C'è una vita prima della morte?
C’è una vita prima della morte?, in corso di pubblicazione presso l’editore Erickson, raccoglie una lunga conversazione tra Riccardo Mazzeo, editor della casa editrice, saggista, autore con Zygmunt Bauman di Conversazioni sull’educazione (Erickson 2012), e Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista, noto in Italia per il volume L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli) e per L’elogio del conflitto (Feltrinelli). Benasayag, di origine argentina, è stato membro della resistenza contro i militari del suo paese; catturato e sottoposto a torture, fu salvato solo per la nazionalità francese della madre. Risiede in Francia, dove ha pubblicato numerosi volumi; l’ultimo, Organismes et artefacts (La Découverte), è dedicato alla necessaria convivenza con gli “ibridi”. Al dialogo partecipa in alcune parti anche Jean-Michel Besnier, filosofo, docente alla Sorbona; di lui è stato tradotto di recente L’uomo flessibile (Vita e Pensiero); Besnier si è occupato dei temi del “transumanesimo” ed è una delle voci più critiche rispetto al “nuovo uomo aumentato” proiettato verso la cancellazione della morte. C’è una vita prima della morte? affronta i temi del rapporto tra vecchi e giovani nell’Occidente contemporaneo, segnato da legami fluidi e rapporti virtuali, e dalla negazione dell’età anziana e dallo smarrimento di quella giovanile.
Pubblichiamo qui il primo capitolo del volume, per cui ringraziamo l’editore Erickson.
Riccardo Mazzeo:
Questo dialogo nasce dalla tua partecipazione al 5° Convegno Internazionale sulla Qualità del Welfare «La tutela degli anziani. Buone pratiche per umanizzare l’assistenza» organizzato dalle Edizioni Erickson e svoltosi a Rimini il 18 e 19 ottobre 2013. Avevi tenuto una conferenza così stimolante che non potei evitare di chiederti se volessi scrivere un libro sull’argomento, e allora tu mi invitasti a venire a Parigi per passare qualche giorno con te e affrontare l’argomento insieme a casa tua, allargando il campo alla fragilità umana e alle conseguenze che il dispositivo impazzito e autodistruttivo della contemporaneità ingenera non solo su coloro che si avvicinano nei termini del proprio stato civile alla morte, ma anche sui giovani che rischiano sempre di più di perdere l’opportunità di rivestire il proprio ruolo nella società: una società che, votata alla sopravvivenza, lascia da parte la vita.
Amour, Michael Haneke, 2012
Di fatto, la condizione anziana che, per tutto il corso della storia, ha implicato non solo l’indebolimento delle forze fisiche e talvolta mentali ma anche la considerazione, il rispetto e sovente la venerazione da parte delle generazioni più giovani, ha subito in questo tempo, quello che tu hai definito nel tuo libro più famoso L’epoca delle passioni tristi, un brusco cambiamento di prospettiva che si è manifestato nella perdita dei cicli di vita. Ne parlavi facendo riferimento al rapporto insegnante/alunno: prima si portava al proprio maestro un rispetto che era intrinseco al fatto che fosse nato prima, e che possedesse quindi l’esperienza, le conoscenze e l’illuminazione che una vita più lunga doveva necessariamente incarnare. Questo postulato trovava la sua conferma nella «modernità solida», ma con l’avvento della nuova stagione, quella che Zygmunt Bauman ha chiamato «modernità liquida», caratterizzata da una estrema individualizzazione e dalla perdita delle certezze che esistevano nel mondo ordinato in cui avevamo sempre vissuto, il rispetto per chi è nato prima si è polverizzato, è evaporato, sia nel rapporto insegnante/alunno, sia in quello genitore/figlio, sia nello sguardo che si rivolge a chi sia divenuto vecchio. Un tempo i propri vecchi erano la fonte a cui non era neppure pensabile rinunciare, a cui i figli si abbeveravano nei momenti di indecisione; era evidente che il loro consiglio sarebbe stato prezioso, era quasi «naturale» che una loro parola potesse avere ragione dei nodi esistenziali o finanche pratici più resistenti. Si guardava ai vecchi con una mescolanza di timore reverenziale e di affetto riconoscente per il fatto stesso che ci avessero messi al mondo, che si fossero presi cura di noi e del nostro benessere, per averci cresciuti, per la loro vita così articolata e così ricca degli eventi che avevano vissuto.
Chiederei dunque a te e a Jean-Michel Besnier, che è con noi oggi, di cominciare a parlare dell’argomento.
