Gibellina / Paesi e città
Sono di Gibellina, paese della valle del Belìce distrutto dal terremoto del 1968. Mio padre non c’era al momento del sisma, studiava all’Industriale di Mazara del Vallo, faceva con i suoi compagni di scuola le prime prove di ‘68, anche se un ‘68 casalingo, ingenuo e casinista. Mia madre era in casa con i suoi genitori, i miei nonni; hanno lasciato tutto, di corsa, e sono finiti in una scuola, senza più niente. Il giorno dopo gli hanno portato dei vestiti e del cibo. Era gennaio e c’era la neve, a mia madre è venuta la febbre, mio nonno l’ha portata dal medico. Cinquemila lire, ha chiesto il medico, senza curarsi del fatto che non li avevano quei soldi, erano terremotati. All’epoca i miei genitori erano fidanzati di nascosto, e di nascosto ho letto le lettere che si mandavano; lettere indirizzate a qualcun altro, per non farsi scoprire, dandosi appuntamento nei parchi, agli angoli delle strade. Vedersi dieci minuti ogni quindici giorni. Si sono sposati sei anni dopo; mia madre aveva un vestito da sposa in tessuto sintetico, quando le ho chiesto di farmelo vedere si è vergognata, non ha voluto, dice che vuole buttarlo prima o poi. Sono andati a vivere in una baracca. Era abbastanza scomoda; per il caldo e il freddo, ovviamente, per la mancanza di spazio e di privacy: le cose che si sanno delle baracche, non sono certo delle case vere, anche se questa poteva sembrarlo. C’era tutto, non mancava niente. Quando sono nata mi hanno messo a dormire in una stanzetta piccola e senza finestre, ma io non me lo ricordo. Dicono che quelli sono stati gli anni più belli della loro vita, ma i miei ricordi cominciano solo quando siamo arrivati nel paese nuovo. Avevo tre anni e Gibellina nuova sembrava un corpo umano senza braccia e senza gambe.
Non so raccontare molto della vita nel paese ricostruito, forse solo descrivere alcune cose, anzi, alcuni spazi: le piazze incompiute, il teatro non finito, il lago artificiale vuoto, un centro espositivo inaugurato una volta e poi dichiarato inagibile, il museo d’arte contemporanea, un’infilata di stanze umide in cui i quadri dipinti da Schifano nell’82 si stanno lentamente disfacendo mentre i magazzini traboccano di opere abbandonate ma che non c’è spazio per sistemare altrimenti, il tetto della chiesa crollato prima ancora dell’inaugurazione, una piazza chiusa da tre lati che danno su altrettanti disastri dell’architettura locale; è stato qui che anni fa ho assistito a un indimenticabile interpretazione di Postkarten di Sanguineti accompagnato da Scodanibbio: da allora non è stata più utilizzata, e a mala pena ci passa qualcuno. Nella mia memoria ci sono ricordi memorabili come uno spettacolo su T.S. Eliot di Robert Wilson, o le Troiane di Thierry Salmon, o la memorabile Orestea dell’88 sul Cretto di Burri, ma è come se il memorabile non riuscisse a scacciare dalla mia testa l’immagine del disastro, l’idea che l’arte davvero non possa, malgrado la sua buona volontà, risanare le ferite di una comunità traumatizzata e dislocata. Come per tutte le ferite ci vuole tempo, già lo vedo che i ventenni ne soffrono meno e parlano del vecchio e del nuovo con disinvoltura ammirevole, come se lì fosse tutta pelle sana. (Sono sicura che neanche Alberto Burri lo pensava, che l’arte poteva cicatrizzare le ferite della natura e della storia: la sua faccia mentre cammina per le strade del Cretto di Burri non dice le parole: riscatto, redenzione, sviluppo; è la faccia di uno che riconosce il luogo da cui è venuto, il momento in cui tutto ha avuto inizio, e per la gioia del riconoscimento non riesce a trattenere le lacrime. D’altra parte, non capita tutti i giorni a un artista di incontrare l’origine del suo mondo).
