Pandemocrazia

10 Dicembre 2023

Uno degli indicatori più preoccupanti e incontrovertibili dell’attuale crisi delle democrazie, anche nel nostro Paese, è sicuramente il fenomeno dell’astensionismo elettorale e del declino della partecipazione. La cosa meno evidente è la ragione di questo fenomeno. Attribuirlo, come si era soliti fare fino a qualche tempo fa, semplicemente ad apatia, ripiegamento nel privato, riduzione del senso civico, potrebbe non cogliere nel segno. Forse, bisognerebbe chiedersi se la disaffezione degli elettori non nasconda una motivazione “razionale”: la constatazione della perdita di significato e di incidenza della politica in rapporto al corso della storia e alla crescente complessità dei problemi. 

Soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, sull’onda della globalizzazione tecno-economica, la politica sembrava dichiarare la resa sostituendo la semantica del progresso, che ancora aveva veicolato i processi di modernizzazione nella seconda metà del Novecento, con la retorica della necessità e dell’adattamento, in sostanza in ossequio agli imperativi della competitività internazionale. Più di recente, invece, sull’onda dei nazional-populismi, è prevalsa una retorica costellata da proponimenti “eroici”: appelli all’ordine, offerte di sicurezza, difesa e sacralizzazione dei confini, drammatizzazione della situazione e delle minacce esterne, denuncia di presunti processi di decadenza, inviti a mettere in chiaro “amici” e “nemici” dell’interesse nazionale. L’eroismo della sicurezza invoca il consenso dell’elettore, assecondandone e alimentandone il rigetto istintivo e nevrotico della complessità e delle situazioni incerte. E converte la paura in una nuova forma di volontà generale, laddove l’elettore che si astiene, sembra esprimere la sfiducia di chi avverte la distanza tra quella retorica e la natura post-eroica, magmatica, contraddittoria, imprevedibile, delle società complesse, con cui implacabilmente l’“arte del governo” è chiamata a misurarsi e di fronte alla quale la retorica dell’eroismo o è costretta a capitolare, o, il più delle volte, a soffiare ancora sulla sua bolla demagogica. 

Se le promesse eroiche di controllo della società non hanno più senso oggi, diventa allora naturale chiedersi: è possibile una politica non più orientata a ordine, stabilità, pianificazione, ma capace di rendere riflessiva l’incertezza, di creare fiducia senza promettere eroicamente sicurezza (soprattutto puntando, estraendola dal calderone dell’Unsichereit, sulla sicurezza personale, come ci ricordava nelle sue analisi Zygmunt Bauman), ma riorientando la strategia per affrontare i problemi emergenti, imprevisti? Sarà capace questa politica più prosaicamente di candidarsi a regolare i rischi sociali, di trasformare i limiti in opportunità? E ancora: è possibile ridare peso politico al futuro, schiacciato tra la retorica dell’adattamento al presente e la retorica della difesa eroica del passato spesso mitizzato? È possibile una politica che non oscilli tra la nostalgia di un potere “verticale” e l’impotenza? “Tagliare la testa al re”, come era solito dire Michel Foucault, infatti, non è più solo un’esigenza teorica per comprendere la natura reale del potere, ma un imperativo pratico per comprendere la funzione adeguata della politica nel tempo della complessità, della contingenza e dell’interdipendenza. 

Sullo sfondo di queste premesse e di questi quesiti, vanno lette le puntuali e acute riflessioni che lo spagnolo Daniel Innerarity, uno dei principali filosofi politici contemporanei sulla scena europea, svolge in un suo agile volume edito, in Italia, da pochi mesi, da Castelvecchi, intitolato: Pandemocrazia. Una filosofia del mondo contagiato. La pandemia è la crisi-cartina di tornasole per delucidare come la natura complessa delle società contemporanee muti la natura della politica, così come lo sono le ricorrenti “catastrofi” climatiche ormai. Aveva ragione Bruno Latour, infatti, quando affermava che la crisi sanitaria è inserita in quella che non è una crisi, sempre passeggera per definizione, ma piuttosto una mutazione ecologica duratura e irreversibile, e che, se abbiamo delle buone possibilità di “uscire” dalla prima, ne abbiamo ben poche di “uscire” dalla seconda. 

Forse, a rigore, dovremmo parlare di una policrisi (sanitaria, ecologica, climatica, geopolitica…), che accentua la crisi già in atto della leva fondamentale della politica eroica di un tempo: lo Stato. Infatti, la dimensione globale delle nostre crisi indebolisce lo Stato nazionale in quanto attore sovrano. In un mondo sempre più interconnesso, nessuno Stato può impedire a un virus di varcare i propri confini e di minacciare così la salute dei propri cittadini. O può impedire che un disastro ambientale e climatico in un paese abbia effetti disastrosi in un altro paese, come è successo con gli incendi in Canada che, il 27 giugno scorso, hanno reso Chicago la città più inquinata del mondo. Sempre più, gli Stati, per affrontare tali problemi, hanno bisogno di saperi condivisi, di competenze decisionali condivise, di mezzi finanziari condivisi. Appare chiaro che come forma eroica della storia lo Stato è invecchiato, come garante del bene comune è sovraccaricato, come benefattore della società è privo di mezzi, come centro di governo non si trova più intorno una periferia, ma una corazzata di altri centri.  

