La pandemia come criptosuicidio / Il virus per andarsene

11 Febbraio 2022

Se il disagio mentale è uno dei possibili piani dell’edificio umano, se ne diventa una parte integrante, va da sé che questo valga in tutte le circostanze evenemenziali, pandemia compresa. Si è molto ragionato sulle conseguenze del lockdown e sulle nuove regole comportamentali che abbiamo dovuto accettare, come cause di sofferenza psichica. E tuttavia la sofferenza psichica stenta ancora a essere riconosciuta come emergenza. La recente bocciatura del governo di un ampliamento degli aiuti per le cure rivolte al sostegno psicologico delle persone in difficoltà ne è una triste conferma, sulla quale lo psichiatra Vittorio Lingiardi ha efficacemente concluso: “Se la pandemia doveva insegnarci qualcosa, era la centralità della psiche. Psyché significa respiro. E se la psiche respira, ha bisogno di ossigeno. Particelle vitali per fronteggiare quelle virali. Anche un bonus da 50 milioni può essere una particella vitale. Non solo sul piano concreto, anche sul piano simbolico. Che, come quello psichico, non si vede e non si tocca: e dunque “non ha bisogno di soldi”. Ma qualcuno sa vivere senza psiche e senza simboli?” (Repubblica, 13.01.2022)

 

Ma c’è un’altra riflessione, che riguarda una diversa piega del problema che provo a dire così: si ragiona sulle conseguenze della pandemia come cause di sofferenza psichica, ma probabilmente ha senso ragionare anche sulle problematiche di natura psichica come causa della diffusione del virus. I dati: solo alla fine del 2020 c’è stato un incremento del 121% di chiamate in più rispetto all’anno precedente per tentativi di suicidio, il 68% in più per ideazioni suicidarie e l’84% per le richieste di aiuto per gesti autolesivi. Lo ha ricordato recentemente Eleonora Mattia consigliera della Regione Lazio e Presidente Commissione Lavoro, Pari opportunità, Istruzione, Formazione e Politiche giovanili. Sono numeri che non ammettono sofismi o, peggio, sarcasmi e polemiche, sono micidiali pietre che la realtà ci scaglia addosso, punto e basta. Il dubbio legittimo e agghiacciante che viene è che più d’uno tra questi aspiranti suicidi veda nel virus Covid-19 una vera e propria opportunità per andarsene. È un dubbio che credo vada perlomeno tematizzato.

 

Si potrebbe facilmente fare i duri su un argomento come il suicidio, basterebbe scegliere il registro della spietatezza e guardarsi in giro che di esempi ce ne sono all’infinito. Si potrebbe scherzarci su, in chiave apotropaica, o “fare i dottori” mettendosi dietro al séparé emotivo della Scienza. Mettila come vuoi, ma il suicidio è una belva feroce che sta sempre qui e ci gira attorno. Si spera solo che mai e poi mai ci metta le zampe addosso. La delicatezza con cui parlarne non è mai abbastanza, perché è troppo difficile se non impossibile non urtare comunque la sensibilità di qualcuno. 

 

Il suicidio, sotto la forma generica di “cattivo pensiero”, è sicuramente qualcosa che ci accompagna nel nostro intimo, ma più ancora è un’idea che lavora nel profondo psichico. È una storia lunga e complessa che appartiene all’umanità, sulla quale continuiamo a confrontarci, ma sulla quale qui e adesso non importa dilungarsi troppo. Diciamo che è un qualcosa con cui a molti capita, magari simbolicamente, di fare i conti o anche semplicemente di “giocare”, così a mo’ di sfida tra sé e sé. C’è un bel libro di poesie di Alessandra Carnaroli, 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti (Einaudi 2021), che svisa sull’argomento con bellezza e pregnanza, lavorando su simboli e significanti dei gesti insani che scaturiscono dallo sconforto indotto dalla “benevola mostruosità” del quotidiano. 

 

 

Ebbene, ciò detto, io credo che sia ragionevole pensare che non pochi tra coloro che aderiscono ai no-vax trovino nel Covid una sorta di facilitazione, una agevolazione che asseconda la loro volontà, più o meno recondita, di farla finita. Non riesco a fare a meno di pensarci, ho l’impressione molto netta che queste persone non vogliano perdere il treno giusto che passa al momento giusto, per mettere fine alla propria esistenza senza dover infliggersi orribili violenze e terrificanti sensi di colpa. Meglio se il virus lo si demonizza, più insidioso è e più diventa allettante, un vero stimolo a infettarsi il più in fretta possibile. Insomma, questo virus è come se fungesse da “acceleratore di immanenza” (secondo l’acuta definizione di Federico Leoni nel suo articolo dello scorso anno in queste pagine), in grado di smuovere comportamenti sino ad ora giacenti. 

