Nuove forme dell’identità collettiva / Trattoria, Paesello, Territorio. I conti con l’oste
Molte e molti di noi hanno iniziato a cucinare tra l’asilo e le elementari. Chi disponendo di pongo multicolore, magari sassi; chi trasportando sapidi secchi di sabbie adriatiche o tirreniche; fino a chi mesceva insalate di bucce di cipolle e torsoli di mele o, come Tommaso Melilli, «zuppe di fiori», decorate da formiche morte e coccinelle.
Mi guarderei bene dal dire che i nostri intrugli d’infanzia esprimevano alcuni tratti identitari dell’italianità, tuttavia non è ardito suggerire l’inerenza di un elemento generazionale: bimbi di cinquanta, o sessant’anni fa potevano per esempio più spesso essere istruiti, come in un gioco, ad abbattere una gallina o un coniglio destinati alla tavola, e oggi sono in vendita decine di modelli di cucine giocattolo a tema Masterchef.
Forse, poi, la gallina del cortile di casa e la cucina giocattolo con pentole «effetto antiaderente» sono immagini che rimandano a due poli valoriali di un’era post-gastromaniacale (Marrone, Gastromania, Bompiani 2014). Come se una volta ritiratasi la prima grande ondata dell’ossessione nazionale collettiva verso il cibo, ci ritrovassimo cambiati, ci dovessimo pensare naufraghi su una nuova terra dove, insieme alle ricette e alle prassi in cucina, è un’altra l’idea di noi stessi come appartenenti a una certa comunità culturale. Da un lato chi in Italia oggi non prova un brivido di giustizia quando viene a sapere che nel tal agriturismo si mangiano solo animali vissuti liberi e felici e di razza italianissima; dall’altro chi si sentirebbe mai di cucinare a un gruppo di amici stranieri, magari candidamente ignari di certe blasfemie ormai per noi consolidate, una carbonara con la pancetta dicendola autentica? Tutto questo in un’epoca in cui i confini nazionali si rinsaldano, in cui abbiamo reimparato a pensare il mare come una barriera anziché come un passaggio, e in cui Schengen vale sempre meno – in particolare nella prima settimana del Corona virus in Italia, da lunedì 24 febbraio 2020 –.
Non sto sostenendo che gli ultimi dieci anni di gastromania ci abbiano resi più nazionalisti, nozione peraltro oggi praticamente obsoleta davanti alla polverizzazione dell’universo valoriale delle ultradestre, excentrodestre, destre di centro etc., e su un altro livello feticizzata dagli scatti salviniani di bucatini e Barolo. Credo però che sia cosa saggia guardare a come, nel tramonto o almeno nel calo di questa ubriacatura collettiva, il mangiare e la cucina oggi pongano inusitate questioni d’italianità.
Trattoria
Mi pare che ne parli molto bene Tommaso Melilli, che esordisce per Einaudi con un’autobiografia sentimentale sul tema dell’espatrio e del rimpatrio di un giovane cuoco italiano, I conti con l’oste (Einaudi, febbraio 2020, 173 pp., 17,50 euro). Melilli parte dal cremonese a diciannove anni, va a vivere in Francia, si laurea in Lettere e poi comincia a lavorare come cuoco nelle cucine parigine. Diventa chef, pubblica in francese un curioso libro di ricette e di osservazioni etnografiche e politiche sulla vita di chi oggi lavora da dipendente nelle cucine occidentali, Spaghetti Wars, Nouriturfu 2018. Poi ventinovenne torna in Italia: qui scopre molte cose che confluiranno nella sua autobiografia appena edita da Einaudi, cose in parte apprese viaggiando in diverse regioni dove presta servizio come aiuto cuoco in una serie di locali in voga.
I conti con l’oste pone più di una questione sull’essere italiano, l’essere giovane e apprendista di un mestiere, l’essere un espatriato, l’essere uno che fa da mangiare per gli altri, ma idealmente è centrato su un problema antropologico che investe il concetto contemporaneo di trattoria. Questa, scrive Melilli, non va assimilata troppo frettolosamente a bistrot, sushi bar e posti degli hamburger, cioè ad alcuni dei più noti modelli di esercizio commerciale di tendenza sul cibo. Se infatti ognuno di essi, come «forma di vita alimentare», esprime e traduce forme sociali, per la trattoria vale una forma di vita italianissima, che «chiunque sia cresciuto in Italia si porta dietro ovunque vada». La trattoria, sostiene ancora l’autore, nasce con un gruppo di persone, di solito una famiglia che «ama far da mangiare e crede di saperlo far bene» e che quindi decide di farlo anche per gli altri.
Per questo nella nostra cultura la trattoria è potuta assurgere al rango di una sorta di «calco della migliore cucina domestica della domenica». Ora, se torniamo alle note in apertura, il punto è che la versione contemporanea di quella forma di vita della trattoria appare come divisa, come contesa tra i due poli valoriali dell’esaltazione della gallina del cortile e del nuovo sapere tecnico-gastronomico di gusto masterchefiano. Per Melilli oggi non ci sono tipi diversi del modello della trattoria, ma c’è per prima cosa questo problema generale, antropologico, che ne informa tutte le manifestazioni contemporanee. Posizione coraggiosa, che fa di questa prova letteraria anche o forse soprattutto uno snello trattato sulla gastronomia come luogo di una tensione identitaria irrisolta tra passato remoto e l’altro ieri, tra pascoli d’alpeggio e grani antichi da una parte, e oliocotture e polveri di latte bruciato dall’altra.
