Critica del tecnocapitalismo
La tecnologia è molto più di un mezzo. Non la utilizziamo semplicemente come il martello col quale si pianta un chiodo. La tecnologia fa sistema, impone qualcosa come una “logica”, un logos, che in greco significa “discorso” e “ragione”. Il mezzo-martello è un’estensione del nostro braccio: per il fatto di possederlo non siamo costretti a piantare dei chiodi. Non ci priva della decisione di compiere un’azione o l’altra. La tecnologia, invece, non si accontenta di estendere e potenziare le capacità umane. Anche se non ha una volontà propria, esercita una certa forma di potere nella misura in cui rivoluziona e riorganizza i nostri modi di vivere in modo strutturale. Invade la nostra vita quotidiana. Il suo “uso e consumo” retroagisce sui nostri comportamenti, sui nostri modi di pensare, di vedere il mondo. Da conquistatori della tecnica o possessori di tecniche, la tecnologia ci può trasformare in suoi “schiavi”. Il fenomeno di accelerazione che ci sommerge, oggi, nel campo della transizione digitale, con la convergenza di varie tecnologie (Internet, NBIC, scienza dei dati, intelligenza artificiale, robotica…), non solo sta moltiplicando i rischi prima accennati, ma, veicolato dal tecnocapitalismo (l’integrazione sistemica e reciprocamente funzionale di tecnica e capitale), sta già trasformando la società in una fabbrica integrale, dove i processi sociali e lavorativi sono algoritmizzati, ingegnerizzati, automatizzati. Si crede (e si “propaganda”) di razionalizzare la società a favore dell’uomo, e invece si razionalizza l’uomo per adattarlo alla razionalizzazione della società e per ammaestrarlo a “operaio” diligente al servizio degli ingranaggi dell’apparato produttivo e amministrativo digitalizzato. È questo il grido di allarme che lancia il sociologo Lelio Demichelis nel suo ultimo libro, La società fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering, edito, pochi mesi fa, dalla Luiss University Press di Roma.
Queste premesse, tra l’altro, portano l’autore a formulare una tesi solo apparentemente paradossale. Dopo che da quasi mezzo secolo la sociologia ha annunciato, almeno per il mondo euro-occidentale, l’avvento della società postindustriale, dobbiamo prendere atto, secondo Demichelis, che mai come adesso “la società non è mai stata così industrializzata e trasformata in fabbrica come oggi, la fabbrica è appunto in ogni tempo e in ogni luogo, anche virtuale: tutto è fabbrica e industria, tutti siamo operai/forza-lavoro”. Un totalitarismo soft e opacizzato innerva questa società, nella quale, a dispetto di ciò che si potrebbe dedurre, non si accresce il ruolo del general intellect, cioè dell’intelligenza scientifica complessiva di cui la società dispone, del quale parla Marx nei Grundrisse, perché questo sapere sociale generale è in verità anch’esso prodotto industrialmente e poi distribuito dalle macchine (sempre più “intelligenti”, o almeno ritenute tali perché ad esse si possano delegare sempre di più decisioni e processi di produzione della conoscenza), in un circolo vizioso che, quindi, non spezza le catene invisibili di un’alienazione totale. D’altra parte, è lo scenario auspicato senza veli d’ipocrisia da un guru e imprenditore dell’hi-tech, come Bill Joy, che una volta ha dichiarato: “Il futuro non ha più bisogno di noi”.
Società-fabbrica e tecnocapitalismo sono, allora, il trionfo finale della razionalità strumentale/calcolante-industriale-positivista, l’acme dell’“(auto)distruzione dell’Illuminismo”, che si può scongiurare solo col recupero delle autentiche istanze emancipanti del progetto illuminista (“l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso”, di kantiana memoria, per intenderci): sta, qui, l’assunto fondamentale, argomentato in dettaglio in tutto il libro, dove risuona esplicitamente il riferimento alla teoria sociale della Scuola di Francoforte. In effetti, Demichelis invoca, per leggere la società del nostro tempo, un ritorno a Horkheimer e alla Teoria Critica (dopo il “ritorno a Freud” e il “ritorno a Nietzsche” che hanno scandito il secolo scorso), convinto che prassi politica e volontà etica di trasformazione della società attuale vadano assunti come componente essenziale dell’atto teorico stesso.
