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Se vuoi andare vai, io sto qui e aspetto Alfonsina
“Per una biciclette azzurra, / Livorno come sussurra!”. Laura Bosio ricorda un’ironica poesia che Giorgio Caproni dedicò alla madre Anna, in un’immagine di fine Ottocento. “Come s’unisce al brusio / dei raggi, il mormorio! / Annina sbucata all’angolo / ha alimentato lo scandalo. / Ma quando mai s’era vista, / in giro, una ciclista?”. Non è stato questo il punto di partenza del suo romanzo Le notti parevano di luna (Longanesi), recente vincitore del Premio Rapallo che pochi giorni fa si è disputato il superpremio con Francesca Melandri e Paola Soriga.
Alla fine la giuria popolare ha scelto Più in alto del mare (Rizzoli), il libro della Melandri, ma intanto nella più importante manifestazione tutta dedicata alle scrittrici è tornato a materializzarsi un personaggio che a lunghi intervalli ricompare talvolta sulla scena: Alfonsina Strada, la prima italiana a diventare fra lo scetticismo generale - senza contare lo scandalo - una popolare campionessa di ciclismo. Riuscì persino a partecipare al Giro d’Italia del 1924, sola fra una novantina di atleti maschi. Fu squalificata, ma ne batté parecchi. Spesso arrivava per ultima, ma è vero che durante la corsa si fermava volentieri a distribuire autografi e cartoline ai fan.
Alfonsina Strada non è il personaggio principale del libro della Bosio: è un racconto altamente simbolico, fatto da un aggiustatore di biciclette alla piccola Caterina, la protagonista, che nella provincia piemontese degli Anni Cinquanta sogna anche lei, sfrecciando in bicicletta, di diventare una campionessa. Caterina scopre così che la sua non è affatto un’aspirazione bizzarra, come nella Vercelli di quel tempo tutti sembravano ritenere. Non la realizzerà perché altre saranno le sue scelte di vita, ma intanto ascolta le radiocronache del Giro d’Italia; e seduta sul balcone ai piedi di un padre intristito, sogna Adorni e Anquetil.
La bicicletta lanciata a tutta velocità sulle strade campestri o sui viali cittadini, oltre a esserne la metafora portante, è uno dei temi che si incrociano nella ricostruzione di un’infanzia scavata nella memoria della narratrice. Anche lei, come Caterina, ha corso a perdifiato e ha ascoltato con trepidazione il Processo alla tappa. Ha tifato per Poulidor, che era generoso e perdeva sempre, ha “visto” le gare attraverso la voce di Sergio Zavoli e, a differenza di Caterina - ma come Alfonsina - ha avuto la sua bella bici da corsa. “Il ciclismo? è una cosa strana - ci dice - : non è solo aria, libertà, potenza delle gambe. C’è qualcosa di più, una specie di gioco di prestigio: la bicicletta è uno strumento che da solo neppure sta in piedi. Quando ci sali, invece, comincia a volare. Pedalare è come camminare sulla fune”.
Per Alfonsina Strada è stato alta acrobazia in tutti i sensi: si trattava infatti di trovare un punto d’equilibrio in una società che reagiva esattamente come nella poesia di Caproni, fra scandalo e dileggio. A Parigi poteva gareggiare in pista - lo fece a partire dal 1912 -, ma in Italia era tutt’altra cosa. Lei, nata a Castelfranco Emilia nel 1891 da una povera e numerosissima famiglia, aveva però cominciato a Torino, che risentiva dell’aria francese (in fondo era la città di Amore e ginnastica, come scoprì De Amicis): e già a sedici anni riuscì a battere un’altra campionessa, Giuseppina Carignano, ottenendo nella città sabauda il titolo di “miglior ciclista italiana”. Farsi prendere sul serio era però un’impresa ancora tutta da compiere.
