere fortemente grottesche nella loro verosimiglianza (5 ottobre). Prima dell’appuntamento finale all’Olimpico con l’enigmatico Giovanni Lindo Ferretti, impegnato a confrontarsi – musicalmente ma non solo – con lo spazio di Palladio e Scamozzi nella performance intitolata, un po’ alla Luigi Nono, moltitudine in cadenza, percuotendo (18 ottobre), l’ultimo titolo di prosa è l’Elettra di Hugo von Hofmannsthal, produzione dello Stabile del Veneto per la regia di Serena Sinigaglia. Il teatro nazionale di Venezia-Padova si riaffaccia così all’Olimpico dopo la controversa gestione di cui fu protagonista una ventina di anni fa, che si concluse con un divorzio non senza strascichi. E sarà protagonista anche nei prossimi anni, in virtù di una specifica Convenzione triennale con il Comune di Vicenza, una scelta molto più politica che artistica, firmata proprio in questi giorni. Lo spettacolo di quest’anno promette di essere interessante, ma sul piano organizzativo la partenza non è delle migliori. Fra tante prime assolute e/o nazionali, questa Elettra approderà infatti all’Olimpico (15 e 16 ottobre) poche settimane dopo essere stata rappresentata al teatro Romano di Verona e in precedenza anche a Padova. La tradizione dei festival vicentini è un’altra, c’è da sperare che la Convenzione ne tenga conto.

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Manifesto disegnato da Igort.

Infine, in una rassegna della quale Marco Martinelli è co-autore, non potevano mancare le “chiamate pubbliche”, un suo vero e proprio marchio di fabbrica che punta al coinvolgimento di tutti quelli che lo desiderano (e non solo di chi già vive nel teatro o nella musica) in eventi di spettacolo che maturano sul campo e puntano a fare rete. In questo caso gli spazi saranno, oltre all’Olimpico, la Basilica Palladiana e il Teatro Astra. Nello spazio palladiano farà tappa il progetto realizzato con successo da Martinelli per Pompei, PLUTO God of gold. Agli adolescenti già coinvolti a Pompei, Torre del Greco, Castellammare di Stabia e Torre Annunziata si uniranno i giovani vicentini (11 ottobre). In Basilica, il 6 ottobre, il compositore Francesco Giomi darà vita a una “azione di improvvisazione creativa per una comunità di performer” intitolata Festa Silenzio, mentre al teatro Astra sarà la volta del Purgatorio dei poeti, progetto che Martinelli e Montanari vanno conducendo in varie città e che a Vicenza (il 26 settembre) vedrà in evidenza, con Dante, Emily Dickinson, Majakovskij e Walt Whitman, anche i versi di Fernando Bandini e Paolo Lanaro, voci vicentine importanti della poesia italiana del nostro tempo.

Le fotografie che ritraggono la performance di Meredith Monk e John Hollenbeck sono di Roberto De Biasio. 

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