Miguel Benasayag:
Comincerei con un piccolo aneddoto. Lo raccontavo prima a Jean-Michel. A nord-est, dove si trova la regione india del Brasile, arrivo con tre francesi in un villaggio indio, indio al cento per cento. Arriviamo e il consiglio degli anziani ci riceve nella casa della comunità. Sono tutti lì e c’è un’anziana signora che è il capo del villaggio — un villaggio del genere non è una tribù. Allora entriamo, i tre francesi e io, e procediamo verso questa signora che è il capo. Ci seguono trenta o quaranta giovani, che entrano dopo di noi nella casa della comunità. Uno dei tre francesi comincia a parlare e dice: «Sono molto contento che ci siano tutti questi giovani ad accoglierci». Di fatto, però, in un villaggio indio, l’onore richiederebbe che fossero gli anziani del villaggio ad accoglierci poiché gli indios ritengono che i giovani siano immaturi e debbano prima assoggettarsi alle loro prove. Una cosa è dire ciò che faranno, altra cosa è vedere che cosa succederà quando avranno raggiunto «l’altra sponda del fiume».
Questo francese ha offeso tutti, ricorrendo a una prospettiva che è un luogo comune in Francia, ma anche in Italia, in Argentina già meno, e cioè quella di considerare che un soggetto, o una riunione, o un gruppo funzioni se vi sono dei giovani. La questione da sviscerare è: ma che cosa succede con queste persone che, in Europa, sono diventate dei «vecchi» e non sono più degli «anziani»? Che società è quella che revoca la valorizzazione della scultura della vita di qualcuno che ha vissuto a lungo, che è la scultura nel corpo, nella memoria corporea, nell’esperienza, nelle ferite, nei punti di forza? Che cosa è successo nella nostra società per far sì che, quando si guardano le persone anziane, non si veda altro che la perdita delle possibilità, la perdita della potenza o qualcosa che semplicemente dice: «Ti restano pochi colpi in canna»? E allora, qual è la perversione di una società che, a dire il vero, nel suo disprezzo per i vecchi nasconde a fatica l’annientamento dei giovani? Giacché, di fatto, a questo branco di vecchi che non ha fatto che invecchiare, corrisponde una massa di giovani, biologicamente giovani, ma ai quali non si permette più affatto di essere dei giovani che corrispondano a una società con dei cicli, cioè dei giovani che vivono insieme a dei vecchi.
Che cosa significa essere un giovane? Un giovane è qualcuno che esplora i «possibili» per i quali la vita non corrisponde a un viaggio organizzato, vale a dire qualcuno che non considera la vita come una linea, la linea più corta, quella che comporta il minimo sforzo, ma che al contrario è qualcuno che si spende. Come direbbe Canguilhem, un uomo sano, dall’organismo sano, preferirà sempre seguire la sua natura, seguire il suo destino, piuttosto che proteggere la sua vita e la sua salute fisica. Dunque qui si parla di una salute sia esistenziale, sia organica: ora, in effetti, nella nostra società, ciò che mi sembra interessante notare, parlando della vecchiaia, e parlando piuttosto dell’auspicio di una società in cui gli anziani riescano a resistere, è vedere come, se non vi sono più anziani, ciò dipenda dal fatto che non vi sono più neppure giovani, e come la nostra società terrorizzi e disciplini i giovani impedendo loro di seguire la propria natura.
Up, Pete Docter, 2009
È un po’ come la famosa storia dello scorpione e della rana. Lo scorpione punge la rana, la rana gli chiede perché, visto che in questo modo moriranno insieme nel fiume, e lo scorpione le risponde: «Non posso farci niente, è la mia natura». Lo scorpione pungendo la rana salva la sua essenza, altrimenti sarebbe uno scorpione transgenico, non sarebbe più lui. Dunque, oggi, tutti i diktat liberticidi, di oppressione della vita, tutti i diktat più orribili sono diktat che dicono: «Non pungere la rana. Non pungere la rana». Ma la questione che si pone è allora: che cosa resta dello scorpione che non punge la rana, che non segue la sua natura? Che cosa resta del giovane che — io l’ho constatato personalmente in psichiatria infantile — a partire dall’età di sei o sette anni non fa i compiti e si sente dire: «Sai, la vita è dura, sarai disoccupato». E allora che cosa vuol dire questo? Me ne rendo conto tutti i giorni. Nel mio studio di psicoanalista non ricevo più molti giovani adesso, vedo pazienti di tutte le età, ma mi capitano genitori che sono disperati perché il loro figlio non prenderà il diploma. E mi viene da pensare che è davvero incredibile, perché dei genitori possono fare a pezzi il loro figlio immaginando che sia molto pericoloso che passi uno, due, tre anni di vagabondaggio, di percorsi obliqui? Dal canto mio, quel che vedo in un dialogo, in una riflessione condivisa sulla vecchiaia, è questo: un mondo in cui tutti i cicli vengono soppressi e in cui la forza della tecnica, la forza orizzontale, sincronica della tecnica fa sì che, di colpo, tutti gli individui funzionino allo stesso ritmo.
