Alla rincorsa di Guido Ceronetti

21 Novembre 2014

Quando la rivista spagnola El Estado Mental mi chiese d’intervistare Guido Ceronetti, uno di quegli scrittori sbanditi che l’Italia ha dimenticato nelle sue piazze e nei suoi vicoli per conservarne cimeli testimoniali nelle librerie, la casa editrice Adelphi mi avvertì che non sarebbe stato facile: “È un uomo anziano che vive in un piccolo paesello di provincia; mantiene i contatti con il mondo via posta o via telefono”. La gentile responsabile dei rapporti con la stampa non si riferiva, naturalmente, a un telefono cellulare; bensì a uno di quei vetusti apparecchi provvisti di cornetta e disco combinatore che richiedono la fortuita presenza del proprietario tra le quattro mura di casa, per poter parlare con lui.

 

Decisi di spedirgli una lettera, che gli sarebbe stata recapitata dagli editori, essendo l’indirizzo di Guido Ceronetti uno dei segreti meglio protetti del Belpaese. Nella missiva descrivevo sommariamente i temi da trattare nell’intervista e mi dicevo disponibile a fissare un incontro nei termini preferiti dal filosofo. Quando la cortese impiegata di Adelphi mi confermò che il viaggio postale era cominciato, mi preparai ad attendere che il plico arrivasse a Cetona, un borgo medievale tra l’Umbria e la Toscana dove Ceronetti si è trasferito da diversi anni, e che avvisasse per telefono la casa editrice, secondo la successione di eventi che mi era stata pronosticata.

 

Alessandro Gianetti, Cartolina Alessandro Gianetti, Cartolina

 

Lavoro per un’impresa fuori città; la mattina mi alzo presto, mi vesto alla meno peggio e mi precipito in un autobus che abbandona Madrid per dirigersi nella sierra. Quel viaggio di mezz’ora lo dedico alla lettura. La lanterna del filosofo, uno dei libri che mi ero procurato presso la libreria Central, che dispone di una sezione di testi in lingua originale, cominciò ad accompagnarmi insieme a Dalla parte di Swann, il primo dei sette volumi della Recherche che sapevo già mi avrebbe impegnato per molto tempo. Al mattino osservavo la luce del sole invadere le scarpate; i fili d’erba, lassù in cima, erano così chiari e fragili, illuminati dal tenue chiarore del mattino, che parevano il vello di un cucciolo addormentato. Avevo preso l’abitudine di osservare uno scolaro che prendeva il mio autobus tutte le mattine; vestiva sempre dei bermuda estivi, benché ancora nessuno li portasse: la primavera era appena iniziata.

 

Un giorno lo vidi rincorrere l’autobus mentre si reggeva le cuffie con cui ascoltava la sua musica per paura che cadessero, e in quel momento la concitazione cancellò per sempre dal suo volto (ma solo per i miei occhi) l’aria da ragazzino per bene, instradato nello studio della professione familiare, un avvocato o un dottore c’era da scommettere, che era ciò che me lo aveva reso inzialmente un tanto indigesto. Indossava una maglietta con su scritto Firenze, una bicicletta e poi sotto Italia, la marca della maglietta non riuscivo a leggerla. Era evidente che la mia città natale, Firenze per l’appunto, stava cercando di comunicarmi qualcosa usando un ambasciatore insospettabile, come sempre quando si tratta di rovistare nel ripostiglio universale delle coincidenze. Per giunta, proprio in quei giorni, nel primo libro di Proust, Swann s’innamorava di Odette in quanto “creatura fiorentina”, regolandosi alle predilezioni culturali più che ai propri sensi, visto che Odette “non era il suo tipo di donna”.

 

Come al solito, il ragazzo non fece caso a nessuno durante il tragitto e scese alla sua fermata caricandosi lo zaino in spalla. Era una delle fermate nelle quali l’autobus s’attardava maggiormente, perché per rientrare in autostrada doveva fronteggiare una robusta colonna di automobili formatasi in corrispondenza di uno svincolo poco più avanti; l’autista optò per un reinserimento trasversale che gli consentì d’immettere il muso del grosso veicolo nel serpente del traffico extraurbano, quindi ingranare la seconda e costringere i mezzi in corsia di sorpasso a rallentare in virtù della sempre vigente legge del più forte. Insieme al ragazzo in bermuda scese uno sciancato gruppuscolo di adoloscenti che osservai percorrere svogliatamente il cavalcavia dal quale avrebbero goduto del solito, scoraggiante panorama metropolitano. Quando l’autobus ebbe ripreso la sua corsa aprii il libro di Ceronetti e incappai in una definizione di Lucrezio che ancora mi risuona nel cervello, “funebre arpista”, seguita dalla descrizione che ebbe a darne San Girolamo:

 

“Lucrezio impazzisce per una bevuta di afrodisiaco, scrive aliquot libros nelle pause del suo delirio, si uccide”.

