Tokio 2020 / Ori nell'atletica: italiani di nuova specie?

2 Agosto 2021

Cento metri e salto in alto, maschili? Oro? Se ce l'avessero prospettato in anticipo non ci avremmo mai creduto. Siamo infatti avvezzi a una certa graduatoria di attendibilità, esito possibile dei retaggi tradizionali. Ci aspettiamo di poter vincere qui, non là. Certe corse, non altre; certi salti non altri. I cento metri piani maschili e il salto in alto maschile non parevano essere francamente alla nostra portata. Marcell Jacobs e Gianmarco Tamberi ci hanno messo di fronte al dato di fatto contrario e ci hanno lasciati sgomenti, ancor prima di disporci a esultare.

 

Questi giochi olimpici – nel loro essere dimidiati dal Covid, dallo spostamento a un anno dispari, dalla labirinticità della loro raggiungibilità televisiva – pure pretendono una centralità assoluta. Disputano con la riforma della giustizia, la metafisica biopolitica del Green Pass, le alchimie politicistiche e giungono alle prime pagine. Oro nei cento metri, oro nel salto in alto: chi non lo sapesse, sono notizie sconvolgenti.

I campioni delle tante specialità che hanno arricchito il medagliere italiano nelle precedenti edizioni lo sanno: ci sono medaglie che si enumerano, sono fonti di vera gioia e orgoglio pure sincero. Altre medaglie però contano molto e di norma sono quelle che corrispondono alla versione sportiva e formalizzata di attività umanamente semplicissime. Correre, cioè estendersi in lunghezza; saltare, cioè estendersi in altezza. Chi lo sa far meglio?

 

 

In passato potevano cercarsi corrispondenze con propensioni etniche e persino nazionali. Il nostro Gianni Brera recensiva dotazioni muscolari, forme ancestrali di alimentazione, stilistiche del gesto atletico sino a stabilire minuziose classificazioni nazionali, con le relative anomalie per cui la malagrazia stilistica di un Marcello Fiasconaro poteva ambire al primato mondiale, l'imperfezione fisica di un Pietro Mennea agli ori, l'attitudine plebea della nazionale di calcio di Bearzot al gradino più alto del podio "mundial". Ma ora caratteri etnici e metodi di allenamento si sono fatalmente rimescolati. Lo abbiamo dovuto a una rivoluzione sociale – l'essere diventati una società multietnica – e a una rivoluzione culturale – essere andati oltre ai disciplinari tecnici resi obbligati dalle caratteristiche fisiche ereditate. Faremmo bene a ricordarcene.

 

Oggi non solo è possibile perdere in specialità, come le schermistiche, che ritenevamo nostre quasi per diritto ancestrale: è anche possibile vincere dove fu in precedenza impensabile, non essendo americani, russi, canadesi, giamaicani. Sono cambiati i nostri fisici, si sono ridisegnati i nostri limiti, è arrivata gente dal di fuori che ha cambiato il significato della parola "noi". Nuove generazioni di tecnici non si sono arrestate ai limiti segnati dai vecchi luoghi comuni, per cui gli italiani sanno vincere solo così e non sanno che perdere cosà. Qualcuno ha pensato che atleti di nazionalità italiana potessero prevalere nella corsa più fulminea, nel salto più spettacolare: così è infatti stato. 

 

 

Tra le vittorie sportive del passato, quelle di Pietro Mennea, Sara Simeoni, Paola Pigni, Paolo Rossi, fratelli Abbagnale e compagnia cantante ci dicevano che l'Italia poteva farcela anche se: anche se non c'era ovunque una grande cultura dello sport, anche se fisicamente non eravamo molto avvantaggiati, anche se contavamo troppo sull'arte di arrangiarci. Le vittorie di ieri ci dicono che l'Italia ce la sa fare anche se (= anche perché) non sa più del tutto cosa sia l'italianità, anche se non sono più tanti i luoghi comuni che ci riguardano. 

 

 

Ecco che lo sport ci indica, una volta in più, una frontiera che non avevamo ancora intravisto: trovare in un campione italiano qualcosa che non avremmo mai riconosciuto, immedesimarci nell'altro, esultare per meriti di cui non sapremmo rintracciare l'origine. Di per sé è la banalità del tifo, dello sport passivo, dell'orgoglio subappaltato. Più in prospettiva è una forma di apertura al possibile. Prima di costruire i loro altarini facciamo caso all'ipotesi che Jacobs e Tamberi siano italiani di una specie a noi del tutto sconosciuta. Proviamo a pensare di farci rappresentare da gente che non ci somiglia per nulla. Rivolgiamo ai nostri campioni uno sguardo non di immedesimazione, per illuderci che siano come noi, ma di estraniazione. Siamo collettivamente anche ciò che non sappiamo di essere, qualcuno fra noi eccelle dove non avremmo mai pensato, produciamo chissà come qualcosa che ci sorprende. 

Pensarlo è a sua volta una specialità atletica. Questa è alla nostra portata.

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