Golem, Frankenstein & Co.

14 Marzo 2012

Ti chiesi io, Creatore, dall’argilla di foggiarmi uomo,

ti chiesi io di suscitarmi dall’oscurità?

John Milton, Paradiso Perduto

 

L’impresa della robotica si colloca nel solco del millenario tentativo di imitare l’atto divino della creazione. Più o meno dichiarata, quest’ambizione risale all’antichità biblica e classica, e la leggenda del Golem ne è forse l’esempio mitologico e letterario più noto. Golem è parola ebraica che significa “massa informe”: essa compare nell’Antico Testamento (Salmo 139) e indica Adamo prima che gli sia infusa l’anima.

Secondo la leggenda, grazie alle arti magiche, era possibile fabbricare un Golem di argilla, dargli movimento, e impiegarlo per eseguire compiti faticosi. In particolare lo si poteva usare come forte e ubbidiente difensore del popolo ebraico contro le persecuzioni.

Forza e ubbidienza erano appunto le caratteristiche del Golem, il quale tuttavia, privo di anima com’era, non era in grado di pensare o di provare emozioni. È interessante osservare come il pensiero e le emozioni siano anche oggi al centro degli interessi della robotica: la costruzione di robot intelligenti e di robot emotivi rappresenta uno dei traguardi più ambiziosi del settore, ma se alcuni progressi sono stati fatti per quanto riguarda l’intelligenza, il traguardo delle emozioni è ancora molto lontano.

 

Si narra che nel 1580 un potente mago di Praga, il rabbino Jehuda Loew ben Bezabel, costruì un Golem gigantesco, cui diede vita scrivendogli sulla fronte la parola emet (“verità” in ebraico). Ma, come accade, la creatura sfuggì al suo controllo e invece di servirlo cominciò a distruggere tutto ciò che incontrava. Il mago allora cancellò la prima lettera della parola emet trasformandola in met (cioè “morte”) e il Golem giacque immobile. Jehuda Loew, intimorito dalle possibili conseguenze delle sue manipolazioni, decise di rinunciare ai servigi del Golem e lo nascose nelle soffitte della Sinagoga Vecchia di Praga, dove la leggenda vuole che si trovi ancor oggi.

In quest’impresa s’intrecciano dunque la vertiginosa ebbrezza della creazione e il timore per la creatura, che minaccia di ribellarsi e distruggere l’inesperto demiurgo. Figura potente e suggestiva, il Golem ha ispirato scrittori e registi cinematografici: ricordiamo il romanzo Il Golem (1915) di Gustav Meyrink e i tre film di sapore espressionista di Paul Wegener (1913, 1915, 1920). Recentissimo è il romanzo Il cabalista di Praga (2010) di Marek Halter.

 

 

Anche nel caso del mostro di Frankenstein la creatura trascende il progetto e si rivolta, suscitando negli uomini angoscia e terrore. La figura del mostro deve la sua popolarità ai numerosi film di cui è stata protagonista, molti interpretati dall’impareggiabile Boris Karloff, ma le sue origini risalgono al romanzo Frankenstein, o il Prometeo moderno di Mary Wollstonecraft Shelley, moglie del grande poeta inglese Percy Bysshe Shelley. Pubblicato nel 1818, il libro narra la storia di un medico, Victor von Frankenstein, che, grazie all’elettricità, riesce ad animare una creatura che ha composto con pezzi di cadavere. Ma questo mostro, mal riuscito e deforme, infelice e solitario, respinto dal suo creatore si ribella alla sua sorte e si trasforma in un pericolo pubblico, fino a trascinare alla morte Victor Frankenstein tra i ghiacci del Polo Nord.

La Shelley intendeva denunciare il delirio di onnipotenza dell’uomo che vuol imitare Dio e si trasforma in un apprendista stregone: a quel tempo, come del resto oggi, certi sviluppi della tecnologia e certe indagini scientifiche erano fonte di preoccupazione e di timore e il mostro era un emblema delle forze che l’uomo scatena senza saperle dominare. Al di là dell’enorme influenza che la figura di Frankenstein ha esercitato nella cultura popolare, che spesso lo scambia per il mostro da lui fabbricato, in tempi recenti questo nome è diventato sinonimo di manipolazione rischiosa e illecita sotto il profilo etico, specie in campo biologico.

 

 

Se al cospetto della creatura di Frankenstein la reazione è di terrore, a volte gli umani subiscono invece il fascino degli esseri artificiali: nei racconti di E. T. A. Hoffmann (1776-1822) gli uomini s’innamorano perdutamente di bambole meccaniche, imitazioni perfette della donna, in cui la differenza tra il modello e la sua riproduzione si attenua fino a scomparire, inducendo in inganno anche l’osservatore più attento. Ciò accade anche nel dramma Minnie la candida (1927), di Massimo Bontempelli (musicato nel 1942 da Riccardo Malipiero): alla giovane e ingenua Minnie vien fatto credere che i pesci che nuotano in un acquario siano artificiali, ma talmente perfetti da risultare indistinguibili dai pesci veri. Inoltre le viene raccontato che sono in circolazione anche esseri umani artificiali, che non si distinguono dagli originali e che per di più non sanno di essere imitazioni. Sconvolta, Minnie comincia a sospettare di essere uno di questi manichini e, ossessionata, si uccide. Da una parte dunque la somiglianza perfetta, o quasi, suscitatrice di sgomento, come accade di fronte ai replicanti di Blade Runner, dall’altra la diversità incolmabile del mostro di Frankenstein, dovuta all’imperizia del costruttore, che suscita orrore perché, con un facile slittamento, è interpretata come segno di malvagità.

 

 

Questi temi - orgoglio e timore, fascino e orrore, attrazione e diffidenza - sembrano appartenere alla letteratura fantastica o a un passato ormai lontano, eppure a ben guardare sono ancora presenti non solo nelle opere di fantascienza, ma anche nell’immaginario collettivo e nel nostro atteggiamento nei confronti delle tecnologie di punta, in particolare delle “tecnologie della mente” come i computer, l’intelligenza artificiale e specialmente i robot. Ciò sembra confermare il profondo sostrato mitopoietico ed emotivo che ha sempre accompagnato l’attività tecnologica e la nostra interazione con la macchina. Inquietudini profonde e nostalgie di longevità, vigore e bellezza accompagnano poi le “tecnologie del corpo”, che vanno dalla chirurgia estetica alla genomica.

 

Ma c’è un altro risvolto della costruzione dell’uomo artificiale, che c’interessa in modo particolare: l’aspetto etico, irto di problemi di non facile soluzione, legati soprattutto alla responsabilità del costruttore nei confronti delle sue fabbricazioni. Di fronte alla complessità della creatura e alla sua somiglianza (quasi) perfetta con l’originale, ci si può infatti interrogare sui suoi possibili sentimenti e sulle sue reazioni (per esempio di fronte alla scoperta di essere solo un’imitazione, un po’ come quando un figlio adottivo scopre di non essere un figlio biologico).

La psicologia e la sociologia degli automi, dei robot e delle creature ciborganiche costituiscono uno dei filoni più interessanti della fantascienza moderna e uno dei problemi più complessi di un futuro quasi a portata di mano. Perché suscitare dal nulla creature tanto simili a noi da esser capaci di soffrire?

Affronteremo questo problema, non prima tuttavia di aver tracciato una breve storia degli automi, opere artigianali che tentavano di incarnare, sul versante costruttivo, le idee e le aspirazioni narrate nella letteratura.

 

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