Shelley Jackson, la scrittura del trauma

8 Maggio 2024

Trovarsi fra le mani Riddance di Shelley Jackson è una di quelle esperienze trasformative ormai rare per il lettore, a cominciare dalla copertina, in cui il nome dell'autrice e titolo si intersecano a formare una sorta di indovinello (riddle, singolarmente contiguo a Riddance). Il titolo, in neretto su sfondo grigio, indica l'azione di liberarsi di qualcosa di molto spiacevole, azione che giustamente si sarebbe persa nella traduzione (brillante, di Valentina Maini). Il libro si presenta come una congerie di materiali diversi, e tutti girano intorno a un immaginario Istituto Professionale Sybil Joines per Portavoce di Fantasmi e Giovani dalle Bocche Udenti, una sorta di scuola in cui ragazzi balbuzienti vengono avviati all'arte della negromanzia; gli viene insegnato, quindi, a canalizzare le voci dei morti.

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Shelley Jackson è una scrittrice e autrice di ipertesti, il cui progetto forse più noto è Skin, in cui duemila volontari si sono tatuati parole diverse del suo racconto (racconto che quindi, esiste solo sulla pelle dei volontari, e solo se sono tutti nello stesso posto) e hanno formato una strana community unita dall'entusiasmo per il progetto. In Italia abbiamo un libro di racconti, La melanconia del corpo, pubblicato da Minimum Fax con la traduzione di Martina Testa, e ora Riddance, opera monumentale meritoriamente pubblicata da Rina edizioni.

Abbiamo detto che Riddance è composto da molti testi; questa varietà di testi rende impossibile al lettore l'esperienza di penetrare nel testo in modo tradizionale e, proprio come con un ipertesto, lo porta in direzioni sempre diverse. Per il lettore è un'esperienza di lettura assolutamente spiazzante perché, nonostante i materiali di Riddance abbiano una struttura apparentemente lineare, una trama e dei personaggi, ci trascinano in storie sempre diverse che raccontano altre storie. Accade così che le storie si accavallano, i personaggi si confondono, e il romanzo, che a un certo punto sembra finire, in realtà finisce solo in modo apparente, perché potenzialmente potrebbe continuare all'infinito. Lo confessa la traduttrice nella nota al testo, in un modo che più limpido non si può: “in quanto difensora dell'alterità, la traduttrice ammette che c'è qualcosa che non è riuscita a fare. Più di qualcosa. Il testo si è preso gioco di lei, ha fatto qualcosa a lei. I residui della sconfitta sono così tanti da poter comporre un libro parallelo che non interesserebbe a nessuno”.

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Fotogramma del video Shelley Jackson: Skin.

Quali sono quindi i materiali di questo libro beffardo? Lettere agli scrittori morti, dispacci della direttrice, immagini della scuola, principi di necrofisica, e non ultimo il racconto della stenografa, Jane Grandison, un'adolescente balbuziente di colore che, non avendo un posto in cui stare, arriva a Cheesehill e conquista la fiducia della direttrice fino al punto di diventare una dei candidati alla successione. Qua e là compare nel testo anche un'altra bambina, che sembra anch'essa godere del favore della direttrice. La sua scomparsa provoca un po' di trambusto dentro e fuori la scuola, ma nessuno sembra esserne turbato veramente; i confini tra i vivi e morti sono sempre assolutamente permeabili, e la morte è un accidente che può succedere, e perfino risuccedere. Soprattutto nella sezione intitolata Principi di necrofisica, Jackson riflette sul concetto di “voce” e sul linguaggio come strumento di comunicazione con i morti e riflessione infinita sulla perdita; la perdita, soprattutto nelle parole della stenografa, il personaggio che problematizza più degli altri la questione del non “avere voce”, non solo in quanto negromante, ma anche in quanto orfana e ragazza di colore, è la questione costitutiva, il centro di tutto, della vita come della letteratura.

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Fotogramma del video Shelley Jackson: Skin.

La questione della voce meriterebbe un approfondimento a parte, perché in molti punti del romanzo si insiste (la direttrice insiste) sul fatto che occorre – per gli studenti dell'istituto – abbandonare completamente la propria voce per incanalare la voce dei morti. Perdere la propria vita per realizzare il sogno della negromanzia d'altra parte è una definizione perfetta del lavoro dello scrittore, e infatti nota Maini: “questo libro parla di morte, ma soprattutto di scrittura e di come nasca uno scrittore: a seguito di un difetto, di una solitudine, di molte interferenze e di una smisurata immaginazione”. C'è una dimensione tra l'umano e l'oltre-umano che il linguaggio cerca di esprimere superando se stesso, e la direttrice deus ex-machina parla questo linguaggio (o piuttosto, ne è parlata), la cui comprensione somiglia all'incomprensione e che presenta tutti i sintomi della malattia. Il linguaggio con cui abbiamo a che fare in Riddance è a tutti gli effetti un linguaggio del trauma che cerca di occultare – e occultando, di scavare e portare in superficie – un evento oscuro che riguarda la violenza, probabilmente una violenza paterna. Il discorso ruota incessantemente attorno al silenzio, e il silenzio tocca il lutto e la perdita. Il discorso non riesce ad avvicinarsi a descrivere ciò che siamo, e comunque si rifiuta di avvicinarsi a quella voragine; il trauma non può essere detto ma comunque non può smettere di essere detto e ridetto, nascosto e rivelato: “La voce crepita, scompare, fa ritorno come puro suono, cristalli di ghiaccio soffiano sopra neve gelata, una manciata di sabbia vortica dentro un setaccio. Poi il silenzio. Le mie dita che battono sui tasti sono rumorose come ossa che si spezzano.

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Tule Lake Relocation Center, Newell, California. Haru Uno, Stenographer.

Per un minuto, le ho lasciate riposare sui tasti (asdf jkl;) e il silenzio si riempie del verde di un lenzuolo illuminato. Illuminato non nella mia memoria, ma nelle sue parole. Non ho mai raccontato la storia della mia infanzia. Non la racconterò mai. Ciò che se n'è andato ha aperto il buco attraverso cui respiro. Tutti ci costruiamo attorno a una redenzione: i polmoni devono svuotarsi per riempirsi di nuovo. Per alcuni qui si tratta di un dogma. Per me, di un dato di fatto. Attraverso la sua spettrale misericordia io vivo”.

Nel descrivere l'architettura di Cheesehill, Jackson ne mette in luce alcune bizzarre caratteristiche, come la corrispondenza tra parti del discorso e indumenti dei personaggi, oppure il fatto, subito evidente al visitatore, che “la casa è una disquisizione filosofica sul linguaggio, sulla morte e, senza dubbio, anche sull'architettura”; quest'ultima è formata allo stesso modo dalla musica e dal silenzio, ma in senso letterale, visto che c'è una vera e propria musica della scuola, una sinfonia dal tono profondo e grave che, in modo inapparente, “coreografa” e dà uno schema ai movimenti dei frequentatori della scuola. A livello percettivo, è la stessa musica che noi percepiamo come caratteristica del modo di narrare di Jackson, che crea un'atmosfera sonora che tiene legato il lettore tramite una prosa ipnotica, che lo avvolge spaventandolo, irretendolo, trasportandolo dentro la promessa di uno scioglimento che non arriverà mai, di una rivelazione che non può arrivare, perché il segreto della musica della scuola risiede proprio nella “tensione tra l'essere capaci di dire e l'essere incapaci di smettere di dire”.

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