Lisbona, l’inesistenza e le Lonely Planet

27 Settembre 2012

Da qualche parte, sulle cartine turistiche di Lisbona, e anche sulle mappe più precise, più agguerrite, c’è un punto, o più punti, in cui il povero estensore si è perso. È evidente che da qualche parte del suo apparato genealogico deve aver perso il tocco magico dei suoi antenati esploratori: quelli, per intenderci, che incombono sul Tejo sotto forma di minacciosi omoni di pietra pronti a solcare il mare: gente che ha doppiato il Capo di Buona Speranza, non noiosi pantofolai.

 

In qualche punto della sua storia familiare l’estensore di mappe deve aver perso la spinta a gettarsi nell’oceano, oltre che l’ardire da padrone del mondo. Succede, come mi fa notare la mia compagna di viaggio: “Dici che succederà lo stesso anche agli americani?”. Succede, è già successo, il museo d’arte antica di Lisbona ne fornisce forse una delle immagini più precise, sotto forma dei meravigliosi pannelli giapponesi che rappresentano l’arrivo dei portoghesi in Giappone. La storia registra come data dello storico sbarco il 1543. Sui pannelli appaiono giapponesi ritrosi che osservano l’ospite con curiosità da dietro le loro porte, ma soprattutto si vedono mercanti portoghesi tracagnotti, le facce affondate nel collo, non molto diversi da quelli che circolano oggi per le strade di Lisbona, torvi, affaccendati, con aria da conquistatori che non possono perdere tempo a vedere le bellezze del luogo. Più ancora, colpiscono l’immaginazione le navi ancorate al porto, fitte di schiavi dall’aria mite; molti di essi sembra che si lancino dagli alberi delle navi, o che volteggino nell’aria, chissà perché.

 

 

Chissà se è vero, come dice Kaspar, un musicista angolano incontrato a Belèm, che i rapporti tra portoghesi e stranieri sono così sereni. Certo, la maggior parte di loro sono ex-schiavi che abitano qui praticamente da secoli, e che per la maggior parte sono brasiliani, cioè gente con cui c’è un legame strettissimo, anche linguistico. È vero anche che ci sono molti poveri e molti pazzi. La prima sera, sedute su una panchina di Largo Intendente, siamo letteralmente assediate da una processione di mendicanti e ubriachi. Sulla strada per l’ostello passiamo sempre di fronte a un senzatetto nero con le dita che escono dalle scarpe rotte; è infagottato e sembra non potersi muovere, Ambra ne è molto colpita e gli offre di portargli del latte, dell’acqua, ma lui chiede solo vino.

 

Non si può negare che Lisbona abbia punti nello spazio che le mappe non registrano, strade che non si trovano, misteriosi buchi neri. A un certo momento l’estensore delle mappe deve aver capito che Lisbona ha i suoi gorghi, i suoi sacrosanti misteri dello spazio, i suoi ragionevoli e fondati motivi per sfuggire ai turisti, e di conseguenza avrà deciso di assecondarli, di non opporsi a tanta ragionevole irragionevolezza.

 

 

Lisbona è ostile alle Lonely Planet, questo è evidente fin dalla prima sera; i due ristoranti di cui andiamo in cerca semplicemente non esistono più. Sono mai esistiti? La colpa è della crisi che li ha fatti chiudere o c’è sotto qualcos’altro?

 

Lisbona solletica l’inesistenza, la sua e la nostra, è un amante che non chiede il tuo tempo, perché non gli importa, ma tu hai deciso di darglielo lo stesso. Man mano che passano i giorni abbiamo la sensazione che l’entropia del tempo sia la cosa più naturale del mondo. Io comunico a gesti, abbandono le cartine, prendo Lisbona e i suoi autobus che fanno capolinea in curva come prova di una vocazione a perdermi in tutti i buchi dello spaziotempo. Faccio come se metterci giornate intere per andare da un posto all’altro fosse la norma e non la conseguenza di un incantesimo a cui Lisbona sottopone chi è tanto folle da sfidare l’inesistenza e, anzi, da volercisi invischiare mani e piedi.

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