Marina di Lizzano / Paesi e città

22 Novembre 2011

Ogni estate la solita storia. Il turismo sembra impennarsi a giudicare dalla moltitudine di individui che, macchina fotografica alla mano, immortalano il mare. E invece no, son sempre gli stessi. Lo dice anche il PIL. Marina di Lizzano è una frazione di Lizzano, un comune in provincia di Taranto, che dista dal capoluogo 40 km. Fatevi un giro per le strade della città dei due mari, sottraete a chicchessia un telefono integrato di fotocamera e troverete almeno un’immagine del mare nostrum nel software. Ogni volta, vederlo, è come fosse la prima. I nordisti che ci hanno onorato della loro presenza, sanno di cosa parlo. Più di un forestiero mi ha interrogato incredulo sul perché cotanto ben di Dio non fosse valorizzato a dovere. Sempre la stessa solfa, la loro; sempre la stessa reazione la mia: sguardo basso e alzata di spalle. Marina di Lizzano non ha nulla da invidiare al mare dei Caraibi. Sì, lo so, dà molto più lustro alla propria immagine un “vado al mare ai Caraibi…” piuttosto che a Marina di Lizzano, concordo. Chi passa di qui, di rado dimentica quei colori, quei silenzi, quegli odori, quei sapori.

 

Non sono posti dove si rimane, ahimè. Sono posti in cui si è ospite pago solo per un tempo preciso e limitato; poi si va sempre via. Il litorale salentino è confuso, variegato caotico. Si alternano spiagge libere a spiagge private. La spiaggia pubblica è praticamente attaccata a quella d’elite. Le separa una staccionata di legno. Osservare le due realtà e non rimanerne ipnotizzati è praticamente impossibile ed è più istruttivo di un qualunque studio scientifico o documentario socio-antropologico. Quelle libere sono prese d’assalto dall’alba fino a tramonto inoltrato. Sono la meta ideale di genti che si portano dietro ogni tipo di vitto e alloggio. Dove per alloggio intendo tende da campeggio, ombrelloni, sedie e sdraio di ogni tipo, forma e colore. E dove per vitto mi riferisco a tutto ciò che di commestibile esiste per appagare l’appetito dalla prima colazione, allo spuntino, al pranzo, alla merenda e all’aperitivo. La cena, strano ma vero, si consuma all’interno del focolare domestico.

 

Osservare il rito del pranzo in spiaggia porta a farsi una solenne domanda: come è possibile rimanere in vita trangugiando tutte quelle vettovaglie? I più attenti alla linea e al marketing territoriale procedono con numerosi piatti di friselle che inumidiscono con acqua jonica (salata ma non troppo) e che condiscono con pomodorini pachini scarlatti, poi un filo sottile sottile d’olio e una nevicata d’origano. Il sale non serve, ci hanno pensato il mare e le dita di salsedine a condire. Vista e olfatto sono già sazi. I più viziati sostituiscono le friselle con le bruschette di pane di Laterza. I pastaioli hanno munizioni di pasta al forno che “guai se non la finisci tutta!”, a costo di rischiare una congestione! I bambini sono lì solo per sguazzare tra flutti e onde, costruire castelli di sabbia al limite della licenza edilizia, ma le mamme, no! Non transigono. Quando scoccano le 13.30 si mangia. E il bagno solo dopo 3 ore e mezza, lo dice l’enciclopedia medica! Si ingozzano mamme, nonne, mariti, bambini e poi tutti sotto l’ombrellone a guardare il mare smaniosi di tuffarcisi dentro. Ma bisogna aspettare i tempi della digestione.

 

I carnivori hanno con sé tutto l’occorrente per la grigliata. Gli uomini governano il fuoco che diventa presto brace; la griglia portatile è pronta ad accogliere enormi quantitativi di carne. Quell’odore porta il silenzio su interi chilometri di litorale. Gli amanti del pesce seguono lo stesso rituale, cambia l’ospite da immolare sull’altare travestito da brace. Tutti i pasti terminano alla stessa maniera, con l’anguria. Immensa, vermiglia, dolcissima e piena zeppa di noccioli che sono la giusta pena da espiare per gustare quella delizia. Alla fine i piatti e le posate di plastica, i rimasugli, le cartacce, scatolame e recipienti di alluminio finiscono in antiestetici bustoni neri. Raccolta differenziata, questa sconosciuta.

