Il dolore di un robot

22 Febbraio 2013

Dottor Gall: I Robot quasi non avvertono i dolori fisici. Ciò non ha dato buoni risultati. Dobbiamo introdurre la sofferenza.

Helena: E sono più felici se sentono il dolore?

Dottor Gall: Al contrario. Però sono tecnicamente più perfetti.

(Karel Čapek, R.U.R.)

 

 

L’evoluzione dei robot

 

Le leggi di Asimov hanno a che fare con il comportamento dei robot nei nostri confronti: ma c’è anche l’altra faccia della roboetica, quella che concerne il nostro comportamento verso i robot. Negli ultimi tempi si è acuita in molti Paesi la sensibilità nei confronti degli animali superiori, come le scimmie e gli animali domestici, ma non solo. Ne sono prova la nascita di associazioni animaliste e di movimenti antivivisezione, la diffusione dell’alimentazione vegetariana e il crescente rifiuto di pellicce, avorio e altri “prodotti” animali.

 

Questa maggior sensibilità è forse legata a un progressivo affrancamento degli animali dal ruolo di schiavi, di forza lavoro e di riserva di materiali utili cui sono stati a lungo relegati, ruolo che si è via via trasferito da una parte alle macchine e dall’altra ai prodotti di sintesi. A riprova si rifletta sul fatto che le bestie allevate a scopo alimentare non beneficiano ancora di questo incremento di compassione, perché non abbiamo ancora trovato sostituti adeguati delle proteine animali. Dell’affrancamento hanno goduto e godono via via anche gli schiavi umani (spesso trattati come animali), non appena le loro funzioni si sono potute trasferire alle macchine.

 

E qui entrano in scena i robot, che stanno diventando gli esecutori di molti dei lavori finora svolti dagli animali, dagli schiavi e anche dalle macchine tradizionali. Può accadere che la sensibilità diffusa nei confronti degli umani e degli animali si trasferisca prima o poi anche ai robot, oppure ai nostri occhi prevarranno sempre la loro natura di artefatti e la loro funzione servile? Gli sforzi che facciamo per dotarli di intelligenza, autonomia, capacità di apprendere e tendenzialmente anche di sensibilità e di coscienza, avranno come corollario una loro equiparazione a qualcosa di più nobile e vicino a noi?

 

Ma c’è un’altra domanda, più inquietante: che diritto abbiamo di costruire macchine tanto intelligenti e sensibili da capire che non lo sono abbastanza? Perché suscitare dal nulla creature tanto simili a noi da essere capaci di soffrire? Il loro dolore, scaturito dalla consapevolezza di non essere del tutto assimilabili agli uomini, sarebbe un triste corollario della nostra abilità demiurgica: creando una schiatta di “macchine dolenti”, ci assumeremmo una pesante responsabilità.

 

 

Si osservi che il dolore dei robot deriverebbe, in questi scenari, dalla cognizione di non essere umani. È la conseguenza di un punto di vista sfacciatamente antropomorfo, che manifesta la presunzione del creatore: e in effetti, visti i tanti difetti della nostra specie, forse i robot dovrebbero rallegrarsi di essere diversi da noi!

 

Insomma, lo struggente desiderio che i robot o gli androidi o i ciborg manifestano di diventare del tutto umani sulla base di un consapevole “senso di inferiorità”, desiderio che diviene ossessivo in Pinocchio e addirittura grottesco nel film di Spielberg, AI: Intelligenza Artificiale, è frutto al solito di una nostra proiezione. Che motivo avrebbero creature tanto diverse da noi (e forse tanto migliori di noi) per voler diventare proprio come noi, se non quello di compiacere i loro vanitosi creatori? Ancora una volta i desideri dei genitori vengono proiettati sui figli, con conseguenze forse disastrose.

 

A questo proposito, alcuni ritengono che un giorno potranno esistere robot più buoni degli esseri umani in virtù di un processo evolutivo che, innescato da noi, procederebbe poi in modo svincolato dai nostri condizionamenti. In fondo se noi siamo, in molte circostanze, aggressivi e malvagi ciò è dovuto al valore di sopravvivenza che queste caratteristiche hanno avuto nel corso dell’evoluzione in un ambiente ostile. Ma i robot si evolveranno in un ambiente molto diverso dal nostro: l’ambiente dei robot, in gran parte, siamo noi. Ecco perché (si pensi al caso dei robot soldato) se vogliamo che questa  nuova stirpe sia migliore di noi e magari ci aiuti a migliorare noi stessi (perché l’ambiente dell’uomo potrebbero un giorno essere loro) dovremmo stare molto attenti all’“indole artificiale” che imprimiamo in queste creature, pur nei limiti delle derive imprevedibili dovute alla loro autonomia e alla loro interazione con l'ambiente. In questa prospettiva, instillare nei robot il desiderio di uguagliarci potrebbe segnare un regresso o almeno un ostacolo alla loro evoluzione etica verso la bontà.

 

 

Robot e ciborg

 

Gli stessi problemi si possono porre, e forse con fondamento ancora maggiore, per i ciborg, o cyborg, all’inglese, derivanti dall’ibridazione di esseri umani con componenti artificiali (si pensi al poliziotto ciborganico Alex Murphy del film Robocop di Paul Verhoeven, cui non si possono non attribuire ricordi, sentimenti e strazi affatto umani). Mentre il robot è completamente inorganico, il ciborg si costruisce partendo da una base umana e sostituendo o potenziando alcuni suoi organi ed apparati con dispositivi inorganici.

 

Il ciborg merita affetto e compassione oppure è uscito definitivamente dal consorzio umano per entrare in una sfera vaga e indefinibile e, in quanto privo di cittadinanza assodata, diventare preda di cacciatori senza scrupoli? I replicanti di Blade Runner di Ridley Scott, splendidi androidi e gineidi di dubbio statuto, debbono proprio essere eliminati? Insomma: chi decide che cosa significa essere umano e averne la dignità? Chi decide se anche certi non umani abbiano la stessa dignità degli umani? Forse un giorno non troppo lontano bisognerà scrivere una “Carta dei diritti” che consideri anche esseri la cui definizione sfugga ad ogni tentativo classificatorio basato sulle categorie tradizionali.

 

La confusione tra naturale e artificiale prodotta dalla robotica potrebbe prima o poi generare una confusione tra umano e non umano e aprirebbe lo spinoso problema della definizione di persona: quali sono i “requisiti minimi” che un ente deve possedere per essere dichiarato persona e quindi avere la dignità corrispondente? Esiste un grado di imitazione funzionale o di sostituzione protetica al quale è lecito, o inevitabile, parlare di umanità, e quindi di dignità, dell’artefatto? Un’altra domanda che scaturisce da queste considerazioni: gli artefatti imitativi potrebbero indurre cambiamenti nella nostra concezione del corpo e della natura umana (così come l’intelligenza artificiale ha modificato la nostra concezione di intelligenza)?

E, da ultimo, si noti che la costruzione dell’uomo artificiale potrebbe elevare gli artefatti alla dignità dell’uomo, oppure abbassare gli umani a livello delle macchine... (continua).

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