 

Si capisce che per queste persone né l’ignoranza scientifica né l’ignoranza tout-court c’entrano qualcosa, poiché l’asse del problema si sposta su tutt’altra direzione. Deve perciò essere chiaro che qui stiamo parlando di un aspetto particolare e specifico del comportamento di chi rifiuta il vaccino, aspetto che solo in superficie è ascrivibile a quello dei no-vax. Sono casi provenienti da un profondo disagio mentale dei quali andrebbe diversamente soppesata l’assunzione di responsabilità rispetto alle conseguenze sociali del loro comportamento. Così facendo, in questa prospettiva, si porrebbe certamente un serio problema di attendibilità diagnostica, ma contestualmente, io credo, si introdurrebbe anche una possibilità terapeutica.  

 

Non posso, è ovvio, disporre di alcun dato statistico su questo fenomeno che rimane presunto, ma sono troppe le storie individuali sentite in questi due anni di pandemia che depongono in questa direzione, vicende che suggeriscono che questa motivazione nascosta sia presente in un certo numero dei contrari ai vaccini. E personalmente non credo che la quantità di persone coinvolta sia insignificante, purtroppo.

Convincere i no-vax a vaccinarsi, già, già… Le istituzioni e i singoli si danno da fare con ogni mezzo, ma se i demoni depressivi intercettano il virus, no, se l’Io “fottuto” coglie l’istanza di liberazione che il virus gli offre, la folle dinamica suicidaria diventa una pratica plausibile e dunque possibile. Di fronte a questi meccanismi psichici non ci sono argomenti e ragionamenti che tengano: la “ratio” è un’altra, non ha niente a che vedere né con la salute collettiva, né, meno ancora, con il problema della violazione dei diritti individuali. I campi contrapposti dell’opinione non possono nulla contro una scelta individuale che sfugge per sua natura a qualunque sistemazione ordinaria e sfugge anche alla coscienza di chi la prova, di chi è convinto di difendere la propria salute, salvo poi rifiutare le cure. 

 

Che cosa sono le esibizioni di “eroismo” di molti attivisti che anche davanti a una morte certa restano aggrappati al rifiuto del vaccino come “valore supremo”, se non un mascherare il proprio inconfessabile cedimento, un negare la morte del proprio desiderio? Vogliamo ricordare gli assembramenti organizzati ad arte per procurarsi l’infezione da Covid 19? Chi può dire che tra i cercatori di virus non ci fossero degli aspiranti – sottolineo, con tutta probabilità non consapevoli – al suicidio? Che importanza può avere per queste persone la salute collettiva se proprio dalla collettività vogliono ritirarsi? Che ci sia una rimozione, come dicono gli psicoanalisti, appare piuttosto probabile, e forse coinvolge molte persone. “Il vaccino è portatore di morte, esattamente ciò che io cerco rifiutandolo”, questo potrebbe essere il pensiero recondito di troppi adulti “sani e robusti”, magari di giovani padri di famiglia che si arrampicano sugli specchi e dicono no all’anestesista di terapia intensiva che li vorrebbe curare, in nome di una volontà inconfessabile di cui non sono nemmeno pienamente coscienti. 

 

Queste osservazioni – su cui forse meriterebbe  sviluppare almeno una discussione –, è difficile, se non ridicolo, farle stare vicino alle argomentazioni, che so, dei “filosofi di Torino” (la cosiddetta “commissione DuPre” che trovo una sorta di caput mortuum del pensiero occidentale, sulla quale valga per tutte la riflessione di Giacomo Marramao, HuffPost, 4.12.2021) o del Comitato Tecnico Scientifico nazionale (che fa ciò che deve) per il semplice fatto che la coscienza corre su altre strade rispetto a quelle della sofferenza psichica. E credo che qui stia il nodo vero della questione: la consapevolezza di un uso distorto del rischio di malattia richiederebbe un tipo di intervento sociale e medico specialistico particolarmente mirato alle persone più esposte, per le quali affrontare direttamente i rischi della pandemia si è trasformato in un angoscioso gioco di morte. Che cosa questo significhi e che cosa si possa fare subito diventa qualcosa di molto più grande di tutti noi messi assieme, e tuttavia sappiamo bene che dire le cose è di per sé un prezioso passo avanti sulla strada del reperimento delle soluzioni. Capire se e in che misura il cupio dissolvi agisca su alcuni sedicenti no-vax consentirebbe di spiegare (e derubricare) almeno una quota di “mancanza di senso della realtà” che oggi si attribuisce a queste persone. 

 

Tutto ciò è probabile che abbia a che fare con una precisa sensibilità contemporanea, una voglia di scherzare con il fuoco, per così dire, una pulsione negativa che negli ultimi due decenni, diciamo dall’11 settembre 2001, è andata ingigantendosi. Individui sempre più effimeri in una società sempre più effimera (l’epoca dei singoli, per dirla con Francesca Rigotti), in cui le occasioni di fragilità si infittiscono. Una società in cui l’esausta opulenza occidentale sembra liberarsi anche nelle sue versioni da esportazione planetarie. 

Se c’è anche una sola persona che accoglie il virus per andarsene, io penso che si debba intervenire affinché rimanga con tutti noi. 

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