Alain Touraine: l’ultimo intellettuale universalista
Ad appiccare l’incendio del Maggio 68, alla Sorbona di Parigi, sono stati, in verità, gli studenti della facoltà di sociologia dell’Università di Nanterre. Costoro, con alla testa Daniel Cohn-Bendit, hanno avviato la contestazione e l’occupazione di alcuni spazi dell’ateneo, già alcuni mesi prima. Si tratta di gruppi militanti di estrema sinistra, di anarchici e libertari, che si mobilitano contro la guerra americana in Vietnam. Non solo. Il loro intento è altresì quello di manifestare il rigetto per il destino professionale che li attende, nella società capitalistica tecno-burocratizzata che intende avvalersi dei metodi quantitativi di indagine della sociologia: impiegati nella gestione del personale o consulenti nella selezione e nell’inquadramento di capireparto e operai nelle imprese. Proprio perché professa una sociologia diversa da quella struttural-funzionalista, di ascendenza statunitense, il professore più carismatico e influente su quegli studenti, a Nanterre, si chiama: Alain Touraine. Per qualche collega e testimone di quel momento fatidico della storia francese, Touraine sarà addirittura la testa accademica del movimento studentesco, anche per il suo senso innato della folla e il suo talento oratorio innegabile. Touraine, il “sociologo dell’azione”, che si contrappone ai “sociologi dei sistemi sociali”, stabilisce, in quell’occasione, un parallelismo tra il ruolo dei movimenti studenteschi degli anni sessanta e quello dei movimenti operai del XIX secolo, valorizzando l’istituzione universitaria come luogo decisivo del cambiamento. La rottura operata dal ‘68 rappresenta anche un punto di svolta per la riflessione e la ricerca di Touraine.
Fino ad allora, il sociologo francese ha compiuto indagini sul mondo del lavoro, sulla classe operaia, sui lavoratori della Renault, e ha dedicato il suo primo capolavoro teorico del 1965, intitolato Sociologie de l’action, all’analisi della società industriale. Qui, la presa di distanza, a un tempo, dallo strutturalismo imperante di quegli anni in Francia e dalla sociologia funzionalista di matrice parsonsiana è già netta. Il libro analizza la società industriale a partire dalle nozioni di “soggetto storico” e di “attore sociale”. La sociologia di Touraine integra gli attori all’interno del campo di studio, privilegia le dinamiche sociali, al contrario della staticità, della sincronicità e dei fenomeni di riproduzione valorizzati dallo strutturalismo. Mentre l’approccio strutturale tende a negare la pertinenza alla storia e si rende incapace di rendere conto dei processi di trasformazione, Touraine al contrario mette la storicità al centro del suo modo di analisi, considerandola come un concetto capace di percepire l’azione della società su se stessa a partire dalla sua realtà conflittuale. C’è per Touraine un’opposizione tra dominanti e dominati e la posta in gioco è la direzione sociale della storicità, la possibilità di operare il cambiamento, di controllare le condizioni di produzione dell’azione sociale. A differenza di Parsons, Touraine non concepisce l’azione come situata nella società, ossia come conformità a norme, strutture e valori, ma come di fronte a essa, come ciò che la trasforma e la produce. E il soggetto storico, agente, della società industriale è identificato da Touraine nella classe lavoratrice e nella volontà dei lavoratori di controllare le loro condizioni di lavoro e di trasformare la produzione in progresso.
Ma, dopo gli eventi del ’68, l’attenzione di Touraine si sposta dal lavoro ai movimenti sociali, in conseguenza di un annuncio fondamentale che fa in due libri (Le Mouvement de Mai ou le communisme utopique, 1968, e La Société post-industrielle, 1969): siamo usciti dalla società industriale e siamo entrati nella società post-industriale. Touraine la chiama anche “società programmata”, perché è una società che si pensa capace di programmare il cambiamento, ma anche più autoriflessiva, più capace di percepire le dinamiche della dominazione e di incentivare e rinforzare le forme di resistenza e di lotta dei nuovi attori-movimenti. Tra l’altro, su un terreno di lotta completamente nuovo. Scrive Touraine: “Non è più la lotta del capitale e del lavoro in fabbrica a essere al centro, ma bensì quella contro gli apparati da parte degli utilizzatori, dei consumatori o degli abitanti, definiti non tanto dalle loro caratteristiche specifiche, quanto dalla loro resistenza alla dominazione di tali apparati” (La voix et le regard, Seuil, Paris 1978, p. 169). La resistenza essenziale alla dominazione tecnocratica si esercita sul piano culturale: è a questo livello che la sociologia può dare un contributo di autoriflessione per la resistenza contro le diverse forme della privazione e della passività che ne risulta, contro l’alienazione e il controllo dell’informazione, e partecipare così alla rinascita dell’attore sociale. L’antagonismo non si riduce, nel quadro della società postindustriale, alla sola posizione degli attori sociali all’interno dei rapporti di produzione. Proprio per questo, è nella fase della società post-industriale, secondo Touraine, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, che i movimenti mostrano tutta la loro potenzialità di trasformazione, rendendo maggiormente visibile la capacità di riflessione e produzione di sé della società.