 

Leggere mi aiutava a pensare, un’attività che temevo quasi di perdere nel susseguirsi frenetico delle attività quotidiane. Avevo spesso la sensazione di limitarmi a spostare il mio corpo da casa al lavoro e poi dal lavoro a casa, e di ricavare giusto il tempo necessario a organizzare tali spostamenti in modo ordinato ed efficiente. Forse è per questo che le pagine de La lanterna del filosofo mi furono da subito così care, perché parlavano di cose varie e lontane, proprio il contrario di quel che offrivano i miei giorni. Si finisce per confidare così ciecamente nell’abitudine che cominciai ad alzarmi al mattino per leggere Ceronetti, di questo mi ero convinto, e non per andare a lavoro. L’immagine di un suonatore d’arpa che muove le dita immerso in una specie di dormiveglia, seduto su un tripode accanto a una bianca tenda serrata per non far passare troppa luce nella camera ardente, insomma di un sublime becchino, mi fece ricordare i mesi precedenti, quando leggevo il suo De rerum natura, apprezzandone a tratti le rime, su quello stesso autobus. Mi sforzai di mettere a confronto l’opinione che avevo su Lucrezio con la definizione di Ceronetti, che la contraddiceva così platealmente, e ne ricavai una sorta di giudizio intermedio fatto della mia ammirazione e delle critiche avanzate dal pensatore di cui attendevo la risposta.

 

Il 4 maggio 2014, giorno dell’abdicazione di Re Juan Carlos a favore del suo primogenito, l’attuale Filippo VI di Spagna, lessi il prologo al lettore de La carta è stanca. “Oggi i libri hanno la giovinezza dei cani”, cominciava Ceronetti, “Adesso c’è un americano che profetizza da un trono immenso di dollari la fine della carta e la rivoluzione della lettura elettronica”. Seguiva un compendio di alcune frasi scritte nel XX secolo, tragico secolo di carta, che segnarono la mente dello scrittore: 1º luglio 1916, il capitano Harshwell del 9° fanteria britannico alla vigilia dell’attacco alle postazioni tedesche di Fricourt: “Gentlemen, when the barrage lifts”; sarebbe morto il giorno seguente; Louis-Ferdinand Celine: “On n’est plus qu’un vieux réverbère à souvenirs au coin d’une rue” e Victor Hugo: “Per uccidere il libro bastano un turco e una torcia”.

 

Dopo vennero le pagine dedicate alla campagna, che “dopo quattromila anni cambia aspetto” e che invece il filosofo ignoto vorrebbe rimanesse com’è sempre stata, secondo quell’insopprimibile anelo di conservazione che nutre chi ama la terra. “Il simbolo della vita, l’albero, è la vita stessa, e uccidendolo si uccide anche il tempio di Salomone”. Ceronetti fa risalire la devastatrice idea dell’uomo dominatore del Creato, una specie di Zeus inviso ad animali e piante, al salmo 8 della Genesi. Lo scrittore usa termini brutalmente celestiali, come a far calare sui lettori contemporanei il tremendo boato di luce di cui i primi uomini dovevano sentire ancora l’eco, sbalorditi dalla grazia e dalla violenza della creazione, quindi di se stessi. È come se volesse emendare alla radice gli errori umani e per farlo andasse a scovare il primo seme insano, additandolo al biasimo generale; ma sa di non poter convincerne molti: è in lui la consapevolezza dello spazio limitato in cui sono state ridotte tanto la filosofia quanto la poesia (“i poeti d’oggi dànno l’impressione di essere una manica di ritardatari”). Ceronetti combatte l’uomo che interviene, che esercita la propria azione sulla natura, infine l’uomo che non contempla; e sembra volerlo risospingere a suon d’amorevoli ceffoni nei cancelli dell’Eden!

