A trent’anni da “Terra-Patria” di Edgar Morin
A distanza di trent’anni, possiamo comprendere il valore profetico delle lezioni che Terra-Patria di Edgar Morin (scritto in collaborazione con Anne Brigitte Kern) ci consegnava. L’acutizzarsi della “policrisi” diagnosticata in quel libro pone i compiti delineati da quelle lezioni all’ordine del giorno nell’agenda del XXI secolo: sapere riconoscere la nuova barbarie, il nuovo oscurantismo e la condizione di fragilità del nostro mondo, occultati sotto la patina trionfalistica del “progressismo” tecnologico; apprendere ad abitare la complessità per abitare la Terra in modo non distruttivo e non autodistruttivo e per riprendere il cammino dell’umanizzazione; sviluppare la coscienza della nostra comunità di destino planetaria, e quindi estendere la cura di sé alla cura degli altri, e la cura delle collettività nazionali alla cura dell’umanità planetaria.
La doppia barbarie del mondo contemporaneo
Un divario emblematico può aiutarci a mettere a fuoco la condizione paradossale, ma anche il crocevia ormai ineludibile, del nostro tempo. Ovvero, il divario tra la dimensione globale e complessa dei problemi, da un lato, e, dall’altro, la dimensione ancora frammentaria che caratterizza sia gli approcci istituzionali sia gli approcci cognitivi utilizzati per affrontarli.
Gli Stati stanno monitorando gli effetti delle proprie emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, promettono di raggiungere obiettivi di riduzione delle emissioni e ne calcolano l’impatto. Ma puntualmente arrivano divisi e litigiosi alle Conferenze tra le Parti (COP) sul cambiamento climatico, come se il clima non fosse un sistema complesso e planetario, e potesse essere governato dentro i “confini” territoriali delle sovranità statuali...
Poi arriva un virus, sconosciuto fino ad oggi, a ricordarci clamorosamente la porosità e l’opacità di questi confini nei processi di inter-retroazione della globalizzazione. In pochi mesi, le misure governative di contrasto all’epidemia hanno sortito vistosi effetti di rallentamento. Così, abbiamo avuto la prova che la politica può controllare l’economia. Mentre era sembrato che il “finanzcapitalismo” avesse asservito irreversibilmente la politica, costringendo questa, a sua volta, ad asservire la civiltà alla finanza, come ebbe a scrivere lucidamente il sociologo italiano Luciano Gallino, estimatore di Edgar Morin.
Tuttavia, persiste la sostanziale incapacità di costruire “interessi” cosmopolitici, sovranazionali. Persiste l’incapacità di costruire strumenti di governo adeguati alla loro gestione. E le tecnoburocrazie, a livello locale e nazionale, fanno, quasi inerzialmente, piani dettagliati sulle politiche ambientali, che si presume possano avere effetti globali.
L’unificazione tecnoeconomica del mondo non ha portato alla fine della Storia, al trionfo ultimo della modernità. Ha portato alla sua crisi, alla sua policrisi. L’agonia planetaria ha svelato di colpo le sue faglie sistemiche: il 2008 è stata la crisi dell’economia, il 2020 è la crisi della tecnoscienza, il 2022 è la crisi del diritto internazionale e della pace “onusiana”. I motori (scienza, tecnica, economia, profitto) della mondializzazione hanno cominciato a incepparsi. Vanno riparati, riparando le crisi che essi hanno generato. Ma la policrisi continua ad avvitarsi nella doppia impasse denunciata da Morin in quel libro: l’impotenza del mondo a diventare mondo, l’impotenza dell’umanità a diventare umanità.
È innanzitutto la crisi del paradigma di semplificazione che ha prodotto la crisi attuale della modernità. Così, oggi e per il futuro, vale più che mai la priorità definita da Edgar Morin trent’anni fa: di fronte alla policrisi del mondo contemporaneo, la priorità è cambiare, e superare la ýbris semplificatrice moderna con un nuovo paradigma: il paradigma della complessità.
