Il Concerto di Capodanno a Vienna / Le peripezie di Radetzky
La suonano ogni primo giorno dell’anno, da decenni, sempre alla stessa ora – intorno alle 13.30. Fino a non molto tempo fa, c’era la diretta televisiva; adesso è rimasta la radio, perché il piccolo schermo italiano in quel momento è occupato dalle Arie d’opera che giungono dalla Fenice di Venezia, e non è la stessa cosa.
Ma il Concerto di Capodanno per antonomasia, il più antico e di più nobile lignaggio – anche solo per il prestigio dell’orchestra che ne è protagonista, i Wiener Philharmoniker – è quello che si svolge nella “Sala d’oro” del Musikverein di Vienna. E la Marcia di Radetzky è la sua invariabile conclusione, il bis di rigore stabilmente iscritto nel programma, a rassicurazione di tutti coloro i quali, ovunque nel mondo, affidano proprio a questa musica un positivo auspicio per l’anno che comincia.
I programmi cambiano, perché la galassia dei Valzer viennesi (e danze assortite) è sterminata e perché l’albero genealogico degli Strauss, autori non unici ma dominanti da sempre nelle locandine, è notoriamente molto ramificato. Solo “Sul bel Danubio blu” e la Marcia di Radetzky sono fissi nei programmi, solo a quest’ultima spetta la chiusura della scintillante mattinata di musica viennese.
Un simbolo iscritto in un rito, apparentemente immutabili entrambi. Poi, due anni fa, a sorpresa è esplosa la questione dell’arrangiamento della Marcia. A Vienna fino a quel momento la si era sempre eseguita nella versione realizzata negli Anni Trenta da un oscuro musicista austro-tedesco di nome Leopold Weninger (1879-1940). Oscuro ma molto attivamente nazista: inevitabile – secondo i responsabili dei Wiener – prendere le distanze. Il cambio in corsa ha suscitato notevole sorpresa e qualche sussulto di polemica ideologica, ma è stato rapidamente realizzato e ora è diventato prassi. Non se ne parla più. La “nuova” Marcia è stata eseguita per la prima volta il 1° gennaio 2020. Il nome dell’arrangiatore “impresentabile” è sparito, dopo essere rimasto agli atti per oltre 70 anni.
Weninger era originario di un piccolo villaggio della Bassa Austria, Feistritz am Wechsel, ma visse e operò in Germania. I più dettagliati repertori musicali non gli dedicano una riga e solo chi sa il tedesco può trovare qualche sua notizia in Rete. Si era iscritto al partito nazista fin da prima della salita al potere di Hitler, svolgendo attività nell’ufficio culturale dell’NSDAP per la zona di Lipsia, dove morì. Il suo arrangiamento della Marcia di Radetzky – scritta da Johann Strauss padre nel mese di agosto del 1848 – fu probabilmente realizzato in fasi successive e messo a punto definitivamente a metà degli Anni Trenta.
Il pezzo da lui “acconciato” era stato nel repertorio dei corpi musicali delle SS e nell’immediato dopoguerra entrò nel programma viennese di Capodanno, l’evento musicale inventato nel 1939 dal direttore Clemens Krauss, proseguito anche durante la guerra e definitivamente lanciato subito dopo il conflitto. I Wiener l’hanno suonato per quasi tre quarti di secolo, fino a quando non hanno fatto sapere che in quel modo la Marcia di Radetzky non si poteva più fare: troppo evidenti nella musica così orchestrata le tracce di “militarismo nazista”.
Di fatto, la versione di Weninger rimane quella oggi universalmente conosciuta e quella praticata fino a due anni fa nella quasi generalità dei casi: se la si cerca su YouTube, una delle prime occorrenze è relativa a un’incisione discografica nella quale il nome di Claudio Abbado è affiancato proprio da quello dell’oscuro arrangiatore nazista.
Per liberarsi dalle “lunghe ombre brune” gravanti su questa veste della Marcia, nel 2019 i Wiener hanno deciso di fissare e adottare ufficialmente la “versione d’uso” cresciuta nel tempo in seno alla formazione stessa a partire dall’arrangiamento di Weninger, asseritamente alleggerita rispetto al suo deprecato stile. Potevano commissionare un nuovo arrangiamento, ma così non è avvenuto. Potevano fare riferimento all’orchestrazione cronologicamente più vicina alla creazione di Johann Strauss padre, che è nota da oltre vent’anni ed è anche a portata di mano. Ma neanche questo è stato il caso.
