La seconda volta
Zhannat fu la prima persona che vidi appena sceso dal treno. In 8 ore di tragitto da Kyzylorda ad Aral, attraverso tutto il Kazakhstan occidentale, il panorama non era mai cambiato, sempre e solo steppa.
Zhannat mi fece fare un primo giro di Aral, una cittadina di 40.000 persone che una volta era su un lago.
Aral è ancora dov'è sempre stata, ma il lago non c'è più. Si è ritirato progressivamente negli ultimi 70 anni, la sua superficie si è ridotta del 90 per cento, ed ora le sue sponde si trovano ad un centinaio di chilometri da Aral, che nel frattempo è rimasta com'era negli anni ‘50, con le insegne dei ristoranti di pesce, con il porto, con un deserto al posto del lago.
E con le navi, abbandonate da decenni e ridotte a relitti, ancora in piedi nel deserto.
Tutto questo non è accaduto per cause naturali, ma a causa di un gigantesco piano di irrigazione delle aree intorno al lago, per il quale fu realizzata negli anni 50 una fitta rete di canali che partivano dai due fiumi immissari del lago, l'Amu Darya e il Syr Darya. Il piano voleva incentivare la coltivazione del cotone, ma il progetto fallì, e il lago iniziò a prosciugarsi.
Zhannat è la responsabile di “Aral Tenizi” (“Mare d'Aral”, in kazako), una NGO il cui obiettivo è far rivivere la pesca in quello che rimane del lago d'Aral.
Dormivo in una casa vuota, da solo. Era una casa per gli ospiti di una famiglia locale, una costruzione ad un piano, totalmente vuota, fatta eccezione per dei tappeti alle pareti e per un materasso con rete in una delle stanze. All'ingresso c'era un piccolo lavandino con un serbatoio in plastica che riempivano ogni giorno con un secchio, e il bagno era in cortile. Ad Aral, tranne rare eccezioni, non ci sono bagni in casa. In quei giorni di luglio ad Aral c'erano tra i 45 e i 50 gradi. In inverno la temperatura scende a -30. Iniziai a pensare alle strategie che le persone dovevano per forza aver escogitato per andare in bagno in inverno. Il bagno consisteva in due baracche di legno, una con un buco praticato nel terreno, e l'altro con una doccia, anche questa con un serbatoio da riempire situato sul tetto. Nel cortile c'era un bocchettone per l'approvvigionamento d'acqua. Nei giorni successivi scoprii che era una situazione comune a molte case, e mi sono a lungo chiesto cosa avesse impedito di completare gli impianti e fare arrivare l'acqua corrente nelle docce e nei lavandini delle case, invece di percorrere ogni giorno gli ultimi metri con taniche piene d'acqua. Da allora in avanti durante la permanenza ad Aral continuai ad accumulare domande destinate a rimanere senza risposta.
Una delle esperienze più frustranti ad Aral era cercare un posto per mangiare; in pratica non ce n'erano. In città c'erano due o tre locali pubblici che chiamerei multifunzionali, erano emporio, bar, ristorante e sala da ballo. Ai miei occhi però non assomigliavano nemmeno vagamente a nessuna di queste attività. Erano dei locali totalmente spogli ricavati al piano terra, con alcuni tavoli ed un bancone. La prima volta che cercai di mangiare in uno di questi ristoranti mi trovai in questa scena: seduti al tavolo, la cameriera ci chiese cosa volevamo mangiare, informandoci che il menu era composto da carne e patate. L'intero tavolo obbedientemente ordinò carne e patate. La cameriera segnò tutto sul taccuino prima di allontanarsi. Dopo 30 minuti tornò per informarci che il cibo era finito.
