Lerici / Paesi e città

10 Giugno 2011

Una volta a Lerici c’era il mare.

Giuro, ne ho le prove, come dice Arminio. Il mare e altro, ma adesso occupiamoci solo del mare.

Come faccio a dirlo? Beh, quando qualche volta ritorno là e, come mia abitudine, mi frugo nel naso (Federico!!! Almeno fallo che io non ti veda! La Signora, la pianista) mi sembra di sentire sempre quel misto inconfondibile di puzzo d’alga e carcassa di granchio in decomposizione. E le mie narici dilatate e sgombre riaprono, come Sesamo, il mondo perduto dei Ravatti ( lericino, in italiano ‘ciarpame’, ‘res nullius’ in latino), roba che noi bambini trovavamo poco sopra la battigia dopo le mareggiate e nascondevamo nelle nostre favolose tasche (e poi nei cassetti, fuori dagli sguardi indiscreti della summenzionata).

 

Chiamarla roba è forzato: un niente, un tempo, appunto, qualcosa una volta con una forma e una funzione, ora trasformate, resa irriconoscibile dal mare: prima sasso grigio e poi barattolo di Coca Cola (non stupite, a Lerici, nel ’45, aveva già fatto la sua comparsa una delle prime avvisaglie della nuova invasione barbarica, tecnologica questa volta, tanto più subdola perché dolce come i cioccolatini che si offrono all’infanzia per approfittare della sua ingenuità, naturalmente); prima, a colpo d’occhio (ah, il colpo d’occhio perduto!), stecco di albero rosa, ma rosa pallido, ciliegio giapponese, e poi spazzolino da denti; prima strano pomodoro di mare cristallizzato, duro oblungo e poi…non so se siete preparati, tenetevi, qualcosa che ho riconosciuto solo dopo, ero già all’università: un vibratore!

 

Ma insomma a mucchi li trovavamo, li trovavo (no, non solo vibratori) e ricostruivo il mio mare, un mare artificiale, ancora quasi naturale! Purtroppo quest’attività così distensiva l’ho dovuta interrompere: qualche anno dopo, ne avevo già quaranta, sono incappato in un certo Toni, inglese, che ricostruiva animali, figure, con quegli oggetti. Ma non erano consumati i suoi, solo rotti, niente sapore di mare, niente profumo, volgari. Disgustato da tanta pacchianeria ho smesso.

 

Seconda prova infantile dell’esistenza del mare a Lerici. Non ne sono ben sicuro però, perché era vicino ma non proprio lì dove mi trovavo io.

Bisogna sapere che all’epoca i ragazzi si organizzavano in bande: quei de S. Toenso contro quei de Lerse, quei de Bagnoa contro quei de Pugiua, quei de Soae, daa Sèra e de Teae non me li ricordo, ma eravamo comunque tutti contro tutti. Quelli di Lerici ce l’avevano soprattutto con noi della Vallata: ci prendevano a sassate quando tornavamo da scuola, appostandosi in alto sulla salita per Pugliola e noi in Tragià (tra la ghiaia) rimanevamo stretti fra le case e il filo spinato (Achtung Minen!). Un giorno sentiamo un gran botto: uno per prendere il vaporetto, aveva attraversato il filo ed era saltato. Ragionamento logico: se andava a prendere il vaporetto doveva esserci il mare! O no? Ma poi che allora ci fosse il mare mi sembra più che probabile: sulle spiagge oltre ai ravatti si trovava la balauxite: una specie di spaghetto giallo che infilavamo in cima a una barattolo vuoto per dargli fuoco dall’altra parte: partiva a razzo verso il primo passante, ammaccando barattolo e passante. Quest’ultimo naturalmente ci inseguiva, ma noi ce la filavamo all’interno: una lotta impari, conoscevamo il territorio.

 

Altra prova, adolescenziale a questo punto.

Abitava con noi una cugina e che cugina: sei anni più di me. Il massimo. La conoscevo bene: attraverso buchi di serratura, sorprese in bagno, ecc. Purtroppo mi dava solo lezioni d’inglese.

