Genova / Paesi e città

15 Settembre 2011

Beati coloro che hanno un’identità. Che è come credere in Dio o giurare viscerale fedeltà al luogo in cui nascono, con forza ne avvertono il senso di appartenenza. Figli di una terra precisa, si sentono immigrati, emigranti, diversi, in un qualunque altro luogo che non sia quello di nascita identificandovi il punto del loro equilibrio psico-fisico. Perché il punto d’equilibrio, per loro, è riconoscersi in un dato punto geografico. Beato chi se ne va e poi torna, come insegnano le antiche narrazioni, secondo una circolarità di percorso, di disegno immaginario di una spirale. Certo che chi torna non si troverà mai allo stesso punto di partenza, lui e il luogo sono cambiati insieme. È l’andamento circolare del tempo, che vediamo inciso nei tronchi degli alberi.

 

Qualcuno ha definito il momento del ritorno come un “salto di ottava” (musicalmente parlando). E qualcuno, alludendo a questo salto, allude addirittura a un’altra dimensione, estrema – come quella traversata dal revenant che, se torna a raccontare, sa che mai potrà essere inteso. O finirà pazzo, come il vecchio marinaio di Coleridge. Lo stesso Coleridge, in un frammento dai suoi Notebooks, scrive: “Nessuno può saltare sopra la sua ombra. I poeti saltano sopra la morte”.

È questo “soprassalto”, questo alludere all’altrove, il vero luogo d’origine di tutte le creature viventi. Il tempo, non più quello circolare degli antichi né quello lineare degli illuministi, va solo a zig zag o a balzi e rimbalzi.

 

Rilke liquidò il problema dell’identità assegnando la sua Heimat alla poesia e dando al resto importanza secondaria. Fu nomade di lusso, sempre straniero. Comunque preferì inventarsi un’aristocrazia, al posto della sua famiglia carnale e del suo luogo di nascita. L’immaginazione, dunque, crea tutte le identità desiderate quando, al posto di questa identità, si avverte un vuoto, un abisso. Di quanti eteronimi si rivestì Pessoa (e non solo lui) per colmare proprio questo vuoto?

E se la mancanza non si avverte? Del nostro luogo di nascita non ce ne occupiamo né preoccupiamo. La sua storia e ancora di più la sua cronaca ci lasciano fondamentalmente indifferenti.

 

Genova fu ed è splendida, sia coi muri scrostati e priva del Porto Antico di Renzo Piano, sia con i grandi palazzi restaurati dai soffitti mozzafiato, i nuovi bar coi loro dehors, le nuove trattorie della sua piccola rive gauche – impensabili solo una decina d’anni fa. Le è solo cresciuta la consapevolezza di essere veramente un porto d’incrocio tra Oriente e Occidente. Al centro del Mediterraneo.

Ma quante città sono punti d’incrocio tra Oriente e Occidente? Sono punti d’incrocio di qualcosa? Tanti, troppi. I luoghi d’origine non si contano. “Vedo origini dappertutto” – afferma un amico. Come dire non ne vedo nessuna, se è vero quanto afferma Eraclito: “L’Origine ama nascondersi”.

 

 

Quando un luogo emoziona, ecco che ci diventa familiare, sentiamo di possederlo e inglobarlo nella nostra cosiddetta “identità”, che è molto elastica tanto quanto la memoria.

Solo la memoria, appena viene attivata, attraverso sentimenti come la nostalgia e il desiderio, sa creare e ricreare un luogo e trasformarlo. Perché lei è sempre infedele. Ma è la sua infedeltà a costruire la sua profondità.

 

Genova è quella rimasta impressa nei miei occhi di bambina. I bambini non vedono i dettagli, vivono di sensazioni, di percezioni. La mente emotiva è analfabeta e quando si diventa vecchi lei torna a quello stato infantile, a quella magia dell’origine, e cancella tutto il resto come insignificante.

