Speciale

Campobasso e Termoli / Paesi e città

11 Luglio 2012

1. Quei tredici chilometri di curve fino a Campobasso erano un tormento. Nel vicoletto Sant’Andrea, un centinaio di scalini oltre la chiesa di San Leonardo, a metà strada per i Monti e il castello Monforte, ci arrivavo con lo stomaco ancora sottosopra.

 

 

La casa dei miei zii, povera come tutte le altre case intorno, era fatta di una piccola cucina, di un gabinetto e di una grande stanza. Oltre ai letti vi erano distribuiti un armadio, una cassettiera, un tavolo sul quale stavano appoggiati tagli di stoffa e orologi smontati in paziente attesa di un esito. Poi c’erano un pianoforte, chitarre, mandolini e anche trombe e clarini che lo zio avrebbe potuto suonare, se la malattia non gli avesse tolto il fiato. Arrivato il Corpus Domini, quella stanza si riempiva di parenti e amici, perché quel giorno tra un’enorme folla stordita dal caldo, dai richiami dei venditori ambulanti, dal clangore delle bande che intonavano la marcia del Mosè di Rossini, dalle esortazioni delle mamme ai figli mascherati da angeli e diavoli e imbragati agli alti ingegni di acciaio, a Campobasso sfilavano i Misteri.

 

 

Da quella stanza bastavano cinque minuti per arrivare al cinema-teatro Ariston. La prima volta che ci andai proiettavano I cannoni di Navarone. Avevo sette anni; per il secondo film, di cui non ricordo il titolo, ne aspettai altri sette. Oltre all’Ariston, in quella città che Manganelli nel Lunario dell’orfano sannita chiama “l’Atene d’Italia”, c’erano, a distanza di poche decine di metri, anche il Modernissimo e il teatro Savoia, dove l’aristocrazia campobassana si era familiarizzata con l’opera. Non molto lontano c’era l’Odeon, che occupava un angolo di quello che era stato il palazzo della Gioventù del Littorio.

 

Dall’ottobre del 1968 a Campobasso dovetti andarci ogni giorno, ma non soffrii più il mal d’auto. Marinavo spesso la scuola che i miei avevano scelto per me e scoprivo a poco a poco la città. La marinai anche il 13 dicembre del 1969, quando, seduto con alcuni amici ai tavoli di un caffè, a pochi passi dal “grattacielo” – l’ingombrante esito di una delle prime speculazioni nel centro della città –, mi passò davanti agli occhi un gruppo di capelloni inseguito da un gruppo di poliziotti. Di lì a poco, nello sconforto di mio padre e mia madre, alla passione per i capelli lunghi aggiunsi quella per la politica.

 

 

L’ampio corso, la spina dorsale della città murattiana, era sempre animato. Al mattino a folti gruppi sciamavano dai pullman i paesani e dagli uffici pubblici i funzionari e gli impiegati, che dopo il caffè, tra una “vasca” e l’altra, discorrevano di sport o di politica, di come favorire un parente o un cliente per un concorso, un posto in ospedale, una pratica. Molti ostentavano nella tasca della giacca il giornale, ripiegato in modo che la testata si leggesse per intero: “Il Tempo”. Quasi tutti votavano per la DC, la “demograzia”.

 

Di quella città, sconosciuta fuori dai confini del Molise, si parlava solo nelle previsioni del tempo, perché d’inverno era spesso, con Potenza, la più fredda d’Italia. Agli inizi degli anni Settanta conobbe un’improvvisa fama: proveniva infatti dalla sua “zona” il messaggio di Radio Londra che Alto gradimento, il programma ideato e condotto da Arbore e Boncompagni, diramava su tutto il territorio nazionale: “Lu mazzamaurielle de la morge allatta ‘u citele chi’ zizze”. (Se in Molise ci sarà mai, un qualche giorno, una rivolta o un’insurrezione – e ce ne sarebbe bisogno –, potrebbe essere questa la parola d’ordine.)

 

 

2. Come in tutto il resto della regione, a Campobasso i comunisti e i socialisti erano pochi; a volte coltivavano di nascosto la propria fede politica e poteva capitare che votassero per la DC, perché, più a ragione che a torto, credevano che gli sguardi arrivassero fin dentro le urne. Prima o poi, d’altronde, tutti dovevano chiedere un favore. Per esempio, per lavorare nello stabilimento aperto agli inizi degli anni Settanta dalla Fiat nell’entroterra di Termoli. Con quell’evento e con una quindicina d’anni di ritardo rispetto al resto del paese iniziò il “miracolo molisano”.

 

I lavori per la costruzione della Bifernina, iniziati negli anni Cinquanta, si conclusero con l’imponente diga di Liscione e un lungo e costoso viadotto steso sul lago artificiale. La nuova strada consentì ai campobassani di abbandonare la tormentata statale 87 e iniziò l’epoca delle vacanze di massa nella variante locale: quella dei “bagnanti di Montorio”. Erano chiamati così, dal nome di un paese dell’immediato interno, quelli che andavano al mare la domenica dai termolesi vecchi e nuovi. Non godevano di molta stima nemmeno i borghesi campobassani, foggiani e persino beneventani che si andavano provvedendo di una seconda casa al mare: alcuni, i più facoltosi, nei villaggi cresciuti intorno a Termoli, ancora in vista del castello svevo; gli altri negli anonimi palazzi a più piani dell’afosa spianata di Campomarino Lido.

