Genova / Paesi e città
Scrive Friedrich Nietzsche (Rapallo, 1877): “L’inverno seguente vivevo vicino a Genova, in quell’insenatura quieta e graziosa di Rapallo, intagliata tra Chiavari e il promontorio di Portofino. Non ero nel miglior stato di salute […] Eppure, quasi a riprova del mio principio, secondo cui tutto ciò che è decisivo nasce “nonostante tutto”, il mio Zarathustra nacque in quell’inverno e in quelle sfavorevoli circostanze. La mattina andavo verso sud, salendo per la splendida strada di Zoagli, in mezzo ai pini, con l’ampia distesa del mare sotto di me; il pomeriggio, tutte le volte che me lo consentiva la salute, facevo il giro di tutta la baia di Santa Margherita, arrivando fin dietro Portofino. […] Su queste due strade mi venne incontro tutto il primo Zarathustra, e soprattutto il tipo di Zarathustra stesso: più esattamente, mi assalì”.
Essere assaliti da un’idea, dal progetto di un libro profetico e assoluto, è possibile solo in un momento di magica “sospensione”, all’interno di un paesaggio propizio alle visioni come il paesaggio ligure, caratterizzato da una luminosità mai tranquilla, ma sempre mutevole. Il filosofo tedesco aggiunge: “Udite il sogno che sognai, o amici, e aiutatemi a interpretarlo! Un enigma è per me questo sogno. Il suo significato è ancora nascosto”. Chiarire un pensiero oscuro, interpretare un’immagine problematica, è compito di una luce non estiva, non assoluta, ma increspata dalla variabilità.
Al suo arrivo a Genova nel 1901, Paul Klee annota nei suoi diari: “Arrivo a Genova di notte. Il mare al chiaro di luna. In camera entra un’aria magnifica. Atmosfera severa… Case alte, fino a tredici piani, vie strettissime nella città vecchia, fresche e maleodoranti, di sera una fitta folla, durante il giorno quasi solo bambini. I loro panni sventolano come bandiere di una città in festa. Cordicelle tese da una finestra a quella di fronte. Durante la giornata sole pungente in quelle viuzze, riflessi metallici del mare, dovunque una luce abbagliante… Come andava gradatamente sparendo lontano la grande Genova notturna, disseminata di luce, assorbita dal chiaro di luna, così come un sogno trapassa in un altro…”.
Non è, quella di Klee, la Genova sognata da Flaubert, “una città tutta di marmo con dei giardini colmi di rose” da cui lo scrittore si allontana con strazio e malinconia, ma una città fitta di vicoli, misteriosa e stretta, dove è impossibile abitare con certezza il proprio territorio ma, al contrario, è più naturale vivere da nomadi, senza diritti su nulla, passeggeri del proprio stesso viaggio. “Esiste la volontà di ritrovare in Liguria il senso di una storia mitica e di trasformare questa categoria del mitico in segnale di verità storica e geografica incancellabile…(Antonio Porta)”. Questa verità è essenzialmente “poetica”, atemporale, inattuale. Campana ne è il principale testimone quando offre al lettore il paesaggio mai placato, visionario e surreale, dei suoi Canti orfici. (Ombre di viaggiatori / vanno per la Superba / terribili e grotteschi come i ciechi. […] Canta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda sorgente la mare: / Genova canta il tuo canto).
Scrive Sigmund Freud (Vienna, 1917): “Un paziente mi prega di consigliargli un luogo di cura in Riviera. Conosco un luogo adatto vicinissimo a Genova, ricordo anche il nome del collega tedesco che vi esercita, ma non riesco a nominare il luogo per quanto sia certo di conoscerlo bene. Non mi resta che chiedere al paziente di attendere e ricorrere alle donne di casa: ‘Come si chiama quel posto vicino a Genova dove il dottor N. ha una piccola clinica dove è stata in cura per tanto tempo la signora Tal dei Tali?’. ‘Naturalmente proprio tu dovevi dimenticare questo nome: si chiama Nervi’. Devo riconoscere che coi nervi ho abbastanza a che fare”.
