Armida Miserere. Morire di carcere
“Donna forte”, Armida. “Una dura”. Il volto come tagliato nella pietra. E inciso nel corpo del suo cognome (Miserere) un nero emblema di morte. Per anni l’ha tenuto a bada, l’ha sorvegliato contenendolo. Ma l’argine non ha retto: col tempo si è sgretolata la maschera della forza, e si è sgretolata la vita di Armida. Ora, solo stanchezza, interrotta da incursioni di rabbia.
Nella notte tra il 18 e il 19 aprile 2003, Armida Miserere si uccide con un colpo di pistola alla tempia, nel suo appartamento di servizio, all’interno del carcere di Sulmona, di cui è direttrice. Ha 47 anni, e le pesano, piegata dalla memoria del dolore che si è trovata a portare, travolta da una corrente impetuosa di risentimento, e dall’amarezza della disillusione. Il volto di pietra lascia vedere tutto il suo aspro sentire; la marea della sofferenza non offre scampo. Per lei, nessuna via di fuga. Il tempo del sogno è finito. Incalza il giudizio, e la sentenza di morte che Armida pronuncia per se stessa.
Lascia una lettera sul comodino a fianco del letto su cui si distende. Non un congedo dal mondo, piuttosto un’invettiva. Armida circoscrive le ragioni del suo gesto, grida il tormento in cui è maturato:
“Sono stanca, troppo… Auguro morte e infamia, dolore e sofferenza a chi mi ha dato morte e dolore e sofferenza. … Non mi perdono di aver creduto in un sogno. Non posso perdonare chi quel sogno ha distrutto… Maledetta me e maledetto colui che mi ha uccisa… Non desidero funerali, né lacrime finte. Preferirei essere cremata e buttata al vento. Perché vento sono stata”.
Quale sogno ha inseguito Armida Miserere, e in quale massa di dolore è rimasta impigliata? Per quasi vent’anni, è vissuta in carcere, ed è vissuta di carcere. Era la sua casa: mura, sbarre, cancelli. Spazi chiusi, soffocanti. Esistenze chiuse, spesso ostili. Armida nel mezzo, prigioniera “libera”. “Il carcere – annota sul suo diario nell’ottobre del 2000 – mi ha preso tutto ciò che avevo”.
Ma il carcere era il suo mestiere, e ne era orgogliosa. Si mostrava capace di fronteggiare situazioni difficili. Lo sapevano bene al Ministero di Grazia e Giustizia, conoscevano la sua fermezza, e per questo la sposteranno di frequente, con incarichi spesso problematici, e qualche volta pericolosi, fra carceri speciali e nuove strutture di detenzione: Parma, dove inizia la sua carriera, Voghera, con le ultime “irriducibili” del terrorismo, sull’isola di Pianosa, al famigerato Ucciardone, dove era soprannominata “fimmina bestia”, infine Sulmona.
Così Armida Miserere si è trovata ad esplorare la variegata geografia criminale del nostro paese, tra mafiosi, membri della ‘ndrangheta e della “sacra corona unita”, criminali comuni, e figure come Michele Sindona, che incrocia nel super-carcere di Voghera, prima che un caffè al cianuro lo uccida, o, negli anni dell’Ucciardone, Giovanni Brusca, l’autore dell’attentato di Capaci, e, ad Ascoli, per un tempo breve, il capo dei capi, Totò Riina.
Nello specchio deformato del carcere, Armida ha visto passare la storia dell’Italia e il suo volto nero, nell’arco di anni tempestosi, fra il 1984 e il 2003. Di fronte a nulla Armida è arretrata. Come un militare (il padre era un militare) indossava la tuta mimetica, quasi a dire: “Sono in trincea”. E per anni, la tuta mimetica sarà tutto il suo guardaroba. Nessun vestito, la tuta e basta. E anfibi d’ordinanza. Così appariva. Rude e angolosa.
Non amava essere chiamata direttrice, ma direttore. E diceva che il carcere deve essere carcere, e non un “grand’hotel”. Appena arrivata a Palermo, agli inizi del 1996, vorrà abolire la dieta praticata dai boss: ostriche, gamberoni, e champagne. Il “grand’hotel” chiuderà i battenti, almeno per il momento. E i boss torneranno a mangiare quello che passa il carcere.
Questa era Armida la “dura”. “Sono una legalista”, diceva. “Applico il regolamento… Le regole sono una certezza nel bene e nel male, per noi e per i detenuti”. Il regolamento, le regole, saranno le sue tavole della Legge. Una frontiera invalicabile. Per questo, Armida si attirerà non poche critiche, e, qualche volta, odio.
In una lettera di “protesta” nel carcere di Sulmona, si parla di “torture fisiche e psichiche”, e del “carattere persecutorio e repressivo” della signora Miserere. Le parole feriscono Armida, che però procede per la sua strada. Sembra non conoscere paure, né cedimenti.
Non sarà sempre così: il corso dell’esistenza cambia, si rovescia, si aggroviglia fino a toglierle il respiro. Nel giugno del 1991, dodici anni prima dell’epilogo drammatico della sua vita, per giustificare il rifiuto di una nuova responsabilità, Armida scrive: “Ho perso entusiasmo, equilibrio e serenità. Non ho la forza e la voglia di ricominciare, a Voghera o altrove. Voghera mi prenderebbe quel soffio di vita che ancora mi rimane, quel poco di me che ancora sopporta di vivere”.
Tre anni dopo, il tono delle sue parole resta perentorio, definitivo: “Non ho sogni, non ho speranza, non ho futuro. Solo passato. E dolore”. Il tempo che passa non placa le ferite, ma non fa che accumulare angoscia.
Come si è consumata la forza di Armida?
Nella sua vita c’è uno spartiacque, una frattura, che svuoterà i suoi giorni depredandola di ogni energia. A partire da quel punto, la “dura” si sfalda, prendendo le parvenze di un fantasma. Il punto è circoscritto, è una data, 11 aprile 1990, una lama conficcata nella sua carne.
L’11 aprile 1990, Umberto Mormile, educatore carcerario, il compagno di Armida, viene assassinato sulla strada provinciale tra Binasco e Melegnano, mentre, in auto, si reca al lavoro. Qui s’interrompe la vita di Armida, il sogno si dissipa su quella strada, l’amore, la felicità, la vita insieme: tutto in fumo. E non solo per quel gesto bestiale, l’assassinio brutale di un giovane uomo, ma per ciò che ne segue, un polverone di supposizioni, calunnie, insinuazioni, attorno a cui s’intrecciano, come in una macabra danza, terrorismo, ‘ndrangheta, criminalità comune, e persino servizi segreti. E fango, una fiumana. La vita di Armida ne sarà travolta, e pure l’idea di giustizia che aveva sostenuto il suo impegno in carcere. “Sono troppo felice. Non sono abituata”, aveva detto pochi giorni prima che la catastrofe si abbattesse su di lei.
FONTI:
Cristina Zagaria, Miserere, Palermo 2021.
Come il vento, un film di Marco Puccioni, 2013.
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