Castoriadis: contro l’economia
“In mezzo al caos, alla crisi globale incombente, al dolore e alla sofferenza, c’è almeno una cosa che tutti hanno colto: c’è qualcosa di sbagliato nell’economia”. Quello che, secondo queste parole di Bruno Latour, recentemente scomparso, è divenuto in parte senso comune, a margine della tragedia planetaria della pandemia, è che la crescita non può essere considerata più un fine in sé e che le politiche economiche non possono prescindere dalla discussione pubblica allargata sugli obiettivi sociali che esse devono porsi, per evitare conseguenze pericolose su ambiente, salute, condizioni di vita. Questa prospettiva critica sullo sviluppo e sulle tendenze del capitalismo maturo si ritrova sorprendentemente anticipata nell’introduzione del Rapporto OCSE del 1970, ben due anni prima del noto Rapporto sui limiti dello sviluppo commissionato dal Club di Roma.
In esso, infatti, si legge: “Quando una società ha un livello di vita che le permette soltanto di sussistere materialmente, o quando la stragrande maggioranza dei suoi membri rischia ancora di ricadere nella miseria, come ancora alla vigilia della Seconda guerra mondiale, non esistono dubbi sulle finalità dell’attività economica. Tenendo in conto la scala di valori e di preferenze della collettività, l’apparato di produzione deve soddisfare, con mezzi limitati che evolvono lentamente, un insieme di bisogni facili da individuare e da definire, in pratica pressoché immutabili. Ma questo non è più il caso nelle società giunte allo stadio dell’abbondanza, che conoscono un’evoluzione tecnica e culturale rapida…
Via via che aumenta la capacità produttiva e che i bisogni sono meno vincolanti, il margine di scelta si allarga, accentuando i dilemmi decisionali. Non possiamo lasciare interamente la soluzione di questi problemi al funzionamento automatico dei meccanismi di mercato, perché molti riguardano decisioni collettive relative all’istruzione, alla salute o all’arredo urbano, tutti bene che non possono essere valutati correttamente dal mercato. Inoltre trattandosi di decisioni altamente complesse con effetti sul lungo termine, meccanismi di mercato mal si prestano a fornire soluzioni razionali”. E, nelle conclusioni del Rapporto, si aggiunge: “I problemi che si pongono sono diversi da Paese a Paese. Ma c’è un problema che riguarda tutti, ed è come fare in modo che i frutti della crescita servano effettivamente a soddisfare i bisogni sociali e a rimediare alle esternalità negative della crescita stessa”.
Questi accenti critici e preoccupati stupiscono meno, se si considera che l’elaborazione di questo Rapporto fu affidato a un gruppo di lavoro coordinato da un ricercatore sui generis, da poco tempo assurto al ruolo dirigenziale: Cornelius Castoriadis. Fino a quell’anno, in cui tra l’altro si licenzia per avviare una carriera da psicanalista, il funzionario dell’Ocse, approdato in Francia, nel 1945, in fuga dalla guerra civile in Grecia, era noto, sotto vari pseudonimi, come il fondatore e attivo collaboratore, insieme a Claude Lefort e Jean-François Lyotard, della rivista militante Socialisme ou Barbarie.
Durante quella stagione intellettuale e politica, Castoriadis, partendo da un marxismo critico nei confronti dello stalinismo e, in parte, dello stesso trostkysmo a cui aveva aderito, era andato maturando via via un punto di vista critico sullo stesso marxismo e sull’economicismo capitalista. E, difatti, nella filigrana di quella sua ultima fatica da direttore di ricerche socio-economiche dell’importante organismo internazionale, si nota l’impronta della sua parabola filosofico-politica, che lo porta, potremmo dire, da Marx a Pericle (ovvero alla valorizzazione della democrazia e delle sue radici nell’“immaginario” sociale-storico della Grecia classica), attraverso Freud.
Questo straordinario documento è uno dei testi inediti e preziosi, raccolti in una nuova e avvincente antologia del filosofo, sociologo, economista e psicanalista greco-francese (in una parola, un “titano del pensiero”, come dirà nella commossa orazione funebre che gli dedicherà l’amico Edgar Morin), a cura di Raffaele Alberto Ventura, e pubblicati quest’anno in coincidenza del suo centenario della nascita (C. Castoriadis, Contro l’economia. Scritti 1949-1997, Luiss University Press, Roma 2022). Sia il taglio tematico adottato per l’antologia, sia l’ampia introduzione dello stesso curatore a corredo del volume hanno il pregio di ricostruire l’evoluzione complessiva del pensiero di Castoriadis, da un lato, mettendo in luce originalmente, rispetto ai critici precedenti, la matrice weberiana delle sue dislocazioni teoriche e le interferenze occulte del lavoro ufficiale dell’economista sul teorico e militante di sinistra, e, dall’altro lato, estrapolando da questo pensiero i nuclei più suggestivi e incisivi per comprendere anche le inquietudini del nostro presente.
Il testo che abbiamo citato e messo in risonanza con le riflessioni di Latour mostra non solo la vitalità precoce di un pensiero da riscoprire, ma dà la misura degli influssi significativi e l’appeal invisibile che Socialisme ou Barbarie e, in particolare, proprio Castoriadis, hanno esercitato su movimenti, correnti e pensatori, in Francia e fuori dalla Francia: dai leaders del movimento studentesco del Maggio 68 (appoggiato da Castoriadis) ai nouveaux philosophes (seppure stigmatizzati, invece, da Castoriadis), da Serge Latouche a Zygmunt Bauman, ai rappresentanti delle nuove generazioni della Scuola di Francoforte, come Axel Honneth.