 

 

Parafrasando Tolstoj potremmo dire che tutte le famiglie invernali si somigliano; ogni famiglia è estiva a modo suo. Al contrario delle spiagge private, qui la parola d’ordine è iperattività. Le signore curano il proprio spazio come fosse la cucina di casa. Preparano, rammendano, apparecchiano, sparecchiano. I signori fingono di seguire i figli ed invece pedinano colorati gruppetti di giovani single radical chic che, munite dell’ultimo libro di Murakami, nelle spiagge dei fighetti non ci mettono piede. Le comitive di intellettuali squattrinati contemplano il paesaggio e discutono di come la speculazione edilizia stia, anno dopo anno, distruggendo il lavoro perfetto di madre natura. I loro padri, il più delle volte, di mestiere fanno gli speculatori edilizi.

 

Pasti esclusi, in tutte queste ore le attività principali dei giovani (categoria che oggi va dai 17 ai 47 anni) sono, e lo dico dopo attenta osservazione empirica, lettura impegnata, lettura leggera, leggerissima e peso piuma. Dibattiti intrafamiliari, politici, sentimentali, sociali ed economici. E poi gossip. Molto gossip a soggetti alterni: vip e comuni mortali. Il pathos e l’empatia sono identici, cambiano solo i soggetti che in un caso fanno parte del jet set e nell’altro della propria cerchia di familiari, amici e conoscenti. E poi c’è lo sport. Nelle spiagge pubbliche tutti si riscoprono campioni di qualche sport e se non lo sono, lo diventano di certo nell’arco di un’estate: beach volley, beach tennis, beach soccer, nuoto, nuoto sincronizzato, corsa, pesca subacquea, vela, surf, rafting, acroland. D’inverno non ci si alza dal divano neanche sotto minaccia di morte, d’estate, incredibilmente, ci si atteggia a raffinati atleti.

 

Le spiagge private invece sono piccole oasi paradisiache ben recintate. Ombrelloni grandi e accoglienti. Lettini e sdraio in tinta. Musica d’atmosfera. Personale sempre pronto a soddisfare ogni richiesta. Zona solarium. Elegante bar e tavola calda. In queste spiagge si parla di meno e ci si concentra di più a non sbagliare l’abbinamento costume-scarpa-pareo. C’è il bar, sì, ma al massimo ci si concede la mousse di caffè, il mojito, un tè freddo con cedrata, grandi piatti di frutta tropicale. Le tradizioni si rispettano meno da quest’altra parte della staccionata. Niente sport. Le uniche attività fisiche prevedono il mettere e rimettere la crema solare, adagiarsi sul lettino o sul materassino che è rigorosamente in tinta con il costume! Ogni lettino ospita il proprietario, un tablet e un palmare. Qui la parola d’ordine è connettività. Si scrive, si chatta, si telefona, si mandano compulsivamente interminabili messaggi, si fotografa e si condivide passo passo tutto quello che accade sul web. La pagina di facebook viene costantemente aggiornata con tanto di foto e tag. Guai a dare false coordinate geografiche, si viene smascherati al primo aggiornamento di stato. La privacy, questa sconosciuta.

 

Mandrie di donne curatissime, con manicure e messa in piega appena fatta si confrontano sulla propria condizione civile. Uomini depilati e lucidi osservano, con sigaro in bocca, il sesso opposto a metà tra l’annoiato e il timoroso. Il massimo che l’interazione prevede è qualche fugace scambio di sguardi. Breve, brevissimo e fuggevole. Di solito interrotto, sul più bello, dal trillo del telefono o dal bip di un sms. Evidentemente quello che succede, o potrebbe succedere, via etere deve essere percepito di gran lunga più interessante. A torto.

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