Secondo Innerarity, la pandemia ci ha fatto prendere coscienza della nostra comune vulnerabilità e del fatto che non abbiamo strumenti di protezione conformi alle minacce a cui ci espone la globalizzazione. Viviamo tra il non più degli Stati e non il non ancora della governance globale…

Ma la pandemia illumina ancora più in profondità il passaggio d’epoca che stiamo vivendo, per il filosofo spagnolo. Sebbene abbia dato la stura alle ipotesi più pessimiste sulle sorti della nostra civiltà, per Innerarity, questa crisi non è la fine del mondo, bensì la fine di un mondo. Quello che è giunto al termine (in verità, è terminato da tempo, ma ancora non lo abbiamo accettato) è il mondo delle certezze e del sentimento di dominare dall’esterno la natura e controllare il mondo, è il mondo degli esseri invincibili e dell’autosufficienza. L’idea di vivere in un mondo definibile, prevedibile e soggetto ai nostri ordini si fa sempre più irrealistica, perché ci sono molte cose che non sappiamo e la stessa scienza, come evidenziarono i dibattiti tra scienziati e medici durante la pandemia, avanza attraverso la controversia e l’incertezza. Un mondo di questo tipo crea più “domanda” di decisioni, ma anche la consapevolezza che ogni decisione è una scommessa. Costringe la politica a osservare e apprendere nell’azione di governo. 

Potremmo aggiungere, ancora, che questa crisi non è nemmeno la fine della modernità, ma di un suo ciclo, perché, come direbbe Niklas Luhmann, le caratteristiche del moderno di oggi non sono quelle di ieri e nemmeno quelle di domani, e proprio in questo consiste la loro modernità. 

Il libro dedica, poi, un’attenzione particolare a come la crisi della pandemia abbia messo alla prova la capacità di agire della democrazia nella complessità, cercando di contemperare la risposta alle aspettative di efficacia con la legittimità delle decisioni e delle procedure. Innerarity esamina i tre ordini di problemi che si sono profilati per quello che è, comunque, il regime politico post-eroico per eccellenza, la democrazia: il problema dell’eccezione, dell’efficacia e del cambiamento sociale. E lo fa, sfatando al riguardo alcuni luoghi comuni o refrains anche autorevoli che sono circolati in quel momento. 

Ad esempio, Innerarity chiarisce che i governi democratici hanno molti problemi di inefficienza, ma questi problemi non sono dovuti al fatto che sono obbligati a rispettare la volontà del popolo e le procedure legali, com’è vero che le autocrazie non sono un modello di efficienza. Sulla decantata efficienza dei regimi totalitari e dei loro sistemi di sorveglianza in caso di crisi pandemiche o di crisi che comportano restrizioni alle libertà personali, il filosofo spagnolo ci ricorda che l’efficienza totalitaria, ammesso che esista, non ha mai come obiettivo la tutela dei cittadini, bensì la sopravvivenza del regime. Proprio, la gestione della pandemia da Covid-19 ha rimesso all’ordine del giorno la distinzione tra “popolazioni” e “comunità di cittadini”. Paesi autoritari come la Cina hanno naturalmente fatto la scelta di ragionare in termini di popolazione e agire di conseguenza, mentre le democrazie, pur essendo divise, si sono rapportate a comunità di cittadini.  

Per Innerarity, inoltre, le misure d’eccezione non sospendono la democrazia, né la sua dimensione deliberativa e controversa. Il pluralismo rimane intatto e il normale disaccordo sociale continua a esistere, anche se la sua espressione rimane subordinata al raggiungimento dell’obiettivo prioritario rappresentato dalla tutela della salute e dal contrasto dell’emergenza sanitaria.  

Contrariamente a quanti, come Latour, hanno visto nelle misure radicali adottate (il lockdown, l’arresto di gran parte dell’economia), per combattere la pandemia, la prova che è possibile attivare “interruttori della globalizzazione”, Innerarity è convinto invece che la radicalità delle misure può trarci in inganno, facendoci credere di essere capaci di controllare tutto, compreso qualcosa di molto simile a fermare il mondo. A suo avviso, più che credere illusoriamente di poter fermare il mondo, la strategia migliore anche per contrastare il degrado della biosfera sia quella di trovare soluzioni capaci di conciliare tutti i beni in gioco (la vita, il lavoro, l’economia, il pianeta), come in effetti impone la transizione ecologica. La lezione che si può trarre comunque dalla pandemia, per non rischiare di inabissare, è che alla globalizzazione frenetica faccia seguito una glocalizzazione sostenibile. 

In conclusione, la domanda principale che dovrebbe preoccuparci è se l’“l’intelligenza della democrazia” (così definita da Charles Lindbom) che fu in grado di fornire una risposta ai conflitti del XIX e del XX secolo, ci verrà ancora in soccorso, quando si tratterà di affrontare i rischi globali del XXI secolo.

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