Max Horkheimer, l’autore di L’eclisse della ragione e (con Theodor W. Adorno) di Dialettica dell’illuminismo, scritti un paio di anni dopo la seconda guerra mondiale, ha descritto il capovolgimento delle finalità emancipatrici della ragione nel momento in cui ha perso ogni oggettività divenendo lo strumento di un soggetto definito esclusivamente dall’autoconservazione, che era uno dei valori faro del capitalismo liberale. Non essendo più un principio che permette di pensare oggettivamente il mondo e di stabilire una gerarchia tra i fini, ma solo un modo di valutare l’adeguatezza dei mezzi a qualsivoglia fine, la ragione non può più difendere l’interdizione del crimine né giustificare la superiorità della giustizia sull’ingiustizia. Così la calcolabilità, l’unificazione del reale, la quantificazione e la reificazione sono i principi cardini del razionalismo strumentale che si è sviluppato nel contesto di una modernizzazione che ha trasformato il capitalismo nascente dei primi secoli dell’età moderna, ancora attaccato ai valori di autonomia e di giustizia, in un capitalismo “totalitario”, che fa degli individui privati di autonomia i complici di un sistema fondato sul dominio (della natura, della società e della vita psichica). Questa tendenza non può che essere amplificata, secondo Demichelis, dall’ultima metamorfosi del tardocapitalismo, che i francofortesi avevano di fronte, nell’attuale tecnocapitalismo, dove gli individui che prima erano dissolti nella cultura di massa ora si dissolvono nell’algoritmizzazione e nella dataficazione delle loro vite e la vecchia promessa di libertà e di eguaglianza nella dignità è sostituita dalla “chimera” del postumano, cioè del superamento dei limiti biofisici dell’uomo.
Con accenti non solo francofortesi, ma anche heideggeriani e jonasiani, Demichelis, ravvisando una scarsa radicalità nelle proposte ecosocialiste di Nancy Fraser o Wolfang Streek, ci avverte che la priorità è uscire dalla razionalità strumentale/calcolante-industriale, che permea anche il paradigma digitale, e riportare l’illuminismo al compito etico, per dirla con le parole dell’ultimo Horkheimer, di “preservare, finché è possibile, l’indipendenza e il soddisfacimento interiore del singolo essere umano, e insieme la possibilità di una sua solidarietà con gli altri uomini”. Ma anche con le forme non-umane di vita, aggiunge Demichelis, tra l’altro richiamandosi laicamente alla Laudato si’ di Papa Francesco, perché proprio l’emergenza ecologica richiede a fortiori una ragione non ridotta a strumento di dominio della natura e degli altri.
Il libro esordisce con una poesia di David Maria Turoldo che sembra una profezia distopica dei nostri tempi:
Tempo verrà che non avrete un metro
di spazio per ciascuno:
lo spazio di un metro
che sia per voi…
Non avrà spazio
neppure il pensiero
e tutto sarà nel Panottico:
pupilla di un
Polifemo
fissa al centro del cielo:
non ci sarà un angolo
per il più segreto
dei pensieri.
Com’è noto, in un modo anche controverso, Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo fanno risalire al mito di Ulisse l’origine della ragione tecnica e strumentale. Ora, ci verrebbe da chiedere chi possa essere l’Ulisse che accecherà il “Polifemo” tecnocapitalista. Certo, come ci dice Demichelis, sarà l’azione rigeneratrice di un illuminismo che riconosce le sue aporie e le sue contraddizioni e riconfigura i suoi pilastri, estendendo, ad esempio, il pilastro della libertà e dell’autonomia alla logica dell’interdipendenza e della convivenza multiculturale o quello dei “diritti umani” ai diritti dei non-umani e degli ecosistemi, condizione della vivibilità del pianeta. E così via. Ma, si tratta di farlo presto, con la consapevolezza che l’indebolimento dell’Illuminismo favorisce il brodo di coltura dell’anti-illuminismo, dell’oscurantismo e del pregiudizio (nazionalismi, xenofobia, razzismo, omofobia, maschilismo…) e che durante l’impresa che ci attende di re-illuminare le società tecnologiche avanzate, le tenebre di tempi passati o remoti possono sempre risorgere e allearsi perversamente con la barbarie luccicante del tecnocapitalismo.