 

Un giorno non vidi più il ragazzo che ascoltava la musica, eravamo arrivati a fine giugno e non me n’ero nemmeno accorto: le scuole avevano chiuso per le vacanze estive. L’autobus quasi non si fermava più lungo l’autostrada e potevo permettermi il lusso di salire sulla corsa delle otto e trenta, invece che su quella delle otto e un quarto. Godevo pertanto di un quarto d’ora di sonno in più al giorno, la quale, moltiplicata per cinque, i giorni di lavoro, dava una benaugurante ora e un quindici minuti di spossante veglia in meno da affrontare. Quel dì incappai nei tre nomi di Dio che si riportano nel verso 16 della Genesi, Shaddasi, El-Ohim e YHWH. Dal secondo nome deriva una bella parola, “betilo”, un luogo sacro che rivela la presenza di El-Ohim. Un betilo era per esempio la pietra sulla quale si assopì Giacobbe: “ha dormito sul corpo di Dio e la pietra lo ha riempito di visioni”. È l’immanenza della quale Ceronetti maledice l’attuale assenza, creder sacra la pietra e venerarla come parte del Creato, quindi anch’essa Creatrice, anch’essa YHWH.

 

“Il mondo, vaso spirituale, non può essere modellato. Chi lo modella lo distrugge” (Tao Tê Ching, 29).

 

Guardai dal finestrino, le pietre si alternavano alle lavande sullo stradone di calle Isla del Hierro, dove sorge una gran quantità di uffici e qualche sparuto bar. Gli impiegati scesero dall’autobus e io portai la memoria di quegli antichi nomi in un palazzo di cristallo.

 

Dopo quindici giorni la gentile responsabile dei rapporti con la stampa mi ambasciò che le scarse energie di cui disponeva Guido Ceronetti non gli permettavano, sfortunatamente, di ricevere visite. Non rinunciai affatto alla possibilità d’intervistarlo. Se non era possibile incontrarlo di persona, gli avrei spedito le domande per iscritto tramite la casa editrice, oppure, dato che iniziavo a diffidare della loro intermediazione, le avrei inviate direttamente al bar della piazza centrale di Cetona. Avevo letto che Ceronetti lo bazzicava spesso, e il padrone del bar non poteva non conoscerlo. Proprio in quel periodo però si venne a prospettare una nuova possibilità, del tutto inattesa, che mi chiarì una volta per tutte che le avventure si affrontano con le sole armi di cui si dispone, non c’è altro mezzo che l’arrangiarsi. Venni a sapere che la cuoca del ristorante dove pranzavo con i colleghi d’ufficio tutti i venerdì possedeva un agriturismo proprio a Cetona. Fu suo marito, il proprietario del ristorante, a rivelarmelo, dopo aver conversato di fronte alla cassa, con la carta di credito in mano, di Bob Dylan e dei Pink Floyd. Questa donna è la pedina giusta al momento giusto, pensai, non avrà letto le sue opere, ma dovrà pur sapere di chi si tratta. Concordammo così una breve visita nelle cucine del ristorante per il venerdì successivo per conoscere l’autrice dei deliziosi piatti che gustavo da ormai oltre un anno.

 

Il venerdì mi recai come concordato al ristorante La Toscana. Il proprietario m’introdusse tra i fumi delle pentole e mi presentò Agata, la cuoca. Girovengi? Mi chiese, No, Ceronetti, le ripetei. Mi dispiace, si giustificò, ma io sono originaria di Roma. Non si preoccupi, la rassicurai, non lo conosce quasi nessuno... Non restava che affidare le mie domande alle poste italiane confidando in un magnanimo smistatore di provincia che riconoscesse il destinatario e chiudesse un occhio sull’assenza dell’indirizzo. Una possibilità piuttosto remota, ma ero disposto a giocarmi anche l’ultima carta che avevo in mano. In metropolitana osservai con la parte incontrollabile dello sguardo le donne che rifinivano il trucco con specchietti portatili pensati affinché fossero sempre in ordine. Aprii La carta è stanca e appresi che Hogarth, nel suo testamento pittorico, non celebrava Dio, ma il Caos. Era il 1784. Perché stiamo abbandonando il pensiero? Ceronetti lo mette in relazione alla perdita del libro. Ormai annotavo le sue opinioni per me stesso. Una volta a casa casa ricevetti una telefonata dalla redazione di El Estado Mental. Avevano ricevuto una cartolina a me intestata da Genova, era firmata da Guido Ceronetti e in redazione erano ansiosi di conoscerne il contenuto. Fissammo un appuntamento per la domenica successiva al bar Campiello.

