Il paradigma della forza / Arendt, Castoriadis e l’enigma Putin
Stupore. È la sensazione che abbiamo provato, noi europei e occidentali, di fronte alla pandemia, convinti che le epidemie appartenessero a tempi o a luoghi remoti, e che si è ripetuta di fronte alla guerra scatenata da Putin. La guerra è piombata nel cuore dell’Europa, dopo settant’anni di pace, e di colpo ha archiviato l’ordine mondiale post-1989, che stava scivolando e fluttuando dall’egemonia dell’“Impero Light” americano (è la notoria definizione del politologo canadese Michael Ignatieff) a una forma instabile di multipolarismo, con l’emergere di nuove potenze economiche come la Cina e l’India e con il consolidamento dell’Unione europea, a seguito dell’allargamento a Est e dell’integrazione economico-monetaria.
Ma c’è un’ombra dietro questa guerra, che si tende a trascurare. È l’ombra del Potere. Per dirla meglio, si tratta della natura del Potere e dell’establishment russo attuale che ha preparato e sta conducendo la guerra d’invasione in Ucraina, rimettendo in campo un uso politico disinvolto dello strumento “guerra”, per rideterminare confini e frontiere, che consideravamo “illegale” e improbabile, soprattutto da parte di uno Stato membro del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Stentiamo a porre lo sguardo sul volto perturbante di questo potere e sull’“enigma Putin”. Putin, infatti, non è solo un autocrate che, da tempo, sta piegando in senso autoritario e poliziesco le strutture costituzionali e istituzionali della Federazione Russa. Dopo i massacri di Bucha, si staglia in modo inquietante la sagoma di un tanatocrate, senza remore nel mettere in conto la possibilità di ricorrere alla brutalità militare e alla barbarie, come conseguenza logica e inevitabile del diritto all’uso della forza, rivendicato, in modo inaspettato, come regola non ancora completamente archiviabile delle relazioni internazionali.
Solo adesso cominciamo forse a focalizzare gli ingranaggi del regime post-sovietico di Putin e le sue “somiglianze di famiglia” con quel regime sovietico, del quale, come già denunciava Hannah Arendt, il mondo non totalitario e l’intelligenza occidentale non riuscivano a cogliere la vera forza e la mentalità che funzionava in modo non utilitario, indipendentemente da ogni calcolo in termini di uomini e di mezzi e con indifferenza per il benessere del popolo.
A essere illuminanti sono proprio le continuità tra il regime putiniano e l’ultimo ventennio del regime sovietico, segnato dal passaggio dal controllo dello Stato (compresa l’istituzione dell’esercito) da parte del Partito (nella fattispecie, da parte della polizia segreta) al controllo della società civile da parte della società militare. Questa era almeno la tesi principale di un libro del filosofo, sociologo e psicanalista greco-francese Cornelius Castoriadis (di cui ricorre, quest’anno, il centenario della nascita), pubblicato nel 1981 e intitolato Devant la guerre.
Lo sfondo su cui si apre l’analisi di Castoriadis è quello della fine della distensione tra le due superpotenze, USA e URSS, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Castoriadis conduce uno studio minuzioso, statistico, del rapporto di forze militari che oppone i due blocchi, per supportare la sua tesi della superiorità sovietica. A tutti i livelli, constata un riarmo russo eclatante, se si pensa che ai 1300 missili sovietici si oppongono solo 164 Pershing americani. Ritrova la stessa disparità nel campo delle forze convenzionali, con un rapporto di 2 a 1.
Già questo quadro, per Castoriadis, inficia la possibilità di continuare a descrivere il confronto tra le due superpotenze come un equilibrio del terrore. Castoriadis adduce due aspetti evidenti e notori per confermarlo. Primo: la Russia ha praticato, dopo il 1945, una politica di espansione territoriale, a differenza delle potenze occidentali. Secondo: la Russia ha adottato da anni, a svantaggio dell’economia civile, una politica militare per affermare la superiorità in armamenti e in effettivi, che non ha senso nella prospettiva di una strategia della dissuasione, o di una strategia della non-guerra, ma solo nella strategia di una preparazione attiva di una guerra prossima (davanti la guerra non significa prima della guerra…).