La critica dell’economicismo, dello sviluppismo e della pseudo-razionalità del capitalismo, racchiusa nel titolo-epitome della raccolta, è solo uno degli aspetti dell’analisi critica castoriadisiana delle società contemporanee occidentali. La premessa di questa analisi è che la storia dell’Occidente moderno è animato dalla coesistenza conflittuale, quasi un’antinomia, tra due tendenze sociali-storiche, tra due progetti e significati immaginari: il “progetto dell’autonomia sociale e individuale” e il progetto di espansione illimitata del dominio razionale”. Il primo ha generato la nascita dei comuni medievali, l’illuminismo, la rivoluzione francese, il movimento operaio e socialista, l’esperienza consiliare in Russia prima della dittatura bolscevica, i processi di democratizzazione.
Il secondo ha generato il capitalismo, l’imperialismo, i totalitarismi, la tecnoscienza con la sua illusione di onnipotenza. Premesso che, per Castoriadis, il primo progetto è lungi dall’essersi realizzato (tant’è che le democrazie contemporanee appaiono ai suoi occhi più come “oligarchie liberali”), la sua diagnosi (già tratteggiata dagli inizi degli anni ottanta del secolo scorso, come testimoniano gli scritti dell’antologia, poi ripresa e riscontrata nella temperie culturale e nelle tendenze economiche e politiche dopo il crollo del “socialismo reale” nell’Est Europa) è implacabile: il progetto dell’autonomia sociale e individuale sembra costantemente regredire, mentre l’espansione del (pseudo)dominio (pseudo)razionale diventa il fattore dominante.
Dicevamo che queste due tendenze antagoniste, che corrispondono alla sistole e diastole della storia occidentale, sono definite da Castoriadis significazioni immaginarie nucleari. Il nocciolo del pensiero filosofico di Castoriadis, infatti, è la nozione di immaginario istituente. Ciò che caratterizza ogni società, è in effetti l’esistenza di un immaginario, che non è l’immaginario di questo o quel soggetto, ma l’espressione di un collettivo anonimo. Questo immaginario è creatore: produce significati (i significati immaginari sociali) grazie ai quali la società può rispondere ai problemi fondamentali che si pone come società. Ogni società istituisce dunque i significati (Dio, l’eguaglianza, il diritto…) che le consentono di definire la sua identità, la sua relazione con il mondo e con le altre società: tali significati sono detti immaginari perché non sono né razionali né funzionali, non sono la risposta a nessun bisogno giacché i bisogni sono essi stessi socialmente istituiti.
Negli scritti proposti e tradotti da Ventura, la crisi dell’Occidente che Castoriadis denuncia e ama chiamare “decomposizione dell’Occidente” è sì provocata da fattori esterni come la “crisi climatica” e la “crisi energetica” e da minacce esterne, in primis quella dell’imperialismo della “stratotacrazia” sovietica. E, a distanza di circa quarant’anni, non possiamo certo dargli torto, anche sulla stratocrazia russa, di cui l’approdo autocratico e neonazionalista impresso da Putin alla transizione costituzionale-parlamentare postsovietica appare solo una mutazione genetica. Ma è soprattutto una decomposizione di natura endogena, una decomposizione dell’immaginario sociale occidentale.
Per Castoriadis la si rileva nell’evanescenza del conflitto sociale e politico, nella difficoltà a distinguere tra programmi di destra e di sinistra, nell’ingessatura burocratica e corporativa di sindacati e partiti, nella scomparsa di significati e valori, nella crisi di autorappresentazione della società. Parte e complice di questa decomposizione, per Castoriadis, sono anche le filosofie della postmodernità, considerate come la giustificazione ideologica del conformismo generalizzato, o la retorica decostruzionista sulle “colpe” dell’Occidente, tendente a confondere surrettiziamente la critica della razionalità strumentale e dell’etnocentrismo europeo con la denigrazione delle idee di verità, di autonomia, di responsabilità.
Certo, oggi, al conformismo e all’apatia politica, che pure continua a manifestarsi nel fenomeno dell’astensionismo elettorale e della liquefazione dei vecchi partiti di massa, è subentrato forse un populismo generalizzato. Alla piattezza e all’indistinzione politica si è sostituita la gara demagogica a fomentare e amministrare il rancore e il risentimento endemici. Si tratta, comunque, di due volti della medesima crisi: la crisi dell’Occidente, la crisi della società autonoma, la sola nella quale possono veramente apparire gli “individui” e che, per questo, merita di essere difesa dalle minacce esterne e interne. Leggere Castoriadis significa allora rimettere a fuoco la posta in gioco nella crisi culturale e cognitiva che stiamo attraversando, e che soggiace alle “catastrofi”, più evidenti, che stiamo vivendo in questo inizio di secolo.
Come conclude acutamente Ventura nella sua introduzione al volume, con una tonalità castoriadisiana: “Ora la Storia è tornata e come un cameriere zelante ci porge la catastrofe su un vassoio: ecco la barbarie che avete ordinato. Riaprendosi la prospettiva della catastrofe risorge anche la speranza di una rivoluzione. Ma siamo in grado di immaginarla?”. Sì, risponderebbe Castoriadis, se teniamo presente che per aumentare le chances della libertà e dell’immaginazione, non ciò che è, ma ciò che potrebbe e dovrebbe essere, ha bisogno di noi.