 

 

Madrid quella domenica aveva un’aria grigiastra alla quale i riflessi più diretti del sole permettevano di assumere, tutt’al più, un monotono tono azzurrognolo. C’incontrammo nella Glorieta General Martínez Castro, al centro della quale un cipresso dall’aria vagamente cimiteriale fronteggiava i tavolini all’aperto, sedemmo. Guido Ceronetti aveva ribadito la propria ubiquità imbucando la risposta di fronte al mar ligure, non lontano dal golfo di Lerici, dove Percy Bysshe Shelley annegò nel 1822. Della poesia Tigre, del suo contemporaneo William Blake, avevo letto da poco le immigliorabili analisi e traduzione nell’articolo Gnosi della tigre: Blake e la rivoluzione. L’agghiacciante mostro della modernità vi è descritto nei termini di una feroce creatura d’altoforno dalla quale si sparpagliano i metallici sterminatori dell’innocenza. Siamo nell’epoca precedente la Rivoluzione Industriale. Intendiamoci, non è l’uomo il responsabile, ma la stessa mano che creò l’Agnello. Eppure, nella poesia di Blake rimane un terribile quesito irrisolto, dietro le cui scintille s’intravede il ghigno del diavolo, maschera di Dio a tempi alterni, come in una pièce teatrale:

 

Quando le picche furono scagliate

Giù dal cielo irrorato

Dai pianti delle stelle, il Forgiatore

Guardando il suo lavoro gli sorrise?

 

L’avventura dell’uomo, empancipatosi dall’argilla con cui lo si creò, faceva in quei decenni un salto da gigante, e Londra era la capitale dello sconvolgimento. La cartolina dell’amico di Emile Cioran, che tenevo finalmente tra le mani, raffiguarava due giocolieri che si esibivano nel piazzale degli Uffizi, di fronte a una manciata di spettatori in sosta spensierata sui gradini del museo. Era in bianco e nero. La girai e la lessi.

 

Caro amico,

Io sono ormai

troppo vecchio

e malconcio per occuparmi

d’altro che di

quel che ancora

mi è permesso fare. Il

rischio delle riviste è di attirare pochi e

dover chiudere dopo

poco vivere, e di generare noia.

Ahimè, la noia è sempre

in agguato.

 

La noia. Tra tutti i rischi dai quali avrebbe potuto metterci in guardia, aveva scelto il più sinistro. Immaginai Ceronetti col mento poggiato sul palmo della mano mentre osservava il mare dalla Terrazza di Marmo; vessato da una fastidiosa sciatica constatava che i suoi novant’anni lo costringevano all’oblìo di quei poeti che un tempo recitava a memoria... Ma in fondo che importanza poteva avere? Un amichevole rifiuto vale più di un’insincera accettazione, mi dissi. E poi quella cartolina era già di per sé un viaggio in Italia, forse più fortunato di quello che avrei dovuto affrontare per intervistarlo. Acquistata a Firenze, francobollata con un sorridente Enrico Berlinguer e commemorante il bimillenario della nascita dell’Imperatore Augusto. Era stata scattata nel 1978, avevo appena due anni. Lasciai che lo spirito di quel viaggio mnemonico aleggiasse tra i miei ricordi di un paese verso il quale era inutile provare risentimento; potevo solo allargare il cuore affinché lo contenesse. Il mattino successivo mi recai al lavoro. Scesi dall’autobus e osservai l’aiuola che decorava il viale d’ingresso del parco industriale in cui sono impiegato. Ospitava una rigogliosa yucca, un florido roseto e un ulivo solitario.

 

Il suolo intermedio era occupato da piante di lavanda sul cui pungente profumo avrei scommesso i due soldi che avevo in tasca. Queste piante sono troppo sane, pensai, troppo artificialmente disposte. Per fortuna notai anche degli oleandri selvatici cresciuti in un angolo della piazzola del distributore di benzina; fortuiti, perfetti e avventurosi, com’è sempre la natura quando non la s’imbriglia. Quella notte sognai di percorrere con mio padre il corridoio di casa. Guido Ceronetti stava insegnando a François, un mio caro amico, a marciare come un vero filarmonicista. Ceronetti marciava mostrando il passo a François ed entrambi si allontanavano da me e da mio padre. Quando furono di schiena, dissi, Guarda, quello è Guido Ceronetti (nel sogno era biondo e portava i lunghi capelli raccolti in un codino, come un marinaio). Poi ricordai che era stato mio padre a intervistarlo, quindi doveva saperlo molto meglio di me. Ah già, gli dissi, ma perché te lo dico, sei tu ad averlo intervistato, non io.

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