La partitura di cui si parla è quella di una delle prime orchestrazioni della Marcia, pubblicata nell’autunno del 1848, poche settimane dopo il debutto avvenuto con clamoroso successo il 31 agosto allo Stadtpark. L’ha scovata nel 1999 alla Biblioteca di Vienna lo studioso Norbert Rubey.
In questa formulazione, la strumentazione è più leggera e la linea melodica più articolata nella sezione centrale, abbastanza lontana dalla consuetudine scandita, ritmata e greve di percussioni. Se si vuole, più morbida e “viennese”, anche se si parla pur sempre di una marcia “alla tedesca”, per definizione meno svelta delle consorelle in voga in altri Paesi.
L’unico che la diresse al Concerto di Capodanno fu Nikolaus Harnoncourt, nel 2001. La mise, anzi, in apertura di programma, riservando la chiusura alla versione “tradizionale” (cioè quella di Weninger). Ne esistono almeno due edizioni discografiche, quella ufficiale di quel Primo dell’anno al Musikverein e quella realizzata con la sua orchestra, il Concentus Musicus Wien.
La partitura più antica, però, è stata immediatamente lasciata cadere dai programmi del Concerto di Capodanno. E per quasi un ventennio la Marcia è tornata ad essere proposta solo nell’arrangiamento “nazista”.
Annunciata la revisione, due anni fa è diventata oggetto di discussione anche l’abitudine, da parte degli ascoltatori che affollano la sala del Musikverein, di battere a tempo le mani accompagnando l’orchestra: consuetudine tipica del periodo nazista in Germania e Austria, era stato argomentato. Anche se c’è chi ha sostenuto con buoni motivi che così si comportava pure il pubblico viennese del 1848, ascoltando questo tipo di musica.
In ogni caso, il 1° gennaio 2020 la “riforma” della Marcia di Radetzky si è rivelata appartenere alla categoria delle notizie “grandemente esagerate”.
Da un lato, il direttore lettone Andris Nelsons fin dall’attacco ha sollecitato i battimani ritmati di un pubblico che ha risposto come sempre, con prontezza e grande entusiasmo. Ed è parso chiaro a tutti gli spettatori della differita Tv pomeridiana (ma anche della diretta radiofonica) che la modalità della fruizione della Marcia di Radetzky nella “Sala d’oro” è ormai immodificabile. Chi fra le decine di migliaia di richiedenti vince il sorteggio online per i biglietti (così avviene la distribuzione, ad ogni febbraio: tariffe fino a 1.200 euro) vuole battere le mani a tempo e non si cura di ragioni ideologiche. E quella volta il battito delle mani è stato così rumoroso e irrefrenabile da rischiare con il suo frastuono di oscurare i Wiener a pienissimo organico.
Dall’altro lato, quello principale dei ritocchi musicali, l’annunciato nuovo arrangiamento “a cura dei Wiener Philharmoniker” ha suscitato sorpresa, ma non per i suoi elementi nuovi o diversi. Al contrario, per la sostanziale sovrapponibilità con il vituperato precedente accusato di apologia nazista. Fuori dai tecnicismi e dai dettagli più o meno sottili, per dirla con le parole della conduttrice della diretta su Rai Radiotre, che quasi è sbottata mentre esplodeva l’ovazione conclusiva, la Marcia in questo modo è «tutto sommato appena appena alleggerita nelle percussioni».
Il Capodanno seguente, quello del 2021, è stato anche l’unico – a causa della pandemia – in cui il concerto viennese si è tenuto in assenza di pubblico. Dirigeva Riccardo Muti e il problema dei battimani tristemente non si è presentato. Quanto alle differenze fra la versione Weninger e quella “ripulita”, si sono confermate essenzialmente sottigliezze da specialisti.
