La terza volta

14 Novembre 2013

Quando passammo sotto l'ala dell'aereo guardammo in alto. La parte inferiore era completamente scrostata, come l'intonaco nei bagni dopo che anni di umidità l'hanno gonfiato e poi fatto distaccare. Era incredibile che in volo quei pezzi non si fossero staccati. Eravamo appena scesi dal volo interno di una compagnia Ucraina all'aeroporto di Simferopoli. L'areo aveva una serie di scritte sulla fiancata, alcune in arabo, altre cancellate da una mano di vernice ma ancora semileggibili, e il tutto rendeva impossibile capire a che compagnia appartenesse l'aereo. Sul biglietto c'era scritto solo la città di partenza e quella d'arrivo.

 

 

L'interno dell'aereo era rigorosamente anni 70, comprese le tendine alle finestre e l'abbigliamento del personale. Anche le hostess erano anni 70, nel senso che quelli erano stati gli anni della loro gioventù. Autenticamente sovietiche anche loro. L'intera situazione del volo ci era stata chiara fin dall'inizio, ed avevamo affrontato la cosa con una certa filosofia. Ma la parte inferiore dell'ala non l'avevamo vista alla partenza. Sinceramente non so se saremmo partiti in quel caso. Ma, come dicevo, non l'avevamo vista, e dunque eravamo arrivati in Crimea.

 

Prima di metterci piede la Crimea per me era: la guerra nel diciannovesimo secolo tra impero russo e resto del mondo, le basi segrete della marina sovietica, la seconda guerra mondiale, i sottomarini nucleari. E le vacanze. La Crimea è stata fin dalla metà del diciannovesimo secolo una meta turistica, e durante il regime sovietico divenne famosa come luogo di vacanze “salutari” per i lavoratori. Un luogo con una storia che univa la sua vocazione turistica ad alcuni tra i fatti più sanguinosi accaduti in due secoli di guerre.

 

 

Sebastopoli

 

La prima città dove arrivammo fu Sebastopoli, famosa per aver resistito all'assedio tedesco durante la seconda guerra mondiale per quasi un anno, tra il 1941 e il 1942. Dopo la guerra divenne, insieme ad altre dodici, una “città-eroina”, un titolo onorifico conferito da Stalin alle città che avevano dimostrato particolare eroismo, e che avevano pagato un alto tributo di sangue. La ricostruzione della città si era concentrata molto sulla celebrazione di questi eroismi, e la quantità di monumenti, targhe celebrative ed obelischi che ricordano la sua storia militare è impressionante. Il lungomare di Sebastopoli è una sequenza di inni al patriottismo e di panorami della baia sulla quale si stende la città, e di sera si riempie di turisti e attrazioni che ricordano molto la riviera romagnola degli anni 80 in versione post-sovietica.

 

 

I locali notturni di Sebastopoli erano una versione più allegra delle discoteche russe alle quali eravamo abituati, e tra le centinaia di persone che li riempivano fummo avvicinati da Volodymyr, un ragazzo ucraino che insisteva per essere la nostra guida durante la serata. Volodymyr diceva di avere 20 anni, e ci raccontò che suo padre era un marinaio che tornava a casa ogni 10 mesi e che quando tornava non aveva un posto dove stare perché la madre non lo voleva in casa. A Volodymyr non sembrò il caso di spiegarci le motivazioni di questa decisione. Il padre sarebbe tornato di lì a pochi giorni, e non sapeva dove avrebbe dormito. Il perché ci raccontasse questa storia mentre voleva convincerci a seguirlo in giro per Sebastopoli non ci era chiaro. Dopo quasi un'ora capì che non l'avremmo seguito e sparì nella folla del locale.