Un giorno, gennaio o febbraio, faceva freddo, passa da casa un amico di famiglia, tale Gentilino, qualche anno più di lei e penso attirato dagli stessi motivi miei. Approfittando del sospetto, gli chiedo il piacere di farmi fare un giro coi miei amici sulla sua barca a vela ancorata a Lerici e il sospetto viene confermato dal fatto che me lo concede subito: forse un po’ gentilino lo era, ma più probabilmente pensava che dopo la lezione l’occasione avrebbe allontanato facilmente moccolo e suo supporto. Gli amici dovevano partire dal molo e venirmi a prendere al Colombo. Non mi ricordo la lezione (in inglese ero una frana e del resto, sarà stata la questione dell’invasione barbarica o della coca cola, lo sono ancora adesso) e poi ero impaziente: continuavo a guardare dalla finestra se vedevo avvicinarsi la barca con Severino e Corrado. Niente. Liberata la cugina nelle mani del Gentilino, scendo di corsa in strada e sono investito da più voci che gridano: gian scufià, gian scufià. Non capivo, ma arrivato al porto mi vengono incontro i due, tremanti di freddo e di paura, e circondati da un sacco di gente con gli occhi fuori dalla testa. La tramontana aveva portato al largo la barca, per fortuna colandola a picco. I pulcini se l’erano scampata, tutta Lerici si era mobilitata per ripescarli, e intanto Gentilino ha avuto il tempo di fare gli affari suoi. Che invidia ho provato!

Ma non pensate male, per i due amici. Avevano saggiato da vicino il mare, quello vero, quello invernale, mentre io mi ero lasciato sfuggire l’uno e l’altra. Quindi anche questa è una prova della Sua esistenza.

 

Quarta prova: in un viaggio a Corfù, ero già maturo, nuotando nel greco marimprovvisamente mi son sentito immerso in quello della Caletta subito dopo la guerra. Lo giuro, era lo stesso: romantico, anzi mi correggo, neoclassico. Limpidissimo però: da noi allora, a venti metri sul fondo si vedevano delle colonne (romane) e i saxa attorno, rauca di assidue carezze del Sale, sonabant. Ce l’ho ancora oggi nelle orecchie, Palinure.

 

L’ultima è legata a un ricordo quasi maturo, poco dopo il mare sarebbe scomparso all’orizzonte.

Era notte. Mentre leggo Vecchi versialzo lo sguardo, che in una poesia è sempre attirato dalle finestre, e lo colpisce l’alfabeto morse del Tino. Tre brevi e una lunga, tre brevi e una lunga e così di seguito, monotona, la sua cadenza si riflette sulla superficie calma che mi separa da lui.

La triangolazione è stata automatica, omai la navicella del mio ingegnofa rotta dall’altra parte di Monterosso, ma il faro la guida in una navigazione non meno intensa: quel ritmo mi è rimasto dentro, fa parte del mio corpo, pulsa con lo stesso morse tutte le volte che ritorno al natio suolo per cercare le Ossa di Shelley (quelle disperse dal mare davanti alle Apuane, nel suo ritorno a S. Terenzo).

Le benedette spiagge, che concedendoti l’amore, la libertà e i sogni senza catenenascondono la nostra fine, sono sparite, passate alla memoria: tutte le volte che cerco di alzare lo sguardo oltre la distesa di motoscafi e di bateaux,ivres di canzonette altisonanti (la mia casa isolata a Falconara, a sessanta metri d’altezza, ne è una vittima predestinata), oltre le chiazze di morchia giallognola scaricata dai suddetti, oltre le folle vocianti e struscianti sull’antico Tragià, insomma tutte le volte che alzo lo sguardo, di notte e d’inverno, siamo seri, poeti almeno una volta, in fondo siamo nel loro Golfo, tutte le volte che alzo lo sguardo, ribadisco solo d’inverno e solo di notte, che alzo lo sguardo in quella direzione, solo nella direzione del punto atono, baluginante dall’altra parte delle Ossa, ricordo:

 

A Lerici c’era il mare.

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