Jean-Michel Besnier:
Quello che dici non ci fa forse constatare che facciamo prevalere il progetto sulla vita? Pensiamo alla vita in termini di progetto. E ciò vuol dire che, per certi versi, si aggiorna sempre l’esistenza a un momento successivo, ci si trova in una dimensione un po’ sacrificale, si dice ai giovani: «Fate degli sforzi oggi, domani sarà meglio, noi che siamo più anziani ci troviamo già in quella dimensione». Dunque, a partire dal momento in cui si fa della vita un progetto, si suppone che in un certo momento vi sarà un punto finale. E il vecchio, lui, non è più nel progetto, è squalificato da questo punto di vista. Quando dicevi che in fondo si vuole che lo scorpione sia fedele alla sua natura, è come se vi fosse un’essenza e l’essenza dovesse realizzarsi, mentre di fatto gli indios del tuo villaggio non fanno della vita un progetto, essi fanno della vita qualcosa che è dell’ordine del ciclo, dove è il ritorno delle stagioni a scandire gli eventi. Da questa prospettiva, non vi è mai una gerarchia fra i vecchi e i giovani. Il vecchio ha forse un privilegio poiché ha già conosciuto i cicli, ed è per questo che non ci si trova nella posizione di poter squalificare il vecchio in questi villaggi e che stupisce lo si possa fare in altri contesti. Credo però che la dimensione prevalente della nostra società sia quella di una perpetua fuga in avanti. La modernità è proprio questo, una fuga in avanti. Tutto sarà migliore domani. E in quanto il vecchio ha contribuito a far arrivare questo domani, viene tollerato, ma a partire dal momento in cui non si trova più nel processo, in questa fuga in avanti, in questa sete di innovazione, beh, è fuori dai giochi.
Miguel Benasayag:
C’è solo un punto su cui credo che non mettiamo in risalto la stessa cosa. Secondo me, quando lo scorpione punge, non è nel progetto ma nella realizzazione della sua essenza. L’istantaneità del progetto sarebbe che uno scorpione, invece di essere quel che è, proiettandosi nel futuro trovasse più interessante non pungere. Per il resto quello che dici è fondamentale poiché permette di comprendere un po’ quest’idea di progetto, che è l’idea attraverso la quale viene sottratto continuamente il presente.
Per questo motivo dicevo che, in verità, la questione della vecchiaia è un dispositivo di analisi che consente di comprendere come si rubi in continuazione il presente di questi giovani, i famosi giovani di cui si parla. Il progetto si traduce nell’impossibilità di abitare il presente.
Quanto alla questione dell’«anziano» — io pretendo di essere un «anziano» e non un «vecchio» — vi racconto un aneddoto che ho vissuto mentre ero invitato da alcuni giovani cattolici che ogni tanto mi chiedono di far loro visita per parlare insieme. È accaduta una cosa incredibile. Un giovane — sono giovani cristiani, idealisti — mi fa una domanda. Loro vogliono sempre parlare della resistenza, della lotta armata contro i militari, quelle cose là. Io, sinceramente, non credo di essere una persona che sfrutti molto il suo passato. Al tempo stesso, però, l’esperienza della guerriglia e della prigione mi ha formato più di qualunque diploma. Dunque, un giovane mi dice una cosa incredibile: «Non capisco, da un punto di vista costi/benefici, il fatto di opporsi con le armi alla dittatura. Vi opponete alla dittatura perché volete una democrazia, ma che cosa succede se vi uccidono? Investite tutta la vostra vita, nell’ottica costi/benefici, rischiando di non ottenere un profitto equivalente al vostro investimento». È fantastico, giacché questo pensiero che consiste nel dirsi, concretamente, «ma quanto mi devo sbattere oggi rispetto a ciò che mi aspetto?» è proprio ciò che ci impedisce di abitare il presente. E la verità è che il vecchio è davvero nella merda, poiché se si pensa che l’oggi non conti e che la sola cosa che conti sia il domani, il vecchio, che non è più un anziano, è formattato come tutti in un presente immediato in cui la sola cosa che conta è il futuro, quindi il vecchio è fuori. Ma è proprio qui che è interessante vedere come, con questa perenne sottrazione del presente, anche i giovani siano fuori: i ragazzi sono fuori, gli uomini maturi sono fuori. È questo che è interessante vedere: come la vecchiaia palesi un meccanismo di sottrazione permanente. Non si abita mai il presente.