Una conversazione con Maurizio Nichetti / Cinema, pubblicità, animazione, teatro
Maurizio Nichetti è un vero simbolo della convergenza tra i linguaggi della modernità, tutti da lui frequentati con lo stesso entusiasmo inventivo, senza pose autoriali ma mai in odore di "marchetta": al cinema così come in pubblicità e in tv, nell'animazione, persino negli eventi... senza contare il teatro, l'opera, il mimo e anche l'insegnamento, visto che in anni recenti dirige il Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano. Proprio lì lo abbiamo incontrato per un'intervista, pubblicata su Bill 13, della quale qui presentiamo una sintesi.
Cominciamo da Carosello. Marco Giusti scrive che il tuo esordio da attore in pubblicità fu nel 1971: Aperitivo Cora, per lo Studio Bozzetto...
Eh ma Giusti non è infallibile! Allora, il mio debutto è con tre soggetti per l'aspirina effervescente, per la Gamma film, sarà stato il '69-70: il signor Rossi e il signor Bianchi lottavano, poi a uno veniva il mal di testa che superava con l'aspirina. Quella fu la prima volta che ho visto la mia faccia in tv. A quel punto mi viene voglia di scrivere per la pubblicità, quindi comincio a propormi e lavoro per Pino Peserico (importante produttore di caroselli dell'epoca, ndr) che m'insegnò molto. Facemmo Stock 84 per Vianello e la Mondaini, per esempio. Facevo il copy freelance e portavo in giro anche le mie foto da attore. Un giorno le porto da Bozzetto per un lavoro e vedo sul suo tavolo una montagna di foto di modelli bellissimi. Capisco che non stavano cercando un comico, e allora, prima di uscire, dico a Bozzetto: se per caso non vado bene come attore, tenga presente che io scrivo pubblicità da freelance. Lui cambia faccia subito. Scopro che il giorno prima era andato via lo sceneggiatore. All'epoca non c'era la scuola che insegnava a scrivere pubblicità, per cui arriva uno che dice io so farlo e... insomma Bozzetto mi dice: ma lei domani mattina verrebbe a lavorare? In prova, gratuitamente. Io ho risposto: ma guardi che è il primo maggio. Sì ma noi abbiamo un cliente a Torino – era Saclà – che proprio per questo domani è più libero e sarebbe disposto a incontrarci. Dal giorno dopo comincio a lavorare alla Bozzetto come sceneggiatore, in prova per tre mesi. Sono rimasto otto anni, come sceneggiatore ma anche imparando a far la regia, a montare... di tutto.
Insomma un bell'impatto.
Avendo cominciato così, per me era tutto bello, era tutto nuovo, era tutto cinema, perché non avevo mai visto una pellicola. Peserico all'inizio mi aveva messo in moviola a vedere le pubblicità, dicendomi: guardatene un po' e poi me le scrivi. Io ho imparato così... poi sono andato da Bozzetto: di cartoni animati sei appassionato? Ho detto no. Allora anche lui mi ha messo in moviola e per sei mesi mi ha fatto vedere quelli suoi, quelli dell'est... E poi ho cominciato a scrivere. A me piaceva della Bozzetto la pubblicità ironica, comica, insomma quella dell'animazione... ricordo il lancio delle prime olive snocciolate Saclà e l'emozione con cui, per una notte intera in un teatrino in via Melchiorre Gioia, abbiamo snocciolato le olive di pongo lavorando al passo uno...
Cover Bill.
Come veniva considerata la pubblicità?
Per me era l'unico modo di fare cinema a Milano. Non mi sono mai posto il problema se ero di serie A o di serie B, se ero accettato come autore... non ho minimamente avuto questo tipo di problema. Ogni tanto incontravo registi come Pontecorvo, che fece una regia per Zucchi alla Bozzetto, o i fratelli Taviani i quali spesso facevano pubblicità, allora ecco il mio contatto col cinema era chi lavorava in pubblicità ma si guardava bene dal dirlo. Cioè nessuno sapeva che Olmi veniva dalla pubblicità e dal cinema industriale, o che la facevano Taviani o Pontecorvo. Era quasi una colpa. Finché la pubblicità non l'ha fatta Fellini, con i Rigatoni Barilla. A quel punto, se lui firma uno spot, lo possono firmare anche altri... ma negli anni settanta erano due mondi completamente divisi.
Poi nel 1977 sei il protagonista di Allegro non troppo di Bozzetto, incontro di film e animazione. Un'esperienza totale...
