40 colpi di Richard Serra
È raro vedere una mostra di Richard Serra a Milano, tanto più pensata e realizzata per l’occasione. Serra è un artista ormai storicizzato, che abbiamo visto l’ultima volta a una Biennale di Venezia di diverse edizioni fa (2001) con una delle sue tipiche monumentali sculture dalle pareti inclinate, lungo il cui percorso interno si perde il senso dell’equilibrio, mentre all’esterno appaiono come muri di metallo che occludono la vista e costringono a girarci intorno. Per queste ragioni una sua opera venne contestata nel 1989 a New York fino ad ottenerne la rimozione dalla Federal Plaza. Per queste stesse ragioni di alterazione percettiva dello spazio, e del tempo, d’altro canto è stato celebrato come originale prosecutore della minimal art, come ci hanno ben dimostrato gli importanti testi di Rosalind Krauss dedicati alla sua modalità di “scultura nel campo allargato” e di “site specificity”.
Di solito composte da pesantissime lastre di metallo di grandi dimensioni – leggendaria anche la preparazione, che solo degli altiforni in Germania potevano garantire, da dove di conseguenza partivano tutte le sue opere in tutto il mondo con dispendiosi trasporti –, sono famose dagli anni ’70 in tutto il mondo. Non tutti conoscono invece i suoi “disegni”, meglio opere su carta, eppure bellissimi e innovativi tanto quanto le sue sculture: esclusivamente in nero, possono a volte apparire come dei progetti delle sculture, ma sono invece delle opere autonome di grande dirompenza, uno scolpire disegnando, se si può così sintetizzare.
La mostra in questione, che si tiene alla galleria Cardi di Milano fino al 5 agosto, non è meno “monumentale” delle sue sculture, ma diversamente. Lo è nelle dimensioni, perché composta da 40 grandi fogli che circondano il visitatore in forma di fregio su tutte le pareti del grande spazio espositivo. Ogni foglio contiene un cerchio nero abbozzato a mano libera, impreciso, irregolare, che Serra ha chiamato “ball”, palla.
Il titolo dell’opera è infatti 40 balls. Le palle sono in diverse posizioni sui fogli, così da dare l’impressione di un’onda che corre lungo le pareti. Dall’entrata o dal centro della stanza l’impressione è di un cerchio che si muove su e giù, leggero, quasi danzante – l’allestimento a fregio fa pensare all’animazione, come fossero i frames di una sequenza video, una cronografia. Ma quando ci si avvicina si vede che il disegno è molto materico, il nero ha spessore e consistenza, tracciato con forza e gestualità: è così che il cerchio prende corpo e da piatto e visivo diventa “palla”, cioè tridimensionale, pesante, scultura. Il carattere principale di quest’ultima infatti, Serra lo ha evidenziato in tutti i modi, è il peso, la gravità, nei diversi sensi della parola, la massa, la drammaticità, la pericolosità, la serietà e l’importanza. Tutti ricordano di Serra gli House of cards e i Corner Blocks, composti da lastre e blocchi di metallo che stanno su appoggiati gli uni agli altri in un equilibro precario. Per ben due volte hanno causato incidenti, nel 1971 e nel 1989, in cui sono rimasti feriti gli operai che le stavano installando.
Tornando alle nostre balls, il contrasto è fortissimo, è dimensionale, spaziale e anche temporale: ora non è più un’onda né una danza, sono diventate delle palle, dei colpi di mortaio, una raffica, un bombardamento. Altro che astrattismo, formalismo, distacco dalla realtà, fuga o sublimazione! Tutto l’opposto: ricondurre l’arte alla realtà, ma non senza ricondurre la realtà all’arte. Non è questo il senso della “forma”? Stavo per dire il “pathos della forma”; quello che si contrappone al pathos illustrato, forse anche alle “forme del pathos” di warburghiana memoria.
Non so se la mia lettura sia effetto delle immagini che vediamo quotidianamente della guerra in corso in Ucraina – tutti hanno notato che non c’è mai stata guerra di cui sono mostrati così insistentemente, quasi esclusivamente, gli effetti dei bombardamenti –, non so se Serra ha realizzato quest’opera con questo riferimento, probabilmente l’ha fatta prima, ma non credo di forzare molto. Il minimalismo e il concettuale e il postminimalismo non erano distaccati dalla realtà storica, sociale, politica. Da qualche tempo si sono attivati degli studi anche storici in questa direzione. Non è un caso che quei movimenti siano coincisi con la recrudescenza della guerra del Vietnam. Dario Bellini ed io l’abbiamo ricordato proprio recentemente in un nostro intervento in una serata all’interno della mostra di Gianluca Codeghini allo spazio Assab One di Milano, inopinatamente intitolata WAR in fase di progetto, prima che scoppiasse la guerra, rimandando in realtà alle prime tre lettere del nome Warburg, da cui il nostro “gruppo” prende il nome. L’abbiamo fatto rileggendo i primi famosi Statements (1968) di Lawrence Weiner, cardini dell’arte concettuale, il primo dei quali dice proprio: “Un campo crivellato da esplosioni di tritolo simultanee e pianificate”, il rovescio dei nuovi colpi di Serra, buche piuttosto che palle, diversamente drammatiche.
Serra oggi ha passato l’ottantina, se mi si scusa la battuta, a me sembra che abbia colpito ancora. Siamo davvero sicuri che non ci sia ancora da guardare e pensare in questo tipo di arte? Forse davvero non siamo mai stati modernisti e formalisti, come ha detto Bruno Latour, o forse non lo sono mai stati i grandi artisti.