Agamben, l’ebbrezza della vecchiaia
Arte, follia e vecchiaia sono sicuramente parenti. Che io sia stato un corposo rosso d’annata o un esile prosecchino strapieno di bollicine, avvicinandomi al finis terrae della mia vita devo inevitabilmente fare i conti (espressione in questo caso particolarmente gretta e miserabile!) con il dato di realtà inesorabile del rallentare della mia presa sul mondo: a un certo punto comincio a guardare ogni cosa smarrendo i miei capisaldi costruiti negli anni, vedo ciò che per tanto tempo mi era stato invisibile, compare un tutto inedito che meraviglia e atterrisce. E il mio sguardo diviene molto simile a quello dell’artista o del folle, appunto.
Importa sempre meno ciò che mi sta alle spalle, salute serenità difficoltà economiche disagi sociali: tutto diventa un rincorrersi dell’atto di forza e di cedimento, della ricerca della precisione e l’affanno dell’approssimazione, l’imperfezione diviene la mia cifra essenziale in un quadro di impermanenza (già, il Buddhismo…). “I've looked at life from both sides now / From win and lose and still somehow / It's life's illusions I recall / I really don't know life at all“ (Ormai ho guardato la vita da entrambi i lati / vincere o perdere e ancora in qualche altro modo / Sono le illusioni della vita ciò che ricordo / In realtà non conosco affatto la vita) dice nel modo più incantevole Joni Mitchell in Both Sides Now.
Se ne occupa Giorgio Agamben in L’ultima mano all’ebbrezza (Portatori d’acqua, Pesaro 2023), una disperata riflessione sul finire e sulla bellezza dell’“ultimo bicchiere che annebbia e sommerge e dà l’ultima mano all’ebbrezza”. Una sorta di museo della parete che si scrosta, del vaso che si crepa, dove si vedono le immagini “conclusive” di personalità che, dopo aver orientato l’umanità, si perdono nell’ebbrezza della vecchiaia. Scrive Agamben: “Come l’ebbrezza, il pensiero è costitutivamente finito, esige sempre un’ultima mano. Invecchiare è sentire questa ultimità – per il vecchio, come per il pensiero, ogni giorno è l’ultimo bicchiere, quello che annebbia e sommerge” (p.13).
L’opera tarda diventa come l’emblema dell’autore da vecchio, un’ultima mano “che disfa e devasta, che spreca e saccheggia” (p.16). L’opera tarda di Cézanne è “in sé lacerata, inconsistente e mostra una tendenza a sprofondare pericolosamente”; Holderlin negli ultimi inni rompe l’unità metrica e sintattica isolando nomi propri e congiunzioni compromettendo la leggibilità stessa del testo. Nei suoi dialoghi tardi Platone usa anacoluti e particelle prive di significato al punto di rendere incomprensibile il suo discorso. Nell’Opus postumum di Kant, celebre per il suo ordine maniacale, l’autore scrive e riscrive e commenta a margine e postilla in un accavallarsi senza ordine di pensiero e realtà empirica. Così in Monet, che dipinge incessantemente fino alla fine a 86 anni, il mondo reale si fonde a quello immaginario, “L’opera tarda di Monet – come ogni opera tarda – revoca in questione la stessa identità dell’opera d’arte” (p.38). È l’idea stessa che non è più.
Ma la vecchiaia avviene in un mondo di infinita complessità, la vecchiaia è in una Storia e deve fare i conti con i suoi dati relativi appartenenti a una certa epoca. E quando il “che cosa” muta, il “come” non può che adeguarvisi. Una nuova fisicità del vivere, una nuova interiorità, non possono che alimentare una nuova emotività. E per quanto ci riguarda, noi dobbiamo confrontarci con i margini sempre più sfumati che la nuova pervasiva tecnologia (vedi Ai confini dell’umano) lascia alla coscienza, l’isola in cui l’essere umano può ancora mettersi al riparo perché, come dice Massimo Cacciari parlando della sua Metafisica concreta, “il dono della coscienza è qualcosa che non può essere ridotto a semplici meccanismi di tipo neurale, biologico”( Corriere della Sera, 23.11. 2023). A maggior ragione alla coscienza già sfumata dei vecchi, per i quali “tutto diventa un rincorrersi dell’atto di forza e di cedimento, della ricerca della precisione e l’affanno dell’approssimazione”.
La pianta dell’agave si distingue per fare un solo fiore alla fine della sua vita. Un solo fiore che sorge dal suo cuore come fosse la sontuosa manifestazione della sua esistenza, alto, più alto delle sue foglie, svettante sul mare di spine che lo ha a lungo protetto, un vero e unico inno alla gioia dell’ebbrezza finale. Un “gesto artistico” che illumina il vivere che è stato. La poesia di una lingua che più “non dice, ma chiama”, come ha scritto altrove Agamben: “Che cos’è, infatti, la poesia, se non ciò che resta della lingua dopo che ne sono state disattivate una a una le normali funzioni comunicative e informative?” (Che cosa resta? in “Quodlibet”, 13.06.2017). Quante associazioni vengono in mente con l’esperienza artistico/filosofica “ai confini della realtà” di Anselm Kiefer (da leggere il bell’articolo di Massimo Donà Anselm Kiefer, là dove tutto è uno sul libro di Vincenzo Trione, Prologo celeste, Einaudi 2024). Anche questa una riflessione, imponente, sull’estremità. Sulla creatività delle rovine.
“Invecchiare – un problema per filosofi”, dice Agamben. Diciamo che sono i filosofi a porsi il problema della fine del tempo. Insomma, c’è un piano assoluto in cui domina la dimensione del confine, della soglia ultima verso cui andiamo, ma è una barriera che riguarda il limite oggettivo della vita. Fino a lì abbiamo a che fare con “l’illusione” come la chiama Umberto Galimberti ricordando il padre della modernità Schopenhauer: l’individuo per vivere deve illudersi e, indossando la maschera dell’“Io”, fuoriuscire dalla verità della sua vita che è il suo essere strumento della conservazione della specie (U. Galimberti, La casa di psiche, Feltrinelli, 2005, p.30).
Fino a lì, fino a quando la dinamica del tempo si interrompe, fino all’“ultimo bicchiere, quello che annebbia e sommerge”, ecco il punto: “No, l’ultimo istante non è, come credono alcuni, l’improvvisa visione di tutta la tua vita, una specie di film o di frenesia in cui tutto quanto hai vissuto e hai avuto caro ti sfila in un attimo davanti agli occhi. È, proprio al contrario, un andartene via – un congedarti incolume e non visto da quella folla di cose, volti e persone che credevi, che sono così intime – ma verso dove, verso dove? Da nessuna parte, proprio là dove sei ora, in questa stanza dove scrivi con le mani un po’ impigrite e svogliate – è solo l’ultimo esilio, il più delicato, quello di te presso di te, coi tuoi gesti abituali che ora se ne vanno dentro se stessi, dove anche tu te ne vai, né in cielo né sulla terra – ah, andarsene è davvero il luogo dei luoghi, il tempo dei tempi, la ventura delle venture…”, così chiude Giorgio Agamben.
P.S.: … ma ora ascolterò con raccoglimento le meraviglie delle versioni del brano Peace Piece di Bill Evans un tema e i suoi interminabili possibili.
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