Oggi, antiche barbarie e nuove barbarie si alimentano a vicenda. La barbarie gelida delle tecnoburocrazie e l’arroccamento degli esperti e degli scienziati nelle loro torri d’avorio favoriscono, di fronte alla crisi, i sentimenti di frustrazione, di angoscia e di risentimento, che i demagoghi e i leader populisti manipolano e indirizzano contro le élites e contro la scienza stessa, rigenerando così le antiche barbarie. La semplificazione dei complottismi e delle fake news è arrivata così a fare da pendant alla semplificazione tecnocratica e alla semplificazione degli specialismi. Certo, il Covid ha dimostrato, nel modo più tragico e immediato, come l’imprevedibile possa sempre fare irruzione nella vita e nel mondo complessi. Tuttavia, è puntualmente riapparso nella sua prepotenza il bisogno viscerale, sentito dalle “masse”, di coerenza, di prevedibilità, di comprensione certa e semplice, già prorompente agli inizi del secolo scorso, e allora analizzato da Georg Simmel e in seguito da Hannah Arendt.
La semplificazione proviene dalla lotta, scriveva Michel Serres. Ma genera anche, perpetuamente, nuove lotte, nuove polarizzazioni, se non è arginata dall’intelligenza della complessità e dalla sensibilità per la complessità. E perpetua l’alleanza di barbarie nuove e vecchie, come Edgar Morin aveva già delineato in Terra-Patria.
Più è frutto della semplificazione, più il male della civiltà si amplifica. Ma, oggi, anche per gli effetti “sismici” della pandemia e della guerra, si rende più decifrabile la “scatola nera” di questo male. Questa viene da lontano, e contro essa si era levato il grido di rivolta dei giovani del ’68, come aveva intuito Morin già nel corso di quegli eventi. La pandemia rivela, dunque, una crisi più profonda, una crisi cognitiva, che concerne i principi di intelligibilità e i miti della nostra civiltà: lo sviluppo, il benessere, il progresso tecnoscientifico infinito, la scienza stessa, guidata dalla tacita aspirazione all’onniscienza.
La Global Polity, il “regime politico” in cui agiscono congiuntamente, su più livelli, governi, amministrazioni nazionali, istituzioni intergovernative, network e organismi ibridi pubblico-privati, imprese multinazionali, organizzazioni non governative, è ancora minata da una concezione della politica internazionale come un gioco a somma nulla: vinco io, perdi tu. È la politica che ha più bisogno di complessità. Tuttavia, essa produce idee sempre più semplificanti per società sempre più complesse. Produce visioni sempre più unidimensionali per società sempre più multidimensionali e per un mondo sempre più interconnesso.
Le nostre speranze si legano, oggi, a ciò che scaturirà dallo sviluppo della crisi dello sviluppo, dalla scienza della crisi della scienza, dal progresso della crisi del progresso. Si legano alla possibilità che si diffonda il paradigma della complessità e che si inverta il circolo vizioso tra lo sviluppo economico-quantitativo, da una parte, e, dall’altra, il sottosviluppo morale, umano, cognitivo. E, per l’immediato, si legano alla possibilità di renderci consapevoli del bivio che ha di fronte a sé il cammino dell’umanizzazione, oggi al quinto secolo dell’“età del ferro planetaria”: complessità o barbarie, Terra-Patria o secessione dall’Umanità.
Abitare la complessità: il cosmo, la terra, la vita, l’umano
Mai come adesso, pertanto, l’esito ultimo dell’era planetaria coincide con un bivio cruciale dell’avventura di Homo sapiens sulla Terra. Mai come adesso, la necessità di continuare ad abitare la Terra conduce all’esigenza di pensare la complessità, e l’esigenza di pensare la complessità si rivela vitale per continuare ad abitare la Terra.
