Wes Anderson. Moonrise Kingdom
C’è qualcosa di diverso rispetto al solito, in Moonrise Kingdom di Wes Anderson. Qualcosa di nuovo, meglio ancora, insieme a tutto il resto che già si sapeva: famiglie infelici, bambini con l’espressione da adulti e adulti con l’espressione da bambini, copertine di dischi e di libri inventate, piani fissi frontali, case di bambola e un amore disperato per la vita, per i suoi momenti dolorosi e preziosi che solo i più restii all’immaginario modernista di Anderson, non troppo cinematografico e più votato alla letteratura e il graphic novel, non hanno mai voluto cogliere.
Sarà per questo, perché Anderson fa i conti con lo spirito della nouvelle vague, liberandosi a tratti delle sue influenze grafiche e aprendosi al racconto a fior di pelle dell’amore giovane, con due ragazzini dai volti struggenti, lui occhialuto e nerd, lei impenetrabile e profondissima, che questa volta hanno apprezzato anche gli spettatori e i critici solitamente più ostili all’universo dell’autore dei Tenenbaum, commossi e ipnotizzati pure loro dalla fuga dei suoi due adolescenti protagonisti.
Moonrise Kingdom è ovviamente Anderson al cento per cento, l’ennesima nuova puntata di una serie data per infinita: come succede nei Simpson, per intenderci, o nei Peantus, dove i personaggi non invecchiano mai e ricominciano ogni volta da capo. I suoi film sono variazioni bloccate sullo stesso tema, pezzi unici che compongono una sinfonia orchestrale. Non a caso non c’è più il caro e vecchio folk rock anni ’60 e ’70 (che Anderson ha rispolverato in tutta la sua aura malinconica e struggente), ma addirittura Benjamin Britten, con la protagonista femminile che nella prima sequenza del film spiega come funziona la musica sinfonica, che ha prima gli strumenti tutti isolati e poi tutti uniti in un solo movimento.
L’intero cinema di Anderson è richiuso in quei pochi minuti, nella ricerca di un’unione che prima o poi si realizza; una ricerca incessante che trova forza nella propria disperazione: altro che cerebralità o fighettume newyorchese. E se la famiglia dei Tenenbaum proseguiva nonostante tutto, nonostante l’odio e i fallimenti, il rancore e il perdono sempre tradito, quella di Moonrise Kingdom preferisce reinventarsi, superare la distruzione con la creazione di un nuovo equilibrio. Qualcosa, come si diceva, è in fondo cambiato. Forse perché per una volta i protagonisti non sono adulti mai cresciuti, ma bambini maturi come adulti: nei loro occhi, attraverso i loro occhi, Anderson trova la liberazione del proprio sguardo, spezza simbolicamente la frontalità del suo cinema nella prima sequenza e si apre alla profondità della quarta parete. A memoria si direbbe che è la prima volta che succede nella sua filmografia, un clamoroso movimento panoramico che sembra tradire se stesso.
È invece certo che fino a questo punto nessun film di Anderson avesse un’ambientazione temporale precisa, laddove invece Moonrise Kingdom è ambientato, guarda un po’, negli anni Sessanta, nel periodo della nouvelle vague e del cinema europeo d’autore, della gioventù come guida del mondo e dell’età adulta come fardello. Se perciò si cita direttamente Monica e il desiderio di Bergman qualcosa vorrà pur dire.
Vorrà dire, ad esempio, che Anderson non vive sulla stessa luna dei suoi eroi, ma ha i piedi ben piantati nella storia e soprattutto nell’anima del cinema; e vorrà dire, ancora, che il suo mondo è così vivo, emozionante e originale da regalare ai suoi eroi adolescenti e puri il sogno cinematografico per eccellenza, quello cioè di trovare un posto incontaminato, battezzarlo con un nome e lì rinchiudere il proprio amore come in uno scrigno. Succedeva con l’isola di Monica, per l’appunto, e succede ora con l’insenatura delle creature celestiali di Moonrise Kingdom. Home is where the heart is.