Berliner Theatertreffen. Oltre il postdrammatico?

6 Giugno 2012

Il maggio teatrale berlinese è caratterizzato ormai da anni – la prima edizione risale al 1964 – dal Theatertreffen. Per due settimane (quest’anno dal 4 al 22 maggio) alla già vivace e fervida stagione teatrale della capitale tedesca s’aggiunge questo importante festival. Il nucleo della rassegna consiste nella messa in scena dei dieci migliori spettacoli in lingua tedesca, selezionati da una giuria di esperti fra i numerosi allestimenti della stagione precedente. Il Theatertreffen può essere considerato il corrispondente tedesco del Premio Ubu con la differenza fondamentale che la manifestazione non si esaurisce in una serata. Inoltre, negli ultimi anni il festival è andato arricchendosi di numerose iniziative extra-spettacolari, quali laboratori, conferenze ed eventi mondani. Di particolare importanza risulta essere lo Stückemarkt, vetrina per la nuova drammaturgia, inizialmente dedicato agli autori di lingua tedesca, esteso poi dal 2003 agli artisti di tutta l’Europa.

 

L’edizione del 2012 è stata seguita con particolare attenzione, poiché diretta per la prima volta da Yvonne Büdenhölzer, in precedenza già curatrice dello Stückemarkt. Le novità introdotte dalla giovane direttrice (anno di nascita 1977) proseguono e radicalizzano il percorso dei suoi predecessori, i quali avevano già dato ampio spazio al cosiddetto teatro postdrammatico, “genere” che a partire almeno dagli anni ‘70 prende piede sui palcoscenici tedeschi – prima nella scena off e negli ultimi anni anche negli Stabili.

 

Before Your Very Eyes dei Gob Squad

 

E proprio all’insegna della carica dissacratoria del postdrammatico va analizzato il Theatertreffen 2012, seguendo in verità due filoni ben distinti: da un lato spettacoli basati sul recupero di testi classici liberamente rielaborati per la scena; dall’altro messe in scene ai confini della performance, in cui il dato rilevante diventa l’elemento documentaristico. Così, per esempio, la compagnia Gob Squad in Before Your Very Eyes porta in scena sette preadolescenti, indagandone i desideri, le speranze e le paure, con la pretesa di mostrarne la “vera” vita. Non una storia, non un racconto, dunque, bensì la messa in mostra (non a caso i ragazzi recitano dentro un contenitore di vetro) di se stessi, di ciò che sono ora e di ciò che erano – la proiezione di un video mostra i medesimi due anni prima. Analogamente Hate Radio del regista Milo Rau – coprodotto dall’International Institute of Political Murder, Kigali Genocide Memorial Centre e il teatro Hebbel am Ufer – ricostruisce le messe in onda dell’emittente radiofonica RTLM (Radio-Télévision Libre des Milles Collines) nella sua propaganda d’odio contro i Tutsi. Il pubblico vede ciò che di solito può soltanto ascoltare; la comprensione è resa difficile dall’esigenza di autenticità, che spinge la compagnia a mettere in scena in francese e in kinyarwanda. Gli spezzoni originali della trasmissione e le testimonianze di vittime e carnefici non hanno lo scopo di spiegare i motivi del genocidio in Ruanda, e nemmeno vogliono risvegliare la partecipazione emotiva dello spettatore. Si tratta, piuttosto, di mostrare e ricostruire il più fedelmente possibile una parte del meccanismo che contribuì alla realizzazione di quella strage.

 

Hate Radio regia di Milo Rau

 

La particolarità di questa edizione, tuttavia, è sicuramente l’ingente presenza di classici più o meno recenti. Ben sette degli spettacoli – otto se si considera Kill your Darlings! Streets of Berladelphia di René Pollesch, molto liberamente ispirato al Fatzer di Brecht – sono riallestimenti di classici.

