Maggie Nelson: il dolore durerà per sempre? 

27 Dicembre 2023

Non sono molte le esperienze di lettura che potremmo definire trasformative, e in generale i libri che ci sembrano spostare la nostra percezione di esperienze come l'amore, il dolore o il lutto. Nel caso di Bluets di Maggie Nelson, una piccola comunità di lettori italiani l'aveva già reso oggetto di un piccolo culto anni prima che Nottetempo decidesse meritoriamente di renderlo disponibile nella traduzione di Alessandra Castellazzi e con una bella copertina che sembra rimandare al quadro cui Nelson fa riferimento, ovvero Les Bluets di Joan Mitchell. Ho conosciuto Maggie Nelson grazie al brillante e altrettanto inclassificabile Gli Argonauti, pubblicato dal Saggiatore nel 2016, che è allo stesso tempo un libro di critica, un memoir della relazione con l'artista transgender Harry Dodge, una lunga riflessione su queerness, creatività, maternità, relazioni, desiderio. Sull'onda degli Argonauti ho recuperato anche Jane: A Murder e The Red Parts, memoir precedenti che hanno per oggetto l'assassinio di una zia di Nelson e di conseguenza il tema della crudeltà, sempre centrale nell'opera della poetessa americana. Vale la pena segnalare anche i saggi raccolti nel volume Sulla libertà (Il Saggiatore 2021), mentre è attesa a maggio 2024 un'ulteriore raccolta di saggi, sempre edita dal Saggiatore. 

Per tornare a Bluets, è senz'altro uno di quei libri che parlano anche di più a una seconda e a una terza lettura e le cui suggestioni sembrano non esaurirsi mai. Come definirlo intanto? Potrebbe essere definito come un libro concepito alla confluenza di generi diversi; dal punto di vista formale e visivo si presenta come una lista di prose brevi dal carattere saggistico: “proposizioni”, le definisce Maggie Nelson, prendendo a prestito il termine da Wittgenstein. In queste proposizioni, Nelson mette in fila una serie di elementi autobiografici: la sua lunga ossessione per il colore blu, una storia d'amore finita, l'esperienza di stare accanto a un'amica divenuta tetraplegica a seguito di un incidente. “Perché il blu? La gente me lo chiede di continuo. Non so mai cosa rispondere. Non scegliamo chi o cosa amare, vorrei dire. Non lo scegliamo e basta”, ci viene detto nella proposizione numero 13, che introduce il leitmotiv dell'impossibilità di sfuggire alle passioni tristi, vero motore emotivo del libro. 

Che colore è il blu, intanto, nella nostra percezione? È senz'altro il colore della malinconia e della meditazione, della calma e insieme di una sorta di tensione verso il divino. Derek Jarman vedeva la morte come una sparizione dentro una sorta di “schermo blu”, mentre Goethe e Wittgenstein fecero ricorso al colore in momenti difficili della loro vita. Goethe, riferisce Nelson, si interessò al caso di una donna che, in seguito a una caduta, vedeva scintillare gli oggetti in modo insopportabile; in molti casi invece accade il contrario, ovvero che la depressione si accompagni a un calo della percezione del colore. A Nelson accade quello a cui fa riferimento Goethe, ovvero che il colore venga percepito come qualcosa non solo di estremamente brillante, ma anche di estremamente vitale, un'autentica fonte di felicità: “non mi viene in mente nessuna volta in cui mi abbia dato disperazione”, confessa. Al centro di questa malinconia di cui il colore blu è il correlativo cromatico c'è una disperazione d'amore di cui non ci viene detto molto, se non che è stata provocata da un “principe dell'azzurro” che non ha dato seguito alla loro relazione. Scopare con lui, scrive Nelson, è stata una delle esperienze più dolci che abbia mai fatto, ma adesso che la loro storia è finita e la tristezza ha preso il posto della dolcezza Nelson si chiede che cosa ci sia, e se ci sia, di sbagliato nel suo modo d'amare.

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Nella traiettoria della pungente intelligenza delle cose di Nelson, questo ci porta subito alla questione del vedere, ovvero: siamo noi a dotare gli oggetti che vediamo delle qualità che gli attribuiamo? E perché, nella tradizione cristiana, ci sono sante che palesemente si sono punite per l'atto stesso di vedere, e quindi, per avere colpevolmente desiderato? “Più che altro”, scrive Nelson, “mi sono sentita diventare una serva dell'infelicità. Sto ancora cercando bellezza in questo”. 

Quello che l'ultima lettura di Bluets mi ha rivelato è che questo è essenzialmente un libro di domande, di cui forse la più cocente è: È la malattia che parla, quando parlo d'amore? Sarà sempre il blu il colore che verrà a galla quando mi innamorerò? E il dolore, durerà per sempre? Quando arriverà il momento di dichiarare esaurita la malinconia? E questo momento, arriverà mai? E perché tanta sofferenza inutile che non ci è dato alleviare? 

Man mano che le domande si accavallano crescono anche l'intensità e l'urgenza delle argomentazioni, come se la scrittura avesse poco tempo per trovare delle risposte. Tra queste, penso che la 132 e la 133 abbiano particolarmente senso: “Voglio dire: ho provato ad abbandonarmi a peso morto al mio crepacuore, come un amico mi ha confessato di fare con la mia ansia. Consideralo un atto di disobbedienza civile, dice. Lascia che sia la polizia a rimuoverti a forza”; “Ho provato a collocarmi in una terra di immenso sole, e lì abbandonare la mia volontà”. Nella proposizione numero 141, invece, tocca alla figura di Isabelle Eberhardt, che da giovanissima lasciò la Svizzera per vivere tra i Tuareg e morì smarrita nel deserto, il compito di tematizzare l'attrazione del vuoto, il desiderio di oblio, la pulsione di morte che è, ancora, un luogo azzurro e distante, avvolto da una nebbia di morte. 

Tuttavia, come molti artisti, Nelson sa bene come il blu “ceda il passo all'oscurità – e poi di come, senza preavviso, l'oscurità cresca in un cono di luce”, e ricorda non a caso come uno degli attributi di Dio nell'antichità fosse quello di “divina tenebra”: Dio come l'amore, un'esperienza in cui si mescolano luce e tenebra per approdare, come dopo un atto di memoria – o un atto di scrittura – in un luogo completamente diverso, un luogo in cui chi scrive/ricorda ha un rapporto dialettico, vivo, con il ricordo e l'esperienza. Se è vero infatti che non ci si può bagnare due volte nelle acque di uno stesso fiume, “sembra che qualcosa resti lo stesso qui, ma cosa?”. L'immagine dell'acqua ritorna non solo per ricordarci che è sempre il nostro corpo a bagnarsi nel fiume, ma anche per ricordarci che “tutte le parole, non solo alcune, sono scritte sull'acqua”, e che questa impermanenza è il vero pharmakon

La proposizione numero 236 ha un sapore particolarmente salutare: “Non preoccupartene troppo. “Nove giorni su dieci, scrive Merleau-Ponty a proposito di Cézanne, “non vede attorno a sé che la miseria della sua vita empirica e i suoi tentativi mancati, i resti di una festa sconosciuta”.

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