Nelle stanze del vetro: Venini

16 Novembre 2012

Sono tempi difficili.

L’economia soffre, la ricerca langue, la cultura troppo spesso rinuncia alla propria autorevolezza pur di conquistare la ribalta della società dello spettacolo.

Che manchino denari è certo ma, sebbene abbia oramai colonizzato le prime pagine dei giornali, non credo sia la crisi finanziaria la causa prima di questo stato di cose. Ciò di cui siamo veramente poveri sono i progetti, la capacità di reinventarci e generare sogni. Abbiamo barattato le idee con le immagini e adesso ci accorgiamo di quanto le prime siano più fertili delle seconde.

 

Date queste premesse, non stupisce il basso profilo dell’ultima Biennale veneziana d’architettura. D’altra parte, perché mai in mezzo a tanta incertezza la Biennale avrebbe dovuto sfoggiare solide sicurezze? La cosa che colpisce, però, è che il basso profilo non deriva da una scelta pauperista, né da una scarsità di proposte: a Venezia ci sono le super-star della creatività, non mancano le installazioni ad effetto, abbondano come sempre le presenze internazionali così come le prese di posizione morali. Il fatto è che tutte queste offerte si presentano come equivalenti, perfettamente intercambiabili ma anche assolutamente impermeabili l’una all’altra. L’impressione è quella di una bella rassegna fra cui scegliere una forma del mondo o della città del futuro così come si scelgono su di un catalogo le piastrelle del bagno. Quasi che etica ed estetica, anziché essere terreno di dialogo e d’impegno, fossero oramai opzioni di natura decorativa. Un paesaggio che sembra a chiare lettere sollecitare istanze e obiettivi che, da fuori, spezzino l’autoreferenzialità del disegno e del progetto.

 

 

Com’è come non è, in questo orizzonte veneziano la cosa più interessante è apparsa a molti la mostra dei vetri di Carlo Scarpa per Venini, allestita sull’isola di San Giorgio nelle nuovissime stanze del vetro volute e promosse dalla veneziana fondazione Giorgio Cini e dalla fondazione svizzera Pentagram Stiftung.

Sfacciata l’assoluta bellezza degli oggetti esposti, sorretti e organizzati però da un allestimento di esemplare chiarezza, capace di spiegare e far comprendere le ragioni sia tecniche che culturali di quella bellezza.

 

Ecco, oltre l’incanto del bello, l’interesse della mostra stava proprio nel suo essere non solo una retrospettiva storica, ma anche una mostra capace di raccontare una storia. La storia di un’azienda – Venini – del suo animatore – Paolo Venini – di un intelligente progettista – Carlo Scarpa. La storia di un cambiamento e della reinvenzione di Murano. Una storia emblematica, per molti aspetti attuale e forse utile da capire ancor oggi.

 

 

Tutto ebbe inizio nel 1921, anno in cui Paolo Venini – milanese, giurista e commerciante appassionato d’arte – decise di investire nel mondo del vetro muranese.

Anche quelli erano tempi difficili. Per secoli vertice assoluto della produzione vetraria mondiale, modello ineguagliato di virtuosismo tecnico, raffinatezza cromatica e inventiva formale, il vetro di Murano viveva da tempo un lento e progressivo declino. Le delicatissime forme soffiate, le luminose trasparenze, le naturalistiche decorazioni non corrispondevano più alle inclinazioni di un gusto oramai sintonizzatosi sui profili asciutti della scuola viennese, meglio interpretati dal massiccio cristallo molato di Boemia, di Francia o dell’Europa settentrionale.

Il programma di Venini e dei suoi soci veneziani (l’antiquario Cappellin e il pittore Zecchin) non è rivoluzionario, ma punta a depurare il vocabolario muranese. Una prima semplificazione passa attraverso il recupero di modelli rinascimentali: una classica sobrietà subito premiata dal pubblico. Già, il pubblico. Perché la scommessa di Venini è proprio quella di conquistare al vetro d’arte e di alta qualità un pubblico nuovo, borghese e colto.

 

Nel 1925 la società si scioglie e Paolo Venini continua da solo. Liberatosi dalla tutela culturale e stilistica dei veneziani, Venini si affida alla propria personale sensibilità, formatasi negli ambienti modernisti del Novecento milanese. Accelerando sulla via del rinnovamento, per prima cosa affida la direzione artistica della vetreria allo scultore Napoleone Martinuzzi. Non più leggerezza ma volumi, non disegno ma modellato. È un primo cambio di passo rispetto alla tradizione, un’apertura verso il linguaggio internazionale della art deco. Una direzione confermata dalle brevi ma significative collaborazioni con Gio Ponti e Tommaso Buzzi.

Fermenti e anticipazioni che spetterà a Carlo Scarpa portare a compimento. La sua collaborazione con Paolo Venini inizia nel 1932. Per quindici anni sarà un fuoco di fila di novità, invenzioni, modernizzazioni.

 

 

Se Martinuzzi aveva approfittato della plasticità della figura per superare lo stereotipo muranese, Scarpa si limita a geometrie nitide e volumi quasi puri. Per reinventare Murano a Scarpa bastano dei semplici vasi. Ma quanti echi risuonano nelle sue forme: suggestioni viennesi, richiami al vasellame di età romana, dichiarate incursioni nell’arte cinese e giapponese. Senza timore, Scarpa supera le leggerezze che avevano fatto grande Murano e lavora con superfici spesse e masse di cristallo. Non più trasparenze ma opacità scabrose, corrose, iridescenti. Soprattutto, Scarpa infrange il tabù delle superfici e lascia che il vetro sia aggredito da molature, sabbiature, abrasioni. Di Murano Scarpa salva il virtuosismo tecnico e la maestria nella creazione dei colori, ma ne ibrida la tradizione con l’innesto di nuove culture e lontani immaginari. Con la complicità di Paolo Venini, Scarpa innesca una vera e propria rivoluzione culturale che rimette Murano all’avanguardia, riscrivendo le regole di un gusto moderno e cosmopolita, non più aristocratico ma nobilmente borghese.

 

A ben vedere, in quella vicenda c’è in nuce il meglio del progetto italiano. C’è una nuova idea del lusso, una valorizzazione della qualità, un’emancipazione moderna del fatto a mano, un rispetto reciproco di tecnica e arte. Né la moda né il design contemporaneo hanno saputo fare di meglio.

C’è soprattutto un’idea alternativa della globalizzazione, non basata sul valore economico quanto sul valore culturale: globalizzare non per vendersi a tutti i mercati, bensì globalizzare lo sguardo per conquistare culture diverse. Sembra facile, ma occorre l’umiltà di accogliere ciò che viene da fuori e l’orgoglio di trasformarlo e farlo proprio.

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