Cina: editori, che si fa?
Dunque ci siamo arrivati. Gli editori di tutto il mondo trovano sulle loro scrivanie proposte allettanti di provenienza cinese: contributi di traduzione, pubblicazione e marketing. All’apparato degli Istituti Confucio, presenti in tutto il mondo e già da tempo in tiro a promuovere cultura cinese all’estero, si affiancano mucchietti di soldini gratis che favoriranno la diffusione della letteratura, contemporanea e classica, del Paese di Mezzo.
La accresciuta influenza geopolitica va affiancata a una operazione di penetrazione culturale, che avrà esiti interessanti senz’altro, ma è mossa da un potere totalitario determinato a insegnarci ciò che è buono e ciò che non lo è. E’ capitato anche alla mia casa editrice: abbiamo accettato volentieri un nome interessante, un autore della generazione di Yu Hua e Su Tong, per intenderci, bravo ma meno conosciuto. Poi abbiamo ribaltato la situazione: abbiamo fatto noi due nomi di autori che seguiamo da un pezzo e di cui stiamo mettendo in piano editoriale la pubblicazione: la risposta è lapalissiana: ci dispiace, ma non fanno parte delle Associazioni degli Scrittori. Ergo: in tempi di crisi dell’editoria sarà facile trovare in libreria autori legati al potere centrale, autori che non disturbano il manovratore: gli altri costano. Cosa farà, ora, l’editoria europea e nordamericana?
Come Metropoli d’Asia andiamo avanti per la nostra strada: pubblichiamo chi ci piace, accettando anche la proposta ‘di stato’, perché quella ci piace anch’essa. Ma la posizione è debole: urge costruire una posizione comune, che consenta agli editori di non presentarsi in ordine sparso sapendo che l’occasione che non cogli tu, la coglierà qualcun altro.
Mo Yan
E’, questo, l’effetto a lunga del Nobel a MoYan. Ricordo un amico, scrittore di seconda fascia, dirmi: abbiamo passato due decenni invitando i più giovani a non iscriversi alle Associazioni degli Scrittori: ora a Stoccolma premiano il nostro autore più allineato. Non intendo tornare sul vespaio sollevato da quel Nobel, ma un fatto è certo: c’è un problema. Chi in Italia ha lavorato – leggi: preso contributi – con gli Istituti Confucio, anche in settori diversi dall’editoria, sa che nel momento in cui presenti la lista degli invitati dalla Cina vai a sbattere contro la risposta di prammatica: se c’è quello lì, noi non ci stiamo.
E’ strabico l’atteggiamento dell’occidente nei confronti della Cina. A un sostanziale disinteresse va ora sostituendosi un’attenzione che ignora le problematiche reali (la censura intellettuale e politica, la spoliazione totale di tutele welfare per una popolazione di migranti interni che ingrossa a dismisura le città e impoverisce le campagne, i ritmi di lavoro insostenibili), ma va a fare le pulci su questioni non fondamentali: e tali sono a mio parere il Tibet con il suo Dalai Lama, o l’inquinamento dell’aria di Pechino, o le restrizioni alla libertà di movimento di un Ai Weiwei (non se ne può più...) che noi conosciamo perché, in quanto artista visuale e performer, è premiato dall’industria culturale occidentale (muove un sacco di soldi, insomma).
E’ come se, preparandoci inconsciamente – o consciamente – a uno scontro che sarà aspro, stessimo apparecchiando le argomentazioni di più facile impatto mediatico. La Cina vuole, la Cina pretende il suo spazio, a ragione ma anche a torto: ogni mappa della Cina ‘ufficiale’ comprende, da qualche anno, isolotti del mar cinese meridionale a migliaia di chilometri dalla costa cinese, ma solo a poche decine da quelle malesi, vietnamite, e filippine: acque ricche di idrocarburi. Gli Stati Uniti cercano una pacificazione epocale con il mondo arabo e spostano i loro asset militari nel Pacifico occidentale: si tengono pronti. Giungerà il momento in cui – come ci accorgemmo da un giorno all’altro del velo dell’Islam – solleveremo alti lai per le schifezze che i fiumi cinesi scaricano in quell’oceano conteso: come fossero cannoniere, i nostri media, e la nostra indignazione. Ma intanto che si fa? Si accettano i diktat culturali?
Qui non è questione di fare i puri, magari per accrescere la propria visibilità in libreria: si tratta di fare qualcosa, e di incidere. Mi piacerebbe che gli editori occidentali, tutti insieme, chiedessero con forza, e ottenessero. Con poco show, ma abbondanza di risultati.
Le premesse non sono incoraggianti. A una recente Fiera del Libro europea, che aveva come ospite la Cina, le Associazioni degli Scrittori inviarono i loro autori. La Fiera decise di invitare anche qualche autore indipendente, e il risultato fu una fiera conferenza stampa di protesta nella quale gli autori ufficiali denunciarono l’accaduto: e la rabbia, non vi dico la rabbia, con la quale ancora oggi uno di questi autori indipendenti racconta del suo incontro con il vecchio amico Mo Yan, grande ma ufficialissimo autore, che si rifiuta di parlargli e stringergli la mano. E qui il problema è semplice: io, il nome di questo autore indipendente, posso farlo, o rischio di creargli dei problemi?
In sostanza – come diciamo dalle mie parti: a la fin de la fiera… – la posta in gioco è più alta di un generico moto degli affetti per la democrazia: qui si tratta della possibilità di farsi raccontare la Cina com’è davvero: che non è fatto solo politico, ma culturale: a me, pare necessità ed ecologia della mente. Perché c’è molto da dire, e da ascoltare per noi, di un paese la cui classe media percorre in due decenni lo spazio di sviluppo e mutazione antropologica che noi abbiamo percorso in cinque o sei generazioni. Un paese che è oggi un nostro specchio, perché sta affrontando tematiche nostre – da noi derubricate e congelate in qualche luogo comune – ex novo, tutto d’un botto.
Le nuove forme della famiglia, le relazioni tra classe media e lavoratori manuali poveri, la possibilità di un racconto di sé spesso soverchiato dai vecchi e nuovi media, la morale sessuale: tanto per nominarne alcuni. E qui ci vuole libertà di pensiero: non solo la libertà d’espressione, ma quella libertà più intima che è propria dello scrittore, che non ha filtri quando sceglie il proprio soggetto, quando si lascia prendere la mano dai suoi personaggi: e solo allora sa arrivare diritto al punto.
La parola, e sopratutto quella scritta, è sacra. Per difenderla, in Cina, servono i fatti.
Editori, che si fa?