Ora l’arrivo al Musikverein per il Capodanno 2022 di Daniel Barenboim, che torna per la terza volta a Vienna dopo le esperienze nel 2009 e nel 2014, promette di essere interessante, al di là del suo indubbio valore, proprio per quanto riguarda la Marcia di Radetzky. Il pezzo verrà eseguito nel “rinnovato” arrangiamento (“mai più come in passato” era stato il proclama, non privo di ipocrisia, lanciato nel 2019), ma resta da vedere in che maniera il direttore argentino-israeliano, personalità assai impegnata nell’affermare l’inclusività della musica oltre i contrasti politici e storico-ideologici, affronterà la questione dei battimani.
Il video dell’esecuzione del 2014, al proposito, è singolare. Barenboim, in un’epoca in cui nessuno parlava di “ombre brune”, letteralmente evita di dirigere la Marcia: preferisce muoversi incessantemente tra i leggii dell’orchestra, salutando quasi ogni singolo strumentista. Dopo un rapido cenno per il primo attacco, i Wiener suonano da soli e lui continua a passeggiare in mezzo a loro, in qualche caso addirittura interrompendoli per stringere mani o distribuire abbracci. Al pubblico si rivolge solo in un paio di occasioni, in pratica per zittirlo o per indurlo a fare meno rumore con i battimani.
Dato il precedente, si attende di scoprire se il maestro ripeterà questa scenetta, che denotava un atteggiamento quanto meno distaccato non solo nei confronti della Marcia di Radetzky, ma in certo modo anche dei Wiener Philharmoniker. Quasi come se dicesse: questa musica non mi riguarda. O se invece si dimostrerà più conciliante, “certificando” la buona volontà dell’orchestra nel liberarsi dall’equivoco storico e ideologico, oltre che musicale, rimasto irrisolto fino a due anni fa.
Resta il fatto che questa Marcia ha incrociato la storia, la politica e l’ideologia non soltanto durante il nazismo, ma fin dal momento del suo primo apparire, per il carattere stesso della sua genesi. Essa vide la luce durante il 1848, “primavera dei popoli”, ma il suo creatore era lontano dalle idee dei rivoluzionari: era un fedele sostenitore dell’impero asburgico e ammirava senza riserve l’ultraottantenne feldmaresciallo Joseph Radetzky von Radetz, comandante dell’esercito austriaco (1766-1858).
Con le sue reminiscenze di una Sinfonia di Haydn (la n. 100, vedi caso detta “Militare”) e la sua adozione nella sezione centrale di un tema di canzone popolare in voga fra le truppe, la Marcia era la musicale manifestazione dell’entusiasmo per la vittoria austriaca nella battaglia di Custoza. Qui, alla fine di luglio di quell’anno, le milizie di Radetzky avevano stroncato le speranze dei patrioti italiani, affidate alle truppe del Regno di Sardegna, nella Prima Guerra d’Indipendenza.
Si trattava quindi di musica con una funzione dichiaratamente “politica”, eseguita per la prima volta nel corso di un evento chiamato “Festival della vittoria”. Come si legge nel frontespizio di una pubblicazione d’epoca, fu scritta “in onore del grande generale” e “dedicata all’Imperial-Regio esercito”. Militarismo, culto di una personalità al servizio della reazione sulla punta delle baionette. Non sempre, durante i giorni delle grandi speranze per l’autodeterminazione dei popoli nelle vaste terre dell’Impero, il pezzo avrebbe ottenuto lo stesso apprezzamento raccolto nella capitale. Nei mesi successivi, il suo autore avrebbe conosciuto qualche critica – adesso forse la chiameremmo contestazione – da parte degli studenti in Moravia e in Boemia, a Olmütz e a Praga, nel corso di un giro concertistico: gli rimproveravano di stare dalla parte di Radetzky e non dei combattenti per la libertà.
Oggi, questi riferimenti storici per quanto peculiari sono diventati ininfluenti, oltre a essere ormai sbiaditi. Dopo oltre settant’anni di festosa magnificenza esecutiva a Capodanno, la Marcia di Radetzky ha raggiunto l’universalità che la rende esente da qualsiasi ombra, antirisorgimentale o totalitaria. E non c’è arrangiamento che possa incrinare il suo “idillio” con un pubblico planetario. Lungi dall’affermare sentimenti divisivi, da molto tempo e ancor più in quello presente è una dimostrazione della capacità di unire tipica della grande musica. Con o senza battimani, ascoltandola non si celebra nessun esercito oppressore, ma solo il piacere di farsi coinvolgere nella sua vitale e benaugurante energia.