Venezia - Asseggiano, 8 gennaio 2012
“E quanto alle antiche relazioni di Ravenna con Venezia, non potendone ritrovare il principio, dovemmo risalire allo studio delle origini delle due città, che vedemmo non contemporanee, ma certo consimili”.
(Pier Desiderio Pasolini, 1874)
Riprendo a scrivere di non-scuola, dopo la serata di Donne al Parlamento al Valle in dicembre. E d’accordo con la redazione di doppiozero, diamo a questo blog un nuovo titolo, non legato a un singolo progetto, come è stato per Capusutta a Lamezia Terme, bensì un titolo che possa comprendere luoghi e avventure differenti durante l’anno, appunto il titolo di NON-SCUOLA, in modo che io possa raccontare i progetti che le Albe vanno realizzando in giro per l’Italia e per il mondo. Compresi quelli futuri di Capusutta, perché siamo fiduciosi sulle promesse del sindaco di Lamezia di continuare l’esperienza.
Ripartiamo dal Nord Est: infatti, mentre stavamo terminando il primo anno di Capusutta in Calabria, già dall’ottobre scorso avevamo iniziato una nuova non-scuola a Venezia. Voluti là dalla Fondazione di Venezia, un’istituzione culturale che da anni realizza Giovani a Teatro, un progetto per quel che ne so unico nel suo genere, in grado di stimolare le giovani generazioni alla conoscenza del teatro, senza irreggimentarle e trascinarle contro voglia, ma favorendo e inventando ogni possibile incontro tra la cultura della scena e gli adolescenti. In particolare a chiamarci, per un’amicizia che conta almeno un paio di decenni, è stata Cristina Palumbo, un’appassionata organizzatrice teatrale che conosco dai tempi della collaborazione tra le Albe e il Tam di Padova. È stata Cristina, negli anni, con pazienza e tenacia, a tessere le fila per portare anche nel Nord Est (dopo tanto Sud) una presenza della non-scuola lunga e articolata.
È così che è nato Eresia della felicità a Venezia, un titolo che evoca il progetto realizzato la scorsa estate al Festival di Santarcangelo. Lo evoca perché l’autore sul quale lavoreremo sarà lo stesso, Vladimir Majakovskij. Lo evoca perché, pur partendo da un testo teatrale (in questo caso Mistero buffo, che farà da base per questo “affresco non-scuola per Vladimir Majakovskij”), la componente lirica sarà fondamentale, come lo fu a Santarcangelo: le liriche del giovane Majakovskij pre-rivoluzione, quando era un adolescente ribelle e sentiva la tempesta nell’aria. E mentre Capusutta è stato un incrocio tra le forze delle Albe e quelle di Punta corsara, questo di Eresia è un percorso a conduzione tutta ravennate: a seguirmi a Venezia, ogni settimana, ci sono due attori e guide non-scuola delle Albe, Roberto Magnani e Laura Redaelli, che qui in Veneto, e per la precisione a Conegliano, già da alcuni anni vengono a tenere dei laboratori, chiamati da Nicola de Cilia, insegnante e scrittore.
Fin dall’inizio, tra le richieste della Fondazione, c’è stata quella di riprendere un aspetto importante del lavoro realizzato a Napoli, consistente nel rompere i muri invisibili che dividono gli adolescenti del centro da quelli delle periferie. Là significava collegare il centro storico a Scampia, a Venezia significa collegare il centro storico con la “terraferma”: Cristina e i suoi collaboratori hanno quindi individuato la disponibilità di alcuni Istituti Tecnici ad Asseggiano, municipalità di Mestre, a 18 km da Venezia, e quella del Liceo Classico Marco Polo, a due passi dall’Accademia di Belle Arti. È così che verso la fine di ottobre siamo andati per la prima volta in quelle scuole. Oggi racconterò solo quei primi incontri, che non sono stati appuntamenti di lavoro, ma solamente incontri affollati di adolescenti in cui provare a raccontare cos’è il teatro nella non-scuola. È stato un po’ come gettare la rete. E dove si getta la rete? La si getta dove ci sono i pesci.