 

Due mattine dopo lo incontrammo in un caffè e si venne a sedere al nostro tavolo. Ordinò una birra e ci raccontò delle meraviglie che ci eravamo persi quella sera, del locale dove era stato, dei fiumi di alcol che aveva bevuto. Ci disse che al padre avevano prolungato il contratto di lavoro, e che per quell'estate non sarebbe tornato a casa. Gli chiesi se aveva mai pensato di fare il marinaio, e lui rispose che quello non era un lavoro per chi voleva mettere su una famiglia, e lui era intenzionato a sposarsi l'anno seguente. Per ora faceva la guida turistica, mi disse.

 

 

Balaklava

Sulla strada per Yalta ci fermammo a Balaklava, una ex città chiusa. La storia delle città chiuse è una delle più affascinanti dell'Unione Sovietica. Erano città nate intorno ad attività che per motivi di sicurezza dovevano rimanere segrete; spesso erano dislocate in aree remote del paese, e anche i parenti più stretti dei residenti avevano bisogno di una lunga serie di autorizzazioni per recarsi in visita in questi luoghi. Balaklava fino al 1993 è stata una delle più importanti basi per i sottomarini sovietici. Per proteggerli erano stati scavati nella roccia degli enormi tunnel con accesso dal mare, che per chilometri entrano nella montagna e che oggi sono visitabili.

 

 

Erano pensati per resistere ad attacchi nucleari diretti, e quando arrivammo trovammo una guida che parlava degli anni in cui queste gallerie contenevano armi nucleari, e la città intorno era un luogo tenuto segreto al resto del mondo, non era segnata su nessuna mappa ufficiale, non esistevano fotografie o documenti che ne testimoniassero l'esistenza. Per 4 anni, tra il 1957 e il 1961, centinaia di operai avevano scavato nella roccia trasportando nottetempo i detriti in mare aperto; una delle più grandi operazioni segrete della storia. Oggi i cartelli per i turisti parlano di “monumento sotterraneo” che ufficialmente, fino a pochi anni fa, non esisteva.

 

 

Yalta

 

Nel 1945 Roosevelt, Churchill e Stalin, pochi mesi prima della sconfitta della Germania, si riunirono a Yalta per organizzare le ultime fasi del conflitto e per decidere che forma avrebbe avuto il mondo dei decenni successivi. L'incontro si tenne nel Palazzo di Livadija, che era stato la residenza estiva dell'ultimo Zar di Russia, ucciso 27 anni prima a Yekaterinburg. Il palazzo oggi è uno dei siti turistici più famosi della Crimea.
Yalta sembrava una città in grande espansione, con molti cantieri e cartelloni di società immobiliari che promettevano ardite architetture vista mare.

 

 

Il lungomare era ancora più affollato di quello di Sebastopoli, e aveva un'attrattiva unica: per diverse decine di metri erano allineati una serie di set fotografici veri e propri, ognuno con un guardaroba di costumi in tema, con i quali vestirsi e farsi fotografare all'interno della scenografia, dalla sala di comando di un'astronave, al deserto con cactus, alla ricostruzione del Moulin Rouge, al paesaggio autostradale del west americano con tanto di Harley Davidson di cartone. Mentre guardavamo rapiti la fila di persone che aspettavano il loro turno per impersonare John Wayne, una signora ci chiese in italiano da dove venissimo, ed iniziò a raccontarci che per anni aveva fatto la badante in Italia, prima di tornare a Yalta per aprire un'attività. Le sembrava stranissimo che ci fossero degli italiani in Crimea, e ci chiese cosa ci aveva spinto ad andare là. Mentre cercavamo una risposta adeguata, le figlie la chiamarono. Il Moulin Rouge le aspettava, erano le prossime ballerine.

 

 

Giorni dopo ci fu una lunga discussione mentre andavamo all'aeroporto di Simferopoli per decidere cosa avremmo fatto se avessimo trovato un aereo simile a quello del viaggio di andata. Ero l'unico possibilista sul riprendere lo stesso aereo, le proposte alternative variavano dal treno all'autostop, e sembravano a tutti ipotesi di gran lunga migliori del volo che ci aveva portato in Crimea.
Stavo viaggiando con degli ingrati, pensai.

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