In due ben note conferenze del 1950 (La cosa) e del 1951 (Costruire abitare pensare), Martin Heidegger invitava a recuperare il senso originario dell’abitare la Terra da parte degli uomini, che precede l’attività stessa del costruire edifici in funzione abitativa. Questo abitare non consiste solo nel soggiornare sulla Terra, sotto il cielo, in attesa del “divino”, ovvero del mistero, in comunità con gli altri mortali, in un gioco di specchi che Heidegger chiamava “poeticamente” Geviert (Quadratura, di cielo, terra, divini, mortali). Ma significa anche preservare le cose, presso cui gli uomini soggiornano, nella “luce” di questa quadratura e dei suoi rimandi, prima ancora che siano riconosciute e ridotte a rappresentazioni o produzioni del soggetto. La brocca, che Heidegger esamina come esempio di “cosa”, non è tale perché è un prodotto fatto di certi materiali o perché è un vuoto che può essere riempito con vino o acqua, ma perché è fatto di terra e può contenere il vino o l’acqua, che sono quel che sono in virtù dell’intervento congiunto di terra e cielo (le piogge, il sole che fa maturare l’uva...) e in quanto possono rientrare in riti evocativi del divino...
In quelle conferenze, Heidegger esprimeva l’esigenza condivisibile di sfuggire al pensiero rappresentativo e calcolante del paradigma della semplificazione, proprio della scienza “classica”. Ma, invece di percorrere solo la via alternativa del pensiero poetante e rammemorante, nell’ottica del superamento della metafisica, che ha finito per rendere la filosofia “acosmica”, facendola allontanare dalle scienze e dai suoi apporti conoscitivi del mondo (quello che hanno sempre lamentato Edgar Morin o Michel Serres), si tratta di orientarsi anche verso un nuovo pensiero, a cui alcuni filoni novecenteschi della scienza, da Edwin Powell Hubble a Ilya Prigogine, hanno dato un contributo decisivo: il pensiero della complessità. Il problema non è la riduzione dell’essere all’ente, bensì la riduzione del complesso al semplice. Per questo, più che guardare criticamente a Platone, come faceva Heidegger, bisogna guardare criticamente a Cartesio e al suo dogma del simplex sigillum veri, come fece Nietzsche.
Friedrich Nietzsche fu tra i primi a cogliere questa traiettoria fondamentale della cultura occidentale moderna, a individuare i presupposti metafisici dell’universo determinista concepito dalla fisica classica, a intercettare e annunciare i primi moti discendenti di quella traiettoria, ma anche a prevederne la resistenza, consideratone il lungo radicamento nella nostra cultura. E perciò aveva profeticamente compreso la tentazione semplificatrice degli esordi del secolo scorso: proprio lui, che spesso è stato, ingiustamente, inteso come il profeta-complice della tentazione totalitaria. Interpretò “l’ipotesi meccanica del mondo”, pienamente intelligibile in termini matematici e improntata al principio metodico cartesiano del simplex sigillum veri, come “una semplificazione ai fini della vita”. E nel Crepuscolo degli idoli tuonava: “‘Ogni verità è semplice’: non è questa una doppia menzogna?”, diventando testimone indiretto della “rivoluzione” interna alle scienze, avvenuta nel XX secolo, ma i cui prodromi erano già rinvenibili alla fine dell’Ottocento.
La ricerca di un invisibile semplice dietro al visibile complesso e l’ontologia dell’eternità che hanno disciplinato la costruzione della cosmologia moderna hanno di fatto disciplinato anche i modi con cui l’umanità ha abitato la Terra. Da frontiera nebulosa e remota, l’unità della Terra stessa è diventata un fatto quotidiano, e l’idea di poterla rappresentare, controllare e dominare è apparsa naturale.