Una sera tornando a casa ancora una volta digiuni e sperando di trovare qualcosa da mangiare in giro, sentimmo all'improvviso una musica provenire dalla piazza principale. Mentre ci avvicinavamo la città sembrava prendere vita, c'erano persone per strada, sembrava una comune festa di paese. Quella sera ad Aral c'era la finale della gara canora che vedeva protagonisti le migliori voci della popolazione giovanile locale. Nella piazza, di dimensioni smisurate rispetto alla città, c'era un palco di cemento, gigantesco anche questo, e su quel palco si esibivano ragazzi e ragazze in una gara di canto. Tutto, dai vestiti, ai pezzi scelti (un mix di pop occidentale e canzoni popolari kazake) sembrava una parodia dell'Asia centrale e della loro visione dell'occidente. E quando uno dei cantanti intonò “L'italiano”, di Toto Cutugno, il pubblico, senza perdere la sua impassibilità, iniziò a cantare in coro. “Questa canzone è famosissima”, mi disse Zhannat. La piazza era piena di giovani e bambini, e davanti al palco c'era un quadrato lasciato vuoto dal pubblico, di lato uguale alla larghezza del palco, presidiato al suo interno da due poliziotti, che rimasero tutta la sera a sorvegliare che nessuno oltrepassasse quel confine invisibile. Mi misi a guardarli per un po'. Avevano non più di 20 anni, delle divise di qualche taglia più grande, e quegli enormi cappelli che i militari ex-sovietici di ogni ordine e grado portano fieri.
Il giorno dopo partimmo alle 4 di mattina per andare al lago su un fuoristrada UAZ 469 che impiegò diverse ore per percorrere i 100 chilometri che separano Aral dalla riva, procedendo nel letto del lago, che oggi è un deserto. Tra i compagni di viaggio c'era un montone vivo incaprettato nel portabagagli, che sembrava accettare rassegnato il viaggio forzato. Andavamo a festeggiare la giornata del pescatore, durante la quale ogni anno si tiene una grande festa sulle rive del lago.
La prima impressione che mi fece il lago non appena lo vidi fu quella di un acquitrino melmoso, descrizione che mi sembrò sempre più fedele alla realtà mentre mi ci avvicinavo dopo essere sceso dall'auto. Le attività della giornata variavano dalla premiazione dei migliori pescatori dell'anno da parte del governatore di Aral, un uomo il cui sorriso era costellato di denti d'oro, all'organizzazione di attività ludiche, che culminarono nel tiro alla fune tra le squadre di pescatori e quelle di guardiapesca, molto più numerosi dei pescatori.
Nel tardo pomeriggio entrammo in una tenda circolare, molto simile alle Yurta mongole, dove era stato organizzato il pranzo ufficiale. Entrarono degli uomini con un grande vassoio all'interno del quale c'erano pezzi di carne che iniziarono a maciullare con le mani. Il montone che avevamo portato vivo da Aral aveva concluso il suo viaggio.
Dopo pranzo facemmo una lunga passeggiata nel lago. L'acqua rimaneva ad altezza caviglie per centinaia di metri. Mentre camminavamo scalzi nell'acqua Zhannat mi raccontava della sua gioventù ad Aral, della scuola dove i professori insegnavano che il lago doveva scomparire per supportare la causa del popolo sovietico, e della fede che da ragazzi avevano nel partito, della forza della propaganda che gli faceva credere qualunque cosa fosse decisa dai comitati centrali.
Mi pareva che l'intera popolazione, la comunità di pescatori, le ragazze della gara canora, Zhannat e le persone che lavoravano con lei, fossero vittime dell'ennesima illusione. Tutti vivevano in un luogo in cui l'esistenza di una comunità di persone non aveva più senso, da almeno 60 anni, e tutti facevano finta che una vita là potesse ancora essere possibile.
Tornando ad Aral chiesi di fare un'altra strada per vedere una delle navi abbandonate che all'andata avevamo intravisto all'orizzonte. Quando ci trovammo di fronte alla nave, tutti mi invitarono a scendere e a fare delle foto. Mi spiegarono che le navi erano ormai tutte dei ruderi fatti a pezzi per recuperare il ferro, rottami arrugginiti nel deserto.
Sembravano i resti di una civiltà estinta migliaia di anni fa.