...che nasceva da questa factory meravigliosa. Bozzetto e Manuli erano ragazzi poco più vecchi di me, io avevo vent'anni loro trenta. Era una società nella quale il padrone, e i suoi amici, avevano ventotto, trent'anni e la manovalanza ne aveva venti: immagina l'atmosfera che c'era, oggi è impensabile una cosa del genere. Ho un ricordo meraviglioso di quel divertimento, di quella creatività, di quando per la prima volta Bozzetto ha detto: ma perché non rifacciamo Fantasia?
In questo c'è anche una grande ambizione.
Certo, e un gruppo di giovani che dicono "perché no?". Cioè se oggi arrivasse uno, in uno studio equivalente, a dire facciamo Il Signore degli Anelli o Toy Story, lo guardi e dici questo è matto. Invece allora lui aveva già fatto West & Soda e l'aveva venduto in tutto il mondo, aveva già fatto Vip mio fratello superuomo e come terzo lungometraggio aveva in mente di fare Allegro non troppo, ma siccome era un film molto complicato, abbiamo trovato le risorse con la pubblicità e facendo tre film di commissione sul Signor Rossi.
Poi comincia la tua avventura da regista di cinema, con Ratataplan, nel 1979.
Ma io non mi sono mai considerato l'autore sofferente che dedica la sua vita al cinema: mentre giravo Ratataplan facevo i servizi per L'Altra Domenica (programma tv condotto da Renzo Arbore, ndr) per cui finivo sul set e correvo a fare un servizio. Non lavoravo in pubblicità in quel periodo, perché ero andato via dalla Bozzetto e ho ricominciato nell'81, dopo Ho fatto Splash!, quando sono diventato autore e allora la Bozzetto mi ha richiamato come freelance.
Sì perché nella vita vera degli autori questa separazione non c'è...
Guarda, io in quegli anni lì ho fatto un'esperienza per me importantissima: dodici anni di convention IBM, in un'epoca in cui l'evento e la convention la facevano in due, Fiat e IBM. Adesso tutto è un evento, ma allora creare la convention dell'IBM Italia in Europa era una roba importante, lavoravamo tutto l'anno, avevo un'équipe di persone che lavorava solo con me e che tutto l'anno preparava tre giorni di lavoro ogni volta in un paese diverso dell'Europa e del Nordafrica. Tunisia, Marocco, Svezia, Germania, Spagna... e intanto stavo facendo i miei film per il cinema. Cioè facevo il lavoro di regista, però facevo anche le convention, i servizi per L'Altra Domenica...
Ho fatto splash.
Senza problemi di serie A o B, dicevi, ma anche sempre cercando di fare lavori di qualità...
Mi sono sempre divertito, ho sempre sperimentato. Cioè lo era fare un'oliva in plastilina oppure produrre un cartone animato misto a un girato dal vero, anche se era Coccolino o Kinder Pinguì, oppure gli Orsetti Sgranocchini che interagivano con un bambino... lì ho imparato a fare Volere Volare, non avrei potuto farlo senza decenni di tecnica mista in pubblicità.
E arriviamo a Ho fatto Splash! (1980), il cui titolo è un claim: film impregnato di cultura pubblicitaria.
Così come Ratataplan lo era di teatro. Avevo fondato Quelli di Grock, facevamo il mimo e come primo film non mi sentivo di dirigere degli attori che parlassero, allora cosa potevo fare? Mi sembrava una roba naturale, basata sulle mie esperienze... e così, dovendo fare un secondo film, ho cercato di attingere alle altre cose che avevo fatto negli anni prima: avevo fatto anche pubblicità... quindi ho usato quella parte lì. Dico la verità, era anche una mia sceneggiatura che non ero riuscito a fare... era la storia di un pubblicitario che attraversava la strada mentre passava una manifestazione e per sbaglio veniva arrestato come terrorista, però da tutto questo ne nasceva uno slogan che gli faceva far fortuna. Si chiamava Il Processo, perché era la storia di un capro espiatorio. All'epoca c'era Valpreda in carcere, c'erano dei riferimenti precisi. Anche se io non sono mai stato uno che ha fatto dei film politici, venivo dal movimento studentesco di Architettura, da quel clima. Questa prima sceneggiatura mi era rimasta in testa e l'ho, come dire, contaminata col cinema muto di Ratataplan, per cui ci sono anche molte sequenze mute...
In effetti nel film tu dici solo quel claim, quando partecipi alle riprese di uno spot.
Quella lì era vita vissuta...