Asseggiano: Istituto Tecnico Volta-Edison. Facciamo il primo incontro in un auditorium immenso, e parliamo davanti a una marea di ragazzi. Volti chiusi, seri, per nulla sorridenti. Teste rasate. Creste. Moltissimi stranieri, ci dicono che siano più del 30 per cento. Si fa fatica a farsi ascoltare, un po’ perché l’acustica della grande sala non è granché e il microfono a disposizione non funziona bene, un po’ perché, nonostante l’attenzione dei più, la distrazione di una piccola minoranza basta a soverchiarla, e il rimbombo amplifica la disattenzione. Comincio a raccontare della non-scuola e delle Albe, ma mi sento stonato: è brutto sentirsi stonati. Come mi vedono? Vedono un adulto, uno che penseranno che sia un “professore” coi capelli bianchi, uno che gli parla di attori e di teatro. Teatro? Ma chi di questi ragazzi c’è mai stato a teatro? Mi sento stonato, sento le mie parole galleggiare nell’aria, mi sembrano inutili. Allora chiedo a Roberto di accorciare la distanza anagrafica tra noi e loro. Gli passo il microfono. Lui comincia a raccontare di sé a metà degli anni ‘90, studente a Ravenna all’Istituto Tecnico Industriale Statale, “un grande edificio simile al vostro”, dice Roberto, “vetrate e cemento grigio, la stessa aria anonima”, racconta che adorava gli squali e “da grande” voleva fare il biologo marino. Poi è arrivata la non-scuola, ha cominciato a partecipare ai laboratori ed è andato in crisi, felicemente in crisi. Nel senso che in quella pratica ha trovato tutto quello che aveva sempre solo “intuito”, “sognato”. Scappa dalla scuola, brucia il crocifisso. Cosa? Abbiamo capito bene? Alcuni ragazzi si indignano per la questione del crocifisso, avvenimento “oscuro” del quale Roberto non sta a spiegare le cause, solo precisa che oggi considera il cristianesimo la più grande rivoluzione della storia, ma che all’epoca quello era il suo modo di dire no a un mondo che non gli piaceva. Roberta Martarello, professoressa di religione, ci tranquillizza: i più hanno capito. Roberta è la nostra insegnante di riferimento, che con la Fondazione si è impegnata a far conoscere ai ragazzi questo progetto. E ci racconta anche della difficoltà di farsi ascoltare in classe, di tessere un dialogo. Generazione che non ascolta, che non dialoga. Roberta ha ragione: e il mondo dei “grandi”, degli adulti? Ascolta, quello? Sa dialogare, quello? Non è il momento per fare considerazioni sociologiche… a noi interessa questa marea di “barbari”, di teste rasate e creste, qui e ora: ci stanno ascoltando? A me sembra che nel passaggio da me a Roberto li abbiamo un po’più catturati, ma è difficile a dirsi. Anzi, la mia impressione in questo primo incontro è più che sospesa. Quanti di loro si iscriveranno al nostro laboratorio? Volevamo far vedere anche qualche minuto di un video di Eresia a Santarcangelo, per non dar loro solo parole, ma il proiettore quella mattina non andava...
Poi ci dirigiamo per un altro incontro nell’Istituto Tecnico accanto, il Gramsci-Luzzati. Anche qui si parla nel caos. La sala è più piccola, anche qui sono tanti e stipati. Volti qua e là attenti, ma fai fatica ad ascoltarti tu, come ti ascolteranno loro? Questo è comunque il primo gettare la rete, un atto di fede. Anche qui il microfono funziona male, un professore quasi me lo strappa dalle mani (gentilmente, ma me lo strappa), per rimbrottare i ragazzi, che devono ascoltare questo “signore” che viene da Ravenna a dirci cose importanti. Grazie per il “signore”, l’attenzione si blocca per dieci secondi su quelle cose cosiddette “importanti”, poi di nuovo riprendo a parlare in un rumore di fondo. E io nel parlare cerco di guardarli negli occhi uno a uno, ma è una gara dura. Poi con Cristina, con Filippo Bernardi e Paola Amadio operatori comunali nelle zone di periferia che ci saranno vicini ad Asseggiano, ostento sorrisi e ottimismo. Dentro queste architetture rigide e anonime, emblemi di periferie tutte uguali in tutta la Nazione, come possono crescere i giovani italiani? I cittadini di domani?