A volte mi viene da pensare che Gibellina sia una specie di esperimento alieno malriuscito. Lo dimostra il fatto che, fino a poco tempo fa, nella torre della piazza c’era un dispositivo che aveva sintetizzato al computer le voci del banniatori – i venditori di frutta e verdura per le strade dei paesini siciliani. Il risultato era straniante, agghiacciante – urla disumane a ore prefissate, uno shock per i turisti. Dopo l’insediamento nel paese nuovo gli abitanti si sono rinchiusi nelle loro case, si sono disinteressati all’arte e al teatro, hanno smesso di andare per le strade e in piazza – d’altronde strade e piazze erano troppo grandi, troppo strane da camminarci dentro – e si sono chiusi nelle loro case – case sempre più grandi. Molti sono andati via, molte case sono state abbandonate. Se è vero che Gibellina è speciale, che ha una sua stranezza affascinante come potrebbe esserlo un occhio bicolore, è anche vero che se ne vergogna a morte, come se non chiedesse altro che essere normale e noiosa come tutti gli altri posti del mondo – quelli senza trauma, o dove i traumi sono lontani nel tempo. Gibellina è un’immagine di me.
Quest’anno, il 2 agosto, Ludovico Corrao, il sindaco della ricostruzione post-terremoto, è stato ucciso dal suo badante bengalese. Il ragazzo prima lo ha lavato, poi ha quasi finito di vestirlo, quindi lo ha quasi sgozzato e infine gli ha tagliato la pelle dei polsi: un rito di purificazione asiatico, un gesto di rispetto e premura che stride terribilmente con la violenza inferta. Ancora contraddizioni e ambivalenze in vita e in morte di un uomo che ha speso tutta la sua vita per un progetto culturale di cui oggi vediamo le crepe, molte, ma anche ciò che resta e dura nel tempo, e che nonostante l’incuria e il disinteresse dell’attuale classe politica non può essere dissipato tanto facilmente. Mentre aspettavamo il feretro mi sono ricordata di una foto di lui – sarà stato l’inizio degli anni ’70 – alla testa di un corteo di gente che protestava per la casa; aveva la fascia di tricolore ed era bello come un attore del cinema: era il loro capo-popolo, la voce forte e istruita di un uomo pieno di autorità che era nato poverissimo ed era diventato importante. In quel momento era uno di loro, ma era anche la voce che gli mancava; una sintonia che è durata anni, almeno fino a quando sono arrivate le case a cui abbarbicarsi; in quel momento la sua funzione storica è sembrata esaurirsi. Mentre aspettavo la bara avevo un timore sciocco: avendo sempre avuto un’idea piuttosto sacerdotale di Corrao temevo che la comunità non lo riconoscesse, che lo rifiutasse, che non gli tributasse l’omaggio che meritava, sulla scia del disamore degli ultimi anni. Quello che volevo, insomma, era una sorta di scioglimento del nodo, dato che quello e non un altro era il momento in cui il sacerdote odiamato e la città ferita potevano incontrarsi ad armi abbassate, e se non fare pace, almeno riconoscersi nel dolore. La sua città lo ha pianto come si piange un padre, senza parole inutili; questo non scioglie i nodi, ma senz’altro apre e chiude qualcosa.
Quest’estate sono tornata sui ruderi di Gibellina vecchia con Isabella e suo figlio. Ci siamo infilati in una delle case rimaste in piedi dal terremoto: una casa a tre piani. Al piano più alto c’erano solo vetri rotti e finestre rotte, allora siamo scesi e lì, in mezzo a un’enorme stanzone vuoto e abbandonato, c’erano delle finestre spalancate e un tavolo enorme. Al piano più basso c’era un armadio dai cassetti aperti e, per terra, centinaia di sacchetti per biscotti. Vuoti, mai usati: abbiamo capito che quarant’anni fa questo doveva essere un panificio. Poi, subito a sinistra, uno stanzone che doveva essere stato un magazzino: cassapanche, una guida dell’Umbria aperta alla pagina di Sulmona, bottiglie vuote, formine per biscotti. Incredibile pensare che in quarant’anni nessuno abbia spostato nulla, che tutto sia rimasto fermo a quel giorno: non sembra neanche possibile che il passato possa non spostarsi di un millimetro. Abbiamo attraversato dal basso verso l’alto il Cretto di Burri, che ogni volta mi sorprende per quanto è ripido; poi, mentre scendevamo, abbiamo incontrato un fico gigantesco che non avevo mai visto prima. E allora ho avuto di nuovo quella sensazione: che ai margini del disastro possono crescere alberi altissimi pieni di frutti, e che la natura e il tempo, in fondo, sciolgono da sé i loro nodi.