Il paradosso di un luogo come Nervi – luminoso, marino, salubre, propizio alla cura e al riposo – è quello di portare inscritto, nel suono del proprio stesso nome, l’inquietudine dei “nervi”, la spia del disagio psichico. Il “mancato ricordo” di Freud è una riflessione sulla suggestione ambigua del nome. Spesso l’uomo gioca, necessariamente e drammaticamente, con il potere suggestivo della finzione.
Un prigioniero russo, nei campi della Kolyma, fu costretto a rimanere chiuso in isolamento per diversi anni nel perimetro di una cella strettissima. Obbligato a guardare sempre e soltanto gli stessi muri senza neppure il sollievo di una matita per disegnare o di una penna per scrivere o di un qualsiasi foglio per tracciare un diario delle sue sofferenze, decise di fissare uno di quei muri e costruirvi, giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, stanza dopo stanza, scala dopo scala, un castello bellissimo, creato dalla sua immaginazione. Quando venne ritrovato e salvato, non mostrava particolari sintomi di sofferenza psichica. Si era salvato la vita, per diciannove anni, proteggendosi da un’angoscia che avrebbe fatto impazzire chiunque, costruendo, con il potere della mente, dettaglio dopo dettaglio, con favolosa lentezza, questo castello fantastico. Un nuovo ordine voluto dall’immaginazione - una finzione personale, un gioco vero - aveva combattuto il disordine e l’orrore imposti dalla realtà. Un luogo invivibile aveva spinto a creare una finzione ricca di vita, una “rappresentazione contro la morte”.
Scrive di Genova, nel 1910, Paul Valery: “Si cammina nella vita complicata di questi profondi sentieri come si entrerebbe nel mare, nel fondo nero di un oceano bizzarramente popolati. Sensazioni da racconti arabi. Odori concentrati, odori ghiacciati, droghe, formaggi, caffè abbrustoliti… Rapidi passanti sulle lastre segnate dallo scalpello”. L’idea di un mistero, di una complessità, di un fascino ‘segreto’ percorre le pagine dell’autore di Le cimetière marin. Altri viaggiatori occasionali, transitati da Genova, accennano ripetutamente allo stesso fascino. Nietszche, parlando di Ecce Homo, la sua opera scritta alle soglie della follia, scrive: “Quasi ogni frase del libro è stata ideata, pescata in quel guazzabuglio di scogli vicino a Genova, dove io stavo solo e scambiavo ancora segreti col mare… Ancora oggi, se per caso prendo in mano questo libro, quasi ogni frase è un lembo e, se lo tiro, traggo sempre dalle profondità qualcosa di incomparabile…”.
Genova è vicoli, scogli, odori – una bellezza magica che però viene sempre fuori da qualcosa di segreto. Non è solo un caso se, nella riflessione nietzschiana, gli scogli vengono equiparati a dei “guazzabugli”, cioè a dei disegni, a degli scarabocchi, a quelli che sembrerebbero “schizzi dell’immaginario”. Viene in mente che l’identità più segreta della città e del paesaggio ligure sia proprio quella di restare luogo che favorisce l’eccitazione, l’astrazione, la fantasticheria, iscrivendosi nella mappa di un “fantastico” reale.
Lorenzo Pittaluga, poeta ligure che ha conosciuto la follia e il suicidio, scrive:
“Tu dai ragione alle lettere / più brevi / quelle mai spedite / quelle mai sopite / nel contributo di mente e cuore. //Insegna loro la pietà / dei vivi / rénditi tangibile / reca la tua cura sulla pagina /da dimenticare - da vivere”.
Le “lettere mai spedite”, “mai sopite”, quindi inquietanti, diventano, per il poeta, la “cura” stessa. Una cura che si compie proprio attraverso parole tangibili. Così, ancora una volta, il “sogno di una scrittura” smette di essere sogno irreale, paradiso remoto, e si fa pagina vera, traversata da incubi, verità “mitica e inattuale” che l’artista ha il dovere di mettere in luce dopo esserne stato assalito.