Riguardo al primo aspetto in pagine molto belle l’autore si inerpica in Val Varaita, una delle vallate occitane piemontesi, per prestare servizio nella trattoria di un giovane chef stellato che ha lasciato la carriera urbana aprendo in montagna accanto al borgo di nascita paterno. Lassù non c’è niente, fa un freddo cane e insieme all’ottima cucina il protagonista assaggia anche una solitudine assoluta, l’imbarazzo di non avere idea di come fare a procurarsi quello che gli serve, assistendo anche all’evento della morte accidentale di uno degli agnellini allevati dallo chef. Siamo, cioè, molto oltre una visione estetizzante del ritorno alle origini, oltre la pubblicità del territorio alpino come puro e munifico: Melilli riesce nell’impresa di rendere in modo vivido la separazione, l’isolamento, la durezza della vita dello chef che ha optato per una (per ora) personalissima decrescita felice.
Riguardo al secondo aspetto è esilarante e altrettanto onesto un passaggio in cui si parla della trattoria italiana che forse ha sdoganato la versione contemporanea della trattoria come forma di vita. Il protagonista è impegnato nella brigata, secondo i precetti delle preparazioni previste, e gli viene dato un suggerimento, nemmeno tanto tra i denti: «mi raccomando quando metti l’olio» (sulla pasta e fagioli) «non fare cerchi o spirali» che sennò lo chef dice che sembrano gli anni Novanta. Minuscolo, ingombrante esempio di come l’estetica a cui tutti ci siamo abituati dica qualcosa di profondo, di infinitamente sensato di cosa sia essere cucinieri, clienti di trattoria e cuochi italiani in un decennio o in un altro, o meglio in un secolo o in un altro. Ma in questo libro ci sono come detto questioni che aprono ad altri scenari. Proverei di seguito ad accennarne altre due.
Paesello
Si sa che il campanile, il piccolo comune, la frazione, è dove di più, nel lungo periodo, perché più tardivamente, sull’onda lunga dell’approdo delle tendenze in provincia, la gastromania potrebbe aver colpito. È qui che gli osti e le ostesse spesso hanno buttato i piatti per comprare «placche di lavagna» e mettersi a cucinare ingredienti anonimi e moderni, preferendo alle anguille le capesante, alle trippe i filetti di Angus. In I conti con l’oste c’è un riferimento forte al fenomeno contrario, alla possibilità, sempre disponibile in senso virtuale, di inventare tradizioni nel senso di L’invenzione della tradizione di Eric Hobsbawm e Terence Ranger (1983). Anche l’identità che appare più genuina si può sempre inventare; invece, la consuetudine, non può che essere in continua evoluzione.
L’esempio è quello di un salame d’oca che un professore universitario prepara un giorno, per divertimento, a casa di un amico. L’esperimento pare avere successo e il salame viene abbandonato alla sua stagionatura. Poi arriva una telefonata dall’amico, mesi dopo: il risultato è grandioso, l’amico che è un imprenditore sta pensando a produrre in larga scala. Lo fa, e in pochi anni nel suo paesino fiorisce una sagra dedicata a quel salame; ora, a ogni ricorrere della sagra, le autoctone attempate giurano di aver riscoperto un prodotto tradizionale autentico, di cui custodiscono ricordi di gioventù.
La sagra, neanche a dirlo, si correda di sfilata in costume rinascimentale. Il discorso è vasto e vale un po’, per chi voglia leggere, anche rispetto alla storia della cosiddetta bistecca di «Fassona» (p. 81).
Territorio
Ma per quello scritto fin qui manca ancora da dire qualcosa sullo sguardo dell’espatriato che fa ritorno, che ri-conosce qualcosa che non era sicuro di ricordare. Non è detto che si tratti di un lieto fine, di una risposta a qualche grande domanda che di fatto nel libro non c’è. Si tratta piuttosto del racconto di una specie di sottobosco, prendendo il senso letterale del termine, quello cioè di una flora che si sviluppa all’ombra dei vegetali dal fusto più alto. Nel bene e nel male, Melilli torna e trova una serie di individui e di panorami italici spesso piatti, un po’ insipienti – disarticolati rispetto alla cultura in cui è stato immerso a Parigi, ma continui, marcati da una bassa densità equamente distribuita –.
Nelle campagne della bassa cremonese gli abbandoni fanno il pari con i progressi, le consuetudini si srotolano con una loro pigrizia: il circolo culturale non c’è più, ma il bar vive immobile, il laghetto anche, e ci sono dei debutti: qualcuno è andato via e poi è tornato per cambiare la storia. È come se Melilli, nemmeno trentenne, evocasse una serie di figure sopravvissute allo tsunami gastronomico di massa, reperendole invitte o quasi dall’universo del Bar Sport di Benni del 1976. Pare così che dei moti accelerazionisti della gastromania, e delle tensioni generate da essa postume di cui si è cercato di parlare qui, a un concetto in particolare Melilli si opponga in modo fermo, ovvero a quello per cui si è fatto e si continua a fare del territorio un uso fortemente retorico. Il territorio dell’autore è la fatica del lavoro, o la noia dell’inerzia intellettuale e creativa, ma comunque sempre una cosa fatta dal brulicare delle persone, da un’attività antropica spesso minuscola e irrilevante, ma mai un suolo di erbe preziose o pascoli incontaminati. Questa concezione del territorio rimanda forse a un’idea politica di rappresentazione della vita sociale che è tramontata da moltissimo, e di questi tempi vederla resuscitata non è meno che sorprendente.