Malpensa. Gli occhi del mostro

28 Giugno 2015

Esistono luoghi che sono punti di partenza e di arrivo insieme, luoghi fatti di strade che non hanno nome, luoghi in cui incontri persone che non sai da dove vengono né dove vanno. Luoghi che nascono solo per consentire a qualcuno di andare da qualche parte, luoghi che non accolgono, accompagnano solo, come qualcuno che ti viene incontro e non ti dice il suo nome, ma ti prende per mano e ti porta dove chiedi. Luoghi che non vogliono essere interpretati, conosciuti, studiati, luoghi che vogliono solo aiutarti a trovare la strada, come un estraneo che ascolta pa­zientemente la tua storia ma non ti racconta la sua.

 

Ce ne sono tanti di questi luoghi-non-luoghi, ma ce n’è uno in particolare che ha sempre esercitato su di me un fascino misterioso: l’aeroporto. Per chi vive nell’eterna incertezza se partire o restare, se incamminarsi su una via secondaria o seguire la strada maestra, l’aeroporto rimane uno dei più grandi “mostri” da cui guardarsi, da osservare con estrema attenzione e da affrontare solo quando il coraggio pesa un po’ più della paura. Per chi è lacerato tra il desiderio di certezze e la fame di nuove esperienze, tra la necessità di quiete e il sogno di tempeste, l’aeroporto è il luogo dove sciogliere i dubbi, dove prendere decisioni definitive, dove l’ultima chiamata non lascia spazio ai ripensamenti.

 

Le grandi finestre degli aeroporti sono grandi occhi sul mondo: ogni aereo corrisponde a una destinazione, ogni corridoio è un braccio teso che termina in una porta, mano che stringe la tua e ti accompagna lontano. Dalle finestre degli aeroporti i bambini osservano gli aerei: «Mamma, voglio andare su quello blu e giallo». Per loro gli aerei sono solo giocattoli e in vetrina scelgono il più colorato. Il colore rassicu­ra anche sulla destinazione: un aereo blu e giallo non può portarli in un posto triste, certo ad attenderli ci saranno sorrisi e feste. È bello guardarli e ricordarsi che per loro il tempo delle scelte è rimandato a un’età che deve ancora venire.

 

La prima volta che ho preso un volo intercontinentale da Malpensa avevo diciott’anni. Destinazione: Cuba. Nei miei occhi non c’era la speranza di una bambina, ma l’incertezza di un’adolescente. Partivo per cercare conferme al mio fervore militante: credevo di aver colto nelle assidue letture e nelle lunghe discussioni con i compagni la vera essenza dell’isola che non c’è. Ma quanto sbagliavo! Ricordo che il primo brivido l’ho provato proprio in aeroporto, alla partenza. Malpensa mi disorientava: avevo con me i miei libri, le mie convinzioni di ragazza, fatte di passione e adesione totale, ma quel luogo, così freddo e anonimo, mi gelava. Mi avessero bendato e fatto fare tre giri su me stessa, avrei provato le stesse identiche sensazioni: nausea, confusione e disorientamento, appunto. Un’avvisaglia, forse. L’aeroporto fa anche questo: ti chiede di spogliarti di tutto – convinzioni, pregiudizi, proiezioni – e di lasciare che sia la destinazione a rivestirti di verità e di esperienza. Un ae­roporto deve fare questo: garantire una sterilità che non contamini e non pregiudichi un’esperienza reale e sincera. Più un aeroporto è anonimo, inospitale e distante, più assolve alla sua funzione.

 

Sono tornata a Malpensa, anni dopo, per un altro viaggio intercontinentale. Questa volta la destinazione era l’Australia e i miei occhi ancora più distanti da quelli di una bambina: erano gli occhi di un’adulta, stanca di un’Italia che promette e non mantiene e che poi smette perfino di promettere – almeno poi nessuno ti rinfaccia la promessa. Mi avessero fatto salire anche su un aereo bianco e nero avrei comunque pensato che la destinazione sarebbe stata meglio della partenza. Ma anche in quel caso ricordo il brivido a Malpensa, il brivido di non essere all’altezza, di non essere in grado di reggere il peso di una distanza che quella volta sarebbe stata davvero abissale. La paura mi ha accompagnato per tutto il tempo dell’attesa: dal check-in al momento dell’imbarco ho desiderato fuggire, ritornare sui miei passi, consapevole che quella era l’ultima chance. Ho sempre provato molta ammirazione per chi lavora in aeroporto: conoscere tutti i segreti di un non-luogo non è cosa da poco. E ricordo che quel giorno avrei dato qualunque cosa per sapere dove trovare l’angolo più segreto, dove rifugiarmi ed eludere la paura, che in aeroporto scruta sempre tra la folla in cerca di una facile preda.

 

Poi ho fatto la mia scelta, nel luogo delle scelte, ed è stata la scelta migliore che abbia fatto in vita mia.

 

Da qualche mese vivo a Bellinzona. Un treno bianco e rosso parte da qui e arriva a Malpensa. Ho sempre pensato che la libertà di viaggiare sia la libertà per eccellenza: quindi, ai miei occhi, questo fa di Bellinzona, seppure schiacciata tra montagne e fiumi, una città libera. Salire su un treno per arrivare dove si aprono porte sul mondo consente di abituarsi al pensiero del viaggio, all’idea del distacco, della scoperta, dell’incognita. Un giorno l’ho fatto: da Bellinzona ho preso un treno con destinazione Malpensa. Non dovevo prendere l’aereo, volevo solo provare a vedere se il grande mostro mi avrebbe giocato il suo solito scherzo. Ma il mostro sonnecchiava: al mio arrivo non mi ha degnato nemmeno di uno sguardo. Anche la paura era lì, ma tra la folla questa volta cercava qualcun altro: ha capito subito che non dovevo partire, che non dovevo scegliere.

 

Che ci si creda o no, anche l’aeroporto ha un’anima e se stai bleffando se ne accorge. In quel momento io non gli stavo dando l’importanza che meritava e lui di conseguenza non ne dava a me. Arrivederci, ho pensato. E me ne sono andata. Tornerò quando ci sarà da giocare sul serio e tu mi darai il solito senso di nausea e di vertigine che si prova prima di ogni partenza, di ogni grande impresa.

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