Perché tanto interesse per il testo? È forse il segno di un ritorno al teatro drammatico o piuttosto – come sono propensa a credere – il cosiddetto teatro postdrammatico non ha mai smesso di occuparsi del testo, facendolo tuttavia secondo una modalità altra? Ciò che conta è l’uso che il regista fa del testo.

Due approcci opposti al testo, e di conseguenza due differenti modalità di resa scenica si sono viste al Theatertreffen di quest’anno. Mi riferisco al Faust I+II di Nicolas Stemann – vincitore tra l’altro del premio 3sat per l’innovazione scenica – e al Platonov di Alvis Hermanis.

 

Faust I regia di Nicolas Stemann

 

Nel Faust Stemann fa uso di tutti gli elementi tipici del teatro postdrammatico, seppure la rottura di ogni convenzione teatrale diventi evidente soltanto nella seconda parte. Nella prima parte, infatti, la vicenda del Dottor Faust è narrata quasi esclusivamente dalle elucubrazioni di Faust medesimo, interpretato da un fantastico Sebastian Rudolph. I personaggi di Mefistofele e Margherita sono in un primo tempo interiorizzati da Faust come suoi alter ego, e solo verso la fine della prima parte entrano in scena gli attori che ne interpretano i ruoli. La confusione e lo scambio dei ruoli tuttavia non cessa. La fedeltà al testo di Goethe è mantenuta, nonostante i versi dell’autore vengano declamati, ripetuti, spezzati e urlati in un microfono. Dopo un primo momento di sgomento e fastidio, non resta altro che ascoltare le parole di Goethe e così ci si accorge della loro cocente attualità: l’assenza di un senso ieri come oggi e la sfrenata avidità dell’uomo portano in primo piano una decisa critica anticapitalistica, che si fa esplicita nella seconda parte.

 

Faust II regia di Nicolas Stemann

 

Tuttavia non c’è solo il discorso politico nella seconda parte del Faust; il regista in persona sale sul palco per spiegare allo spettatore quello che vedrà, tranquillizzandolo… se non capisce tutto, non è un problema, probabilmente lo stesso Goethe non sapeva quello che stava scrivendo. E proprio questa leggerezza conferisce a Stemann la carta vincente per la sua messa in scena. Il complesso materiale del Faust II e la consapevolezza di poterne restituire una visione parziale, rendono l’opera coinvolgente ed interessante per il pubblico, che attende con trepidazione il prossimo coup de théâtre.

 

Platonov regia di Alvis Hermanis

 

Al contrario, il Platonov di Hermanis risulta quasi “rivoluzionario” per la classicità della sua messa in scena. Il regista lettone, fedele alla sua poetica, inscena Cechov seguendo un iperrealismo quasi fastidioso. Ogni dettaglio è ricercato e studiato, i personaggi sono rinchiusi nel loro piccolo mondo antico, perfettamente separati dal pubblico da una quarta parete non solo ideale, bensì anche materiale: una vetrata che isola i personaggi dal pubblico e contemporaneamente pone le distanze tra i diversi personaggi. Si crea in questo modo un’atmosfera d’incomunicabilità, acuita dalla simultaneità dei discorsi, di modo che diventa difficile cogliere ogni conversazione, ogni singola battuta. Eppure la parzialità della comprensione – nonostante il testo di Cechov sia riprodotto integralmente – nulla toglie alla fedeltà di Hermanis all’originale. Anzi, è proprio la simultaneità e il sovrapporsi dei piani a dare l’idea di verità e a rendere così credibile il testo.

 

Come si sarà notato, sono due approcci diversi al testo: fedeltà e tradimento. Sono due modi opposti di fare teatro, entrambi validi. Ciò che conta, però, è che in entrambi i casi diventa significativo il lavoro sul testo. Anche quando si cerca di cacciarlo, il testo in qualche modo riesce a reintrodursi dalla finestra… e non è necessariamente un male.

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