Tre anni e tre giorni. Per Irene Babboni
È letterario notarlo? Ha qualche senso? Sarebbe stato bello poter discutere proprio di questo, e casomai addirittura riderne, con Irene Babboni, la meravigliosa Irene, che anche su certe cose scabrose non era né cinica né fatua ma dispiegava la potente e ridente razionalità della letteratura. Ora non importa neppure tanto quale sia l’occasione numerologica a cui alludo ma del resto, e per la precisione, ora non c’è proprio nulla d’altro che importi minimamente. Irene se n’è andata, dopo prove che aveva superato con il suo inimitabile sorriso e dopo aver esperito pressoché tutte le prescrizioni a cui ci si sottopone quanto meno per dimostrare agli altri di «aver reagito». Una vicenda patologica pluridecennale crudele e davvero maligna (maligna, dico, anche in senso morale) ha infine prevalso ed ecco che Irene non c’è più e a noi tocca piangerla senza neppure saper immaginare cosa la sua morte possa significare per chi gli era molto più vicino.
Non di tutte le persone mi ricordo con precisione il momento in cui le ho conosciute.
Con Irene invece mi càpita, ed è quasi buffo (lei di sicuro ne riderebbe) che si trattasse di un importante funerale, il primo di altri tre in cui la sua figura si staglia nel mio ricordo.
Quella volta stava parlando fitto fitto con un mio amico, su un pianerottolo di un importante palazzo di Torino, lo stesso in cui poi l’avrei vista mille altre volte e in cui l’avrei scoperta – o meglio, riconosciuta - amica. L’impressione che ne ho sempre avuta è stata quella di una «ragazza dell’editoria» e ora non vorrei che questo apparisse come una diminutio: almeno allora ragazza lo era davvero, e del resto ragazzo all’epoca lo ero anche io. Lei, però, poi lo sarebbe rimasta, non certo dal punto di vista della professione (vi è stata senior da subito) ma dal punto di vista di uno spirito che riconosce l’autorità dell’istituzione ma anche il proprio diritto di torcerle il naso. Le volte che si è riso delle debolezze che emergevano (e, prime fra tutte, le mie) dove stava l’istituzione e dove la propria personale e irriducibile anarchia? E una casa editrice ha più bisogno di yes-boys e yes-girls o di persone che sanno stare dentro e fuori, non per ipocrisia ma per saggezza e capacità di fare quella fatica di entrare e uscire ogni momento da qualsiasi schema?
Ne scrivo, ora mi accorgo, senza aver ancora detto che Irene Babboni è stata una funzionaria di Einaudi, traduttrice di Georges Perec e di Patrick Modiano, editor di Antonio Delfini, allieva di Cesare Garboli (uno dei funerali di cui parlavo, a Santa Maria del Popolo, Roma, 2004), curatrice dei Saggi Einaudi (la celebre collana «arancione») e con Andrea Canobbio inventrice e animatrice della collana «Frontiere», dedicata alle scritture che nei nostri anni hanno eroso la barriera tra letteratura e saggistica, tra fiction e non-fiction.
Chissà quanti suoi titoli ora non ricordo, e magari non ricordo perché non li conosco. Me ne scuso, il lettore avrebbe diritto a obituaries ben informati e capaci di perimetrare l’entità di una perdita. Ma quando si parla di qualità si va in territori invece molto impalpabili: territori in cui l’importanza di un’osservazione fatta nel momento giusto, la casualità di un controllo editoriale non dovuto ma fatto un attimo prima che fosse irrimediabilmente tardi, la pazienza e l’acume, le mille cose di cui poi alla fine sono fatte le lacrime non riescono proprio a trovare il correlativo oggettivo che le sappia presentare a chi non ne avrebbe mai saputo nulla, di una come Irene.
16 giugno 2014, Maria; 19 giugno 2017, Irene. È il tipo di numeri in cui depositiamo vicende umane irrecuperabili e altrimenti indescrivibili. Quando muoiono le star, è certo facile indicare i parametri su cui calcolare e tramettere la loro magnitudo. Quando muoiono le persone che hanno reso grandi gli altri si può solo sperare che chi, eventualmente, legga sia disposto a pensare che il lavoro editoriale è fatto da ragazze e ragazzi che alla passione nativa e alla competenza acquisita abbiano aggiunto doti, inimitabili, di immedesimazione e interlocuzione, tonalità di accoglienza e (all’occorrenza) contestazione, capacità forse inumane di lettura e di, forse altrettanto inumana, umanità.
Era un mondo più allegro, più intelligente, più nostro, quello che, un’altra volta ancora, è finito ieri.