È il vissuto dei primi anni di vita che resta in noi come radice d’appartenenza. Origine e centro di noi stessi. Se abbiamo buona memoria o se, con un atto della volontà, davvero la vogliamo conservare.

La memoria va e viene, scava buche, si nasconde e riappare non evocata, si effonde in rivoli proprio come il movimento del mare contro la spiaggia.

Questo è il movimento naturale, come è movimento naturale il vento e la musica ne è la duplice metafora.

 

I solenni palazzi che da tempo sono stati ridipinti forse adesso assomigliano a quelli visti da Goethe quando, la prima volta, entrando con la nave, in porto, ne rimase per sempre incantato. Era reale o immaginata quella Genova tanto fiabesca ed era reale o immaginata quella che è ancora rimasta, dalla mia infanzia, visione per me?

Chi nell’infanzia è segnato a fuoco da certe visioni diventa una specie di fossile di se stesso: vive in un tempo astorico, pietrificato (cioè encantado), in contraddizione con la mobilità del mare e del vento che lo spingono a sciogliersi, ad andarsene, e lo inchiodano all’inafferrabilità del desiderio e della visione.

È l’inafferrabile legge del cuore e cioè del ricordare. Per non obbedire a quella legge occorrerebbe comportarsi come Ulisse con il canto delle sirene. La cera però, sopra gli occhi.

 

Mare e vento possono interrompere la monotonia di una casa come della vita. La “calda vita” era fuori, era quel mare mutevole e quel vento che turbava, stravolgeva i nervi, ma che insieme davano il ritmo, il respiro intenso e variabile della vita.

La sua celebre Ode al vento occidentale Shelley la scrisse non sotto un cielo marino, ma stranamente sulle rive dell’Arno, che ne ossigenò i polmoni e i versi. Un poema oceanico, simile a un Largo, un Andante con moto.

 

Thou who didst waken from his summer dreams

The blue Mediterranean, where he lay,

Lulled buy the coil of his crystalline streams

 

Chi è andato sulle tracce di questa enfasi visionaria e sinfonica è Giuseppe Conte, in particolare nel suo irripetibile L’ultimo aprile bianco. E il lericino Angelo Tonelli che, non a caso, abita nel Golfo dei Poeti e con versi lunghi e ondulanti si culla nel mito di un Mediterraneo in assonanza con l’Egeo, da grecista appassionato.

 

 

I poeti liguri, in genere, furono più legati alla loro terra aspra e salina che non all’elemento marino e ventoso, ma il desiderio che non conosce identità era comunque presente: versi asciutti e duri, come questi di Camillo Sbarbaro (Pianissimo) e di Giorgio Caproni (Sirena), sono solidi e frastagliati come gli scogli selvaggi delle coste e vibranti e misteriosi come i vicoli intricati della città.

 

Stracci di nebbia lenti

e ceneri d’ulivi.

Quasi a credere stenti

che vivi.

(Pianissimo)

 

La mia città dagli amori in salita,

Genova mia di mare tutta scale

e, su dal porto, risucchi di vita

viva fino a raggiungere il crinale

di lamiera dei tetti…

(Sirena)

 

Nessun poeta che nasce in “luoghi di pianura” avverte così istintivamente la necessità di trasmettere ai propri versi l’eco di questo doppio movimento. Di questo andare e venire, cambiare registro, muovere strofe, accenti, allitterazioni, come se appartenessero a quell’ariosa e inquieta partitura-tessitura che è l’arte della Variazione.

 

L’unico vero viaggio che mi sono concessa da poeta nata a Genova – dato che per il resto ho obbedito alla morfologia della città che ha le spalle protette dalle colline come le avevo io dalle pareti domestiche – è stato il tentativo di trasmettere nei versi quello spartito musicale naturale. Ma i traduttori tradiscono, si sa. E la scrittura – e ancora di più la poesia – è il tradimento stesso, per chi vuole attribuire alla metafora la sua centrale identità. Ci si aggira intorno all’aria che respiriamo, mai pacificati, e con lei dobbiamo cercare di increspare e far salpare il foglio. 

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