L’azione di un movimento diventa efficace se sviluppa e integra tre dimensioni, che il sociologo francese sintetizza nell’acronimo IOT: principio di identità (avere una rappresentazione di sé); principio di opposizione (sapere contro chi ci si batte) e principio di totalità (sapere su quale terreno ci si batte, posta in gioco, orientamenti culturali). Touraine e i suoi collaboratori che fanno ricerche sui movimenti e sui loro militanti non mirano più all’avalutatività del sociologo di weberiana memoria, ma si pongono esplicitamente come mediatori nell’auto-analisi di questi movimenti e nella loro capacità di agire nella lotta per la direzione sociale della storicità e per il controllo degli orientamenti culturali. I nuovi movimenti sociali (per la pace, per i diritti umani, per le donne, per l’ambiente…) sono diversi da quelli che animavano la società industriale, perché non hanno l’obiettivo di superare le contraddizioni economiche del sistema sociale, ma desiderano accrescere la capacità di azione e di libertà dei singoli. Per Touraine, “vogliono cambiare la vita più che trasformare la società, in questo senso possono essere definiti movimenti culturali, in quanto sono azioni collettive tese a trasformare una figura del soggetto” (Possiamo vivere insieme, Il Saggiatore, Milano 1998, p. 166).
Verso la metà degli anni Ottanta, a fronte dell’esaurirsi della spinta propulsiva dei movimenti sociali, Touraine comincia a dare più spazio all’idea di soggetto inteso al singolare e all’idea che è grazie all’esistenza della soggettività che la società può agire su se stessa. Il soggetto è quell’energia di autocreazione e trasformazione, quella parentesi che si apre tra le identificazioni, i ruoli, gli interessi, attraverso la riflessività e la distanza critica, e che si mantiene così come apertura al possibile. Una speranza, per Touraine, nel contesto di una società frammentata dalla disgregazione degli attori “sociali” tradizionali (partiti, sindacati…) e dominata dall’omologazione dei consumi, dai mezzi di comunicazione, dalle chiusure identitarie, dall’economia di guerra.
A partire da un libro fondamentale degli anni Novanta, Critica della modernità (Il Saggiatore, Milano 1993), fino ad arrivare a In difesa della modernità (Raffaello Cortina, Milano 2019), Touraine vuole rafforzare la sua proposta, mostrando come la nozione di soggetto si trasforma insieme alla modernità. Per Touraine, la modernità si può definire come la volontà e la capacità di alcune società di creare se stesse, di trasformarsi e anche di distruggersi, di volta in volta volgendo al meglio o al peggio. Ma è con le società ipermoderne che abbiamo società che prendono coscienza delle loro illimitate capacità di autodistruzione, dopo gli orrori del Novecento, oltre che della loro capacità di creazione e di trasformazione e si congedano definitivamente da un principio di legittimazione non umano o metastorico, su cui, invece, per esempio, si fondava ancora la società industriale con l’ideologia del progresso. Ed è sempre in queste società che la soggettivazione tocca il punto più alto, perché coincide con il diritto di essere riconosciuti come creatori di sé e del mondo, anzitutto da se stessi e in senso lato dagli altri. Pure in questo caso, il sociologo deve offrire il suo contributo, anche indirettamente, alla ricostruzione di azioni collettive e personali al servizio dei diritti umani e in difesa della dignità umana.
Allergico tanto alle nostalgie romantiche anti-industrialiste o anti-progressiste quanto al nichilismo postmoderno, e anzi sempre vigile sulle pericolose ambiguità politiche di tali posizioni, Touraine è rimasto ancorato all’eredità dell’Illuminismo. È forse stato l’ultimo grande intellettuale universalista, o, per riprendere una nota formula del collega Zygmunt Bauman, l’ultimo “intellettuale legislatore”. Lavoro, movimenti sociali, Soggetto: attraverso questi tre temi, che hanno scandito tre tappe del suo pensiero sociologico, il suo progetto principale è sempre stato quello di sostituire una sociologia dell’attore a una sociologia del sistema sociale, come dichiarò in un’intervista con il sociologo iraniano Farhad Khosrokhavar. E la sociologia degli attori che ha difeso per tutta la vita contro le sociologie dei sistemi non ha mai inteso contrapporre l’individuo solitario a una società burocratizzata, robotizzata o totalitaria, bensì la libertà, l’uguaglianza e la dignità di soggetti personali e collettivi ai gruppi di interesse, al profitto e alla potenza.