 

 

Proprio lì, dalla metà degli anni Sessanta, ai due lati della lunga pista utilizzata dall’aviazione alleata per rifornire di armi e vettovaglie le truppe impegnate a Cassino, erano cominciati a spuntare palazzi sugli orti e sui campi di angurie la cui fama giungeva fino a Trieste. In fondo alla pista opportunamente asfaltata era stata costruita la Conchiglia azzurra, che rimase a lungo l’unico stabilimento balneare del luogo, anche quando i villeggianti erano diventati migliaia.

 

La Fiat occupava – e occupa ancora – più o meno un quarto dell’area del “nucleo industriale”, un vasto pezzo di terreno pianeggiante e fertile. Fu costituito un apposito consorzio – con tanto di cariche politiche e di relativi emolumenti – con il compito di amministrare il nucleo e favorirvi l’insediamento di altre fabbriche. Ma intorno alla Fiat prosperarono le erbacce e solo a metà degli anni Ottanta arrivò, tra molte polemiche, una piccola fabbrica chimica imparentata con la Union Carbide. Termoli passò velocemente da 6/7000 a più di 20.000 abitanti, diventando il centro economico e politico molisano: per lungo tempo, dei tre deputati eletti dalla DC al parlamento nazionale – su un totale regionale di quattro –, due furono termolesi. Intorno alla bella città vecchia – il borgo marinaro – affacciata sul mare e all’ordinata appendice novecentesca sorsero fabbricati di ogni tipo, civili, commerciali e turistici, che colmarono anche la striscia di terreno stretta tra la statale Adriatica e il litorale. Fu forse per un involontario omaggio a quello scempio, oltre che per evitare le spiagge più affollate, che per diverse estati sfruttai, insieme ai miei amici, la magra ombra proiettata dal muro di cinta di una brutta villetta che sembrava essersi spiaggiata per una robusta mareggiata.

 

 

Ero anch’io allora un bagnante di Montorio e non potevo sapere che dopo qualche anno mi avrebbe colto lontano dal Molise quello che chiamarono “riflusso” e mi avrebbe lasciato proprio sul quel litorale. Familiarizzai con il mare e una fortuna non so se più insperata o inesperta mi concesse belle amicizie e per un po’ anche un minuscolo appartamento conosciuto come la “stanza del prete” al primo piano di un antico palazzo della Campomarino vecchia, la Këmarini costruita dagli albanesi su uno sperone di roccia diverse centinaia di anni prima. La mia presenza in quel luogo era precaria, ma intanto vedevo in lontananza il mare e avvertivo di notte il rado passaggio dei treni; all’orizzonte distinguevo il profilo del Gargano e delle Tremiti e dalle finestre entrava il profumo delle zagare e il suono della lingua arbëreshë. A volte camminavo tra le dune che si spingevano verso Lesina, al confine con la Puglia. A farmele conoscere fu uno spirito locale, che mi guidava spesso, di notte, alla scoperta di quel territorio.

 

3. Teatri e cinema del centro di Campobasso sono chiusi da anni, sostituiti da un multiplex sperduto nella cosiddetta zona industriale. Ci sono ancora i Misteri, ma i bambini appesi agli alti ingegni d’acciaio paiono meno resistenti al caldo e ai sussulti e i loro genitori sono più apprensivi. A Termoli vecchia, ormai svuotata dei suoi pescatori, trafficano sulla facciata romanico-pugliese del duomo, forse per ottenere un bianco che quella facciata non ha mai conosciuto. Al posto delle dune di Campomarino c’è un porto turistico, il cui senso mi sfugge. Mi sfugge anche il senso di molte altre cose che mi capita di osservare quando ogni tanto faccio ritorno da quelle parti, per esempio la scomparsa di edifici, marciapiedi e muri realizzati, con commovente perizia, dopo il rovinoso terremoto del 1805.

 

 

Dal terremoto dei primi anni Novanta – quello, beninteso, che fece crollare il sistema politico nato con la repubblica –, la “demograzia” nel Molise non c’è più. Il regime oggi in vigore è più adeguato ai tempi, anche se i tempi sembrano essere quelli della Bielorussia. Però il Molise ha un’Università le cui sedi, per non scontentare nessuno, sono sparse lungo le direttrici costituite dai tratturi. Forse così i cervelli, quando dovranno emigrare, lo potranno fare inscenando una versione post-moderna del ver sacrum.

 

Nel terremoto – quello vero – del 2002, nella scuola elementare di San Giuliano di Puglia morirono quasi trenta bambini, uccisi dal crollo di un unico pesante solaio appoggiato da poco su fragili pilastri di mattoni. Nel post-terremoto il PIL regionale è cresciuto, ma non ne ha giovato né il patrimonio urbanistico e monumentale, né quello civico. In compenso la regione si è dotata di altri monumenti per celebrare l’interesse privato, la sciatteria e lo spreco.

 

 

Ma al di là di tutto quello che qui si va dicendo, o proprio per quello, al viaggiatore che volesse sincerarsi dell’esistenza di un luogo chiamato Molise consiglierei di farlo d’inverno, quando la neve copre parte del lavorio degli ultimi cinquanta anni. Oppure quando è sereno e la nebbia si alza dalle valli lasciando in vista, come atolli di un arcipelago, solo le cime dei rilievi più alti. E il viaggiatore può anche ignorare, perché lo fanno anche i molisani, che su quelle cime, a cominciare da quelle del Matese, ci sono ancora i resti di città, santuari, fortificazioni che i sanniti edificarono tra boschi e pietraie, con discrezione, quasi a voler dissimulare il loro ingegno.

 

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