Questi due fattori sono innanzitutto determinanti nel configurare una nuova dinamica di potere nel “sistema” sovietico: il potere in Russia non appartiene più a una burocrazia o nomenklatura che si appoggia sull’esercito, come in qualsiasi regime “forte” o autoritario, ma è passato nelle mani dell’esercito stesso. La burocrazia ha ceduto il passo alla stratocrazia (stratos = esercito). In più, i due fattori spingono la Russia inesorabilmente a una politica estera imperiale e a una politica militare offensiva, a differenza dell’Occidente che ha rinunciato all’espansione. Secondo Castoriadis, “la Russia è condannata a preparare la guerra perché non sa e non può fare nient’altro. È assurdo chiedersi perché un lottatore di sumo non faccia tennis, perché un campione di pesi non si dia al salto in alto. È altrettanto assurdo pensare – come fanno molti commentatori e pensatori occidentali – che la società russa potrebbe entrare con l’Occidente in una ‘competizione pacifica’, divenire una ‘società di consumi’ e liberalizzarsi. Il regime non lascia alla società russa nessun’altra via; nessuna causa, nessuna impresa all’infuori dell’espansione della dominazione russa, che possa mobilitare e canalizzare le energie di coloro che vorrebbero, nel quadro sociale stabilito, fare qualcosa in più del mero preoccuparsi della propria carriera”.
Il ritmo di tale espansione è lento e pesante. Si realizza in base alle occasioni che si presentano e giustificano tale o tal altro intervento puntuale, senza piani preliminari, e a questo riguardo, Castoriadis menziona il caso emblematico dell’Afghanistan.
La nuova classe dirigente “stratocratica” è composta “da persone senza fede né legge – persone che comprendono solo il linguaggio bruto della Forza, e per le quali ogni linguaggio è, in se stesso, solo velo o strumento. La Forza al servizio di cosa? La Forza al servizio di Niente: la Forza al servizio di sé medesima, la Forza che si è dotata di una seconda Forza, che la spinge alla sua espansione senza limiti. La Forza che mira ad accrescersi solo come Forza”.
Si ritrova qui uno dei concetti chiave di Castoriadis, quello dell’immaginario come motore della storia. In particolare, l’esercito russo, divenuto l’unico settore moderno ed efficiente della società sovietica, è portatore di un immaginario nazional-imperialista e dello sciovinismo della Grande Russia, che si rivitalizza man mano che il marxismo, l’ideologia ufficiale del Partito, si devitalizza al punto da girare a vuoto come una retorica senza contenuto o senso. Ma questo stesso nazionalismo è vuoto, questa idea di Grande Nazione o Grande Russia è vuota, è un simulacro di anima che serve a rivestire e nobilitare la sola idea che rimane dopo il collasso ideologico del regime comunista: l’obiettivo di una dominazione mondiale mediante la Forza bruta, nella convinzione che tutto è regolato da rapporti di Forza, che i rapporti internazionali non sono altro che rapporti di forza tra Stati.
Devant la guerre ebbe molta risonanza e suscitò un’ampia discussione in Francia nei primi anni Ottanta. Castoriadis ne espose le tesi fondamentali, lo stesso anno, anche in un simposio dedicato all’opera di Hannah Arendt, alla New York University. Ma, dal momento che nel libro si sosteneva che il regime sovietico non sarebbe stato in grado di riformarsi dall’interno, l’avvento di Gorbaciov e il crollo dell’URSS condannarono il libro alle polveri delle biblioteche, come un libro smentito dalla Storia. In verità, per uno storico che volesse oggi indagare le continuità tra la Russia sovietica e la Russia post-sovietica (come fece Tocqueville, ad esempio, con Rivoluzione e Antico Regime), e in particolare il ventennio putiniano, fino ad arrivare alla recente ripresa in grande stile della politica espansionistica e “imperiale” nell’Europa centro-orientale, si tratta di un libro imprescindibile.
Anche lungimirante si rivela quanto Castoriadis sosteneva ancora in un articolo del marzo 1991: nella disintegrazione del sistema sovietico la sola cosa che teneva il colpo era il complesso militare-industriale, vale a dire gli elementi stratocratici della società sovietica: l’esercito, il KGB, i colossi siderurgici. E Putin, non a caso, viene da uno di questi...
È vero che annunciando l’invasione dell’Ucraina, Putin ha intensificato la narrazione russo-nazionalista, con il piglio un po’ caricaturale dell’Egocrate totalitario che conosce e spiega al suo popolo, per dirlo con le parole di Hannah Arendt, “i misteri dell’intero processo storico: i segreti del passato, l’intrico del presente, le incertezze del futuro” (Le origini del totalitarismo). Tuttavia, gli orrori della guerra e la sua conduzione da parte dell’esercito russo, dimostrano quanto Putin e il blocco di potere “illiberale” che incarna (e che con le guerre cerca di legittimarsi e stabilizzarsi), siano ancora eredi di quel paradigma della Forza bruta che animava il ceto dominante stratocratico degli ultimi anni dell’Unione Sovietica, di cui ci parlò Castoriadis, e in cui il Presidente attuale della Federazione Russa ha costruito la sua “carriera” e la sua mentalità.
Ecco perché rimane valido l’invito a un sussulto di fronte al pericolo, con cui si concludeva il libro: “Bisogna vedere cosa c’è, adesso, in statu nascendi. La nottola di Minerva deve prendere il suo volo prima che giunga la notte – che rischierebbe di essere lunga”.