Leggere di lei e innamorarsene, per Laura Bosio è stato tutt’uno. “L’ho scoperta su un repertorio, mentre cercavo di costruire il mio romanzo. E ho cominciato a fare ricerche. Ho trovato dei siti che la ricordavano, qualche libro, ma la verità è che al di là della bicicletta era un grande mito femminile Una donna di grande coraggio, combattiva, visionaria”. Forse tutti i campioni lo sono. Alfonsina, però lo era di più di chiunque altro, a giudicare dalla sua storia. Come può la figlia di due braccianti analfabeti, nella campagna emiliana, ricevere in dono una bicicletta scassata e pesantissima, cominciare a pedalare e da quel momento riconoscerla come il suo futuro? Lo fece, forse per istinto.
Strada è il suo nome da spostata, quello del primo marito, che credette in lei e fu il suo allenatore: ma non il pigmalione della situazione. Faceva la sarta e pedalava. Scoprì chissà come che Torino era la città giusta per cominciare, e a 16 anni venne a conquistarsi i primi allori, anche grazie all’incontro con un altro emiliano, Carlo Messori, che decise di valorizzarla e la portò in Russia. “Ma non voleva essere un fenomeno da baraccone, un’attrazione spettacolare”, racconta Bosio. Stabilì a Moncalieri, nel 1911, il record mondiale di velocità femminile (37,192 chilometri all’ora: con quelle bici era davvero una velocità folle), se ne andò a Milano; sposò il cesellatore Luigi Strada che le donò una bicicletta da corsa, la prima tutta sua.
E non si fermò più: gareggiò a Parigi, costrinse gli organizzatori ad accettarla nel Giro di Lombardia (era il 1917, in piena guerra: nessun regolamento le impediva di partecipare, forse perché nessuno aveva mai pensato alla possibilità di una ciclista donna). Arrivò ultima. “Certo non era il tipo da scoraggiarsi. Nel 1924, eccola al Giro d’Italia. Sfruttò abilmente una situazione un po’ particolare”. Quell’anno le squadre più titolate disertarono la manifestazione, per questioni finanziarie. Gli organizzatori temevano il flop, forse pensarono che una donna avrebbe costituito un ottimo richiamo.
Alfonsina prese la faccenda molto sul serio. “Cercava di tenere il passo degli atleti maschi, ma il giro era una fatica brutale, tra incidenti, forature, avversità d’ogni genere. Resse per le prime tappe, poi i una ferocissima L’Aquila-Perugia arrivò fuori tempo massimo”. In teoria era fuori. Ma ormai era anche un personaggio popolarissimo, ragion per cui venne riammessa alla corsa, senza però possibilità di classifica. Strinse i denti e arrivò a Milano, con i trenta corridori superstiti, dei novanta che erano partiti. A conti fatti, aveva battuto almeno virtualmente sessanta maschi. “Al Giro non sarebbe tornata più, ma disputò e vinse ancora molte corse”. Il mitico Costante Girardengo non nascondeva il suo apprezzamento.
Era ormai una campionessa vera, non una bizzarria. E anche una figura carismatica. Laura Bosio, non è stata tentata di scrivere un libro tutto su di lei? “Non so, mi piacerebbe ma è difficile arrivare al cuore del personaggio. Sappiamo tutto della sua vita pubblica, ben poco di quella personale, del suo intimo La sua storia mi ricorda quella del maratoneta Dorando Pietri, che perse l’oro alle Olimpiadi di Londra perché i giudici lo aiutarono quando arrivò stremato e primo, al traguardo. Una storia di riscatto sociale attraverso lo sport”.
Alfonsina Strada si risposò dopo la morte del marito, aprì a Milano un negozio dove riparava biciclette, e con l’avanzare degli anni inforcò una potente Guzzi 500. Mori nel 1959 per una crisi di cuore, mentre la stava mettendo in moto. Aveva 68 anni. L’ultimo giorno della sua vita era stato una bella domenica, trascorsa a seguire la Tre Valli Varesine. Una classica del ciclismo.
L'articolo appare oggi anche su La Stampa