Il giorno dopo siamo a Venezia, al Liceo classico Marco Polo, fondato nel 1812 in seguito all’attuazione della politica scolastica di Napoleone: ha sede nel seicentesco Palazzo Bollani, un tempo “signorile dimora di patrizi veneziani”, non distante dall’Accademia di Belle Arti. Qui è passata e passa la media e l’alta borghesia veneziana, qui hanno studiato intere generazioni di studenti, tra cui persone che hanno segnato la vita culturale della città e della Nazione: il filosofo Massimo Cacciari, il musicista Luigi Nono, il grecista Guido Paduano, solo per citarne alcuni. È stata anche la scuola di Giovanni Toniolo, musicista e membro del Consiglio Generale della Fondazione di Venezia, e di Leonardo Mello, critico e studioso di teatro che dirige la bella rivista della Fondazione, “Venezia Musica”, entrambi curiosi di vedere come reagiranno gli studenti del “loro” Liceo. Per noi il primo impatto è la differenza radicale, il salto tra gli spazi, da ieri a oggi: dal cemento al pavimento di marmo veneziano, dai neon ai lampadari di cristallo, dalla plastica alle colonne coi capitelli e le decorazioni a stucco con soggetti classicheggianti, putti che volano e Apollo e Dafne etc. Le architetture parlano: sono più eloquenti di tanti discorsi. Nella struttura del palazzo a due piani, quello superiore è chiamato da professori e studenti “il piano nobile”, antica terminologia legata alla famiglia aristocratica che un tempo lì viveva.
E i ragazzi che vengono ad ascoltarci? Qui non c’è uno straniero. E quando comincio a raccontare, sento attorno a me un silenzio irreale, se confrontato col rimbombo del giorno precedente. Talvolta mi capita di fermarmi, quasi spaesato. I ragazzi sono attentissimi. Qui mi ritrovo perfino a parlare di Dioniso… e quando chiedo se sanno chi è, diverse mani si alzano: è il dio del teatro. Bravi! Ieri non mi era manco passato per la testa, ce n’era fin troppo di Dioniso in circolazione…
Finiti gli incontri, andiamo con Cristina al Cinema Teatro Aurora di Marghera, gestito dalla compagnia Questa Nave. Antonino Varvarà ci fa vedere la sala, in realtà è un “rivederla”, perché in passato le Albe sono state già ospiti dell’Aurora con diversi spettacoli. Là quindi debutteremo con Eresia il 30 marzo. Lavoreremo fino ai primi di marzo con i laboratori distinti, il lunedì ad Asseggiano, il martedì al Marco Polo, e poi nelle ultime tre settimane li riuniremo tutti insieme. Riusciremo a far convivere i tumultuosi di Asseggiano e i silenziosi del Marco Polo? Altrove è successo, a Napoli per esempio, dove in scena, alla fine, non distinguevi più le ragazze del Liceo Classico di Piazza del Gesù che leggevano Aristofane nell’originale dagli adolescenti di Scampia che nei primi incontri, non solo non stavano attenti, ma si prendevano pure “a mazzate”. Là è accaduto che i tumultuosi si sono fatti attenti, e le silenziose si sono scatenate, è questo che succede nella non-scuola, quando si abbattono i muri che dividono le persone. Questo succede quando si gettano le reti: i pesci abboccano. È un atto di fede.