Oggi, è alla luce dell’evoluzione recente delle scienze cosmologiche e biologiche del XX secolo e del modo in cui esse hanno rivoluzionato la nostra Weltanschauung, che, con l’aiuto di Terra-Patria di Edgar Morin, possiamo ritrascrivere il Geviert heideggeriano in un nuovo quadrante: il cosmo, la terra, la vita, l’umano. Il cosmo nuovo porta in primo luogo un’incertezza di fondo sul mondo e sull’uomo, perché non sappiamo da dove viene, dove va e perché sia sorto. Non è più il cosmo ordinato e meccanico di Laplace. È intrinsecamente “tragico”, perché è contraddistinto da ordine e disordine, creazione e distruzione, associazione e antagonismo, insieme. Contingente e incerta è stata poi la formazione del nostro pianeta e della vita su di esso. La Natura che ci appariva coincidere con l’universo si rivela la placenta fragile e il nutrimento della vita che riveste la superficie terrestre. Al massimo della sua potenza scientifica e tecnica, l’uomo scopre l’incertezza delle sue origini come specie, la sua perifericità nell’universo, la sua vulnerabilità legata al suo radicamento nella biosfera.
Come scriveva Morin nel libro, “è perché abbiamo interrogato bene il cielo che possiamo radicarci sulla Terra. È perché abbiamo interrogato bene la Terra che possiamo radicarvi la vita. È perché abbiamo interrogato la vita che possiamo radicarci in essa”.
Oggi, per la prima volta nella loro parabola evolutiva, gli abitanti umani del pianeta diventano coscienti di essere un tessuto antropo-bio-cosmico, e non solo l’animale “razionale” destinato al dominio nella natura, secondo la loro auto-rappresentazione nei secoli dell’era moderna. Inoltre, sotto la spada di Damocle delle potenzialità autodistruttive dell’arma nucleare e sotto il pericolo delle catastrofi ecologiche, noi tutti, abitanti umani della Terra, ci troviamo a condividere un inedito destino comune, e possiamo e dobbiamo così riconoscere la Terra come la “casa comune”, il suolo di una nuova patria, la Terra-Patria, appunto.
Mai come adesso, nella comunità di destino terrestre a cui siamo pervenuti, può “risuonare” il senso originario dell’abitare dei mortali umani tra cielo, terra e mistero “divino” dell’universo, che Heidegger tentava di evocare nelle sue conferenze. Ma, questo abitare corrisponde ormai all’abitare la complessità di quell’intreccio che è anche il prodotto dell’azione umana e della sua civilizzazione su scala planetaria. Abitare la complessità dischiude una nuova ontologia umana e un nuovo orizzonte etico.
Con Terra-Patria, Edgar Morin ci invitava a trarre non un sentimento di rassegnazione inoperosa, ma un sentimento di comunione e di appartenenza terrestre proprio dalla scoperta di essere abitanti di un frammento piccolissimo sperduto nel cosmo, e partecipi della sua avventura ignota, come invitava a fare anche Giacomo Leopardi nella Ginestra, agli inizi dell’Ottocento. A distanza di poco più di un paio di decenni dal libro di Morin, Papa Francesco, nell’enciclica Laudato si’, attraverso una rilettura originale della Bibbia, ci raccomandava di coltivare e custodire il giardino del mondo, di considerarci, umani e non-umani, membri di una famiglia universale, uniti da legami invisibili. La salvaguardia degli equilibri ecologici della Terra non è, dunque, il kathékon che allontana l’apocalisse, ma il nuovo orizzonte di salvezza per credenti e non credenti.
Commentando l’enciclica del Papa, il filosofo italiano Mauro Ceruti ha scritto che il Vangelo della perdizione di Terra-Patria e il Vangelo della creazione della Laudato si’ sono due espressioni complementari e antagoniste del Vangelo della fraternità, che sta all’etica come la complessità sta al pensiero. Ora, se la coscienza di dover apprendere ad abitare la complessità significa poter fare le regole del gioco e, con esse, giocare un gioco la cui matrice e direzione, tuttavia, continueranno a sfuggirci, vi può essere forse una “regola” più avvincente e vitale della fraternità?