Speciale
Giornalista fai da te, fai da me, fai per tre
Quello che avreste sempre voluto sapere sul bricolage della notizia
e che nessuno è riuscito mai a spiegarvi senza dire parolacce
Che si vestano tutti male lo sapevo già. Che gonfiassero le notizie soffiando dentro il derrière degli editori, pure. Quello che non sapevo è che per arrivare a essere “ufficialmente” uno di loro dovevo viaggiare nel tempo e inventarmi ventenne negli anni ‘80. Eh sì, perché all’oggi la questione “giornalista pubblicista” e quindi l’entrata massonica nella setta dell’albo regionale dei giornalisti pare cosa impossibile. “Novanta articoli in due anni, stipendiato”, ti dicono. In realtà sarebbero più di duecento e tanti soldi da sborsare. Io in sei anni di lavoro continuo ne avrò scritti anche duemila, ma solo ottanta pagati, forse novanta. Tant’è che mi sono detto: sarà adesso il mio turno? Nossignore. Di questi novanta dovevo certificare sia il pagamento sia la relativa pubblicazione cartacea. E se hai perso uno o due articoli strada facendo, negli anni? Be, diciamo che se sei a quota ottantotto e i tuoi due anni sono scaduti, ti tocca ricominciare da capo e buonanotte al secchio. Truffa, setta, manovalanza gratuita per i direttori/editori? Sì, sì e sì. Allora, che fare nell’attesa? Me lo sono sempre chiesto. Mentre attendo il cappuccio da massone giornalista, io, che faccio? Non avendo nelle vene alcun talento manuale, se non quello di strimpellare e riassumere un evento in quindici righe, decisi di continuare a fare il giornalista, ma a modo mio.
Interruppi la mia collaborazione con una nota testata giornalistica siciliana e mi diedi da fare per scoprire qualcosa in più sullo strano meccanismo del giornalismo “ordinato”, partorito nel 1925 da Mussolini e reso operativo tre anni dopo. Aprii un file nel computer e iniziai a raccogliere le testimonianze dei “non pubblicisti” sparsi per le testate della provincia. Quello che sentivo non era di certo confortante. Alcuni erano al terzo tentativo (dunque, sei anni di lavoro mal pagato). Altri avevano cercato di agganciare forze politiche “oscure” pur di arrivare quanto prima all’obiettivo. Molti, invece, avevano stretto un accordo subdolo con il direttore responsabile per farsi certificare un falso pagamento puntuale e sostanzioso al fine di presentare il tutto all’ordine regionale e, a patentino preso, restituire la somma “prestata” all’editore di turno. “Nessuno controlla nessuno”, mi disse un giornalista pentito e, se non fosse per la mancanza di catene al collo, direi che le scrivanie puzzolenti dei nostri giornali sono veri e propri “campi di cotone”. Truffa, setta e manovalanza gratuita, dicevamo. Creai così un vero e proprio dossier sui ventenni e trentenni come me, in perenne attesa di un riconoscimento statale per la propria professione. Gente disposta a tutto pur di diventare pubblicisti.
Il popolo delle fogne delle redazioni.
Io lo so cosa vi state chiedendo e la risposta è sì. Questa è follia pura. Allora, perché continuare a sottostare e non mollare tutto per una dimensione lavorativa meno marcia? Perché nessuno si arma di laptop borchiati e va a picchiare i responsabili? Cercherò, per quanto sia possibile, di spiegarvelo. Effettivamente, avere in tasca il patentino permette al giornalista di poter percepire qualche euro in più dentro la busta paga, a differenza degli “abusivi”, che vengono pagati con il minimo sindacale disposto dal contratto di collaborazione nazionale (li chiamano così nelle redazioni, ma in realtà sono quelli che scrivono davvero e cioè più della metà degli ingaggiati). Per capirci, un pubblicista può guadagnare dai 6 ai 20 euro a pezzo, mentre un abusivo dai 2 ai 4 euro (lordi). Il tutto, comunque, a discrezione personalissima dell’editore. Quindi, la corsa insana e folle al patentino non è poi tanto ingiustificabile. Io sono uno di loro. Un abusivo. Eppure, quando esco fuori dal confine nazionale vengo riconosciuto come un giornalista. Negli altri paesi, lontani dai balconi dalle redazioni schiaviste italiane, non è mai esistito un “ordine”. Nel mondo funziona così: se scrivi, ti pagano; se scrivi decentemente, ti pagano di più; e se scrivi bene e capisci le cose prima degli altri, diventi persino un eroe.
Da qualche mese ho ripreso a lavorare per un editore, ingaggiato da un altro giornale, e ancora una volta in cerca di un rimedio legale per recuperare la mia situazione di cronista precario. Probabilmente non riuscirò neanche stavolta a diventare uno di loro e non riceverò nessun copricapo da apprendista. A me va bene così. Quattro euro a pezzo, viaggi e spese a mio carico e tanta rabbia nei polpastrelli. Conto i giorni che mi separano dalla speranza di non essere più un abusivo. Li conto come se fossero le battute di un pezzo. Il mio ultimo pezzo da abusivo. E mentre aspetto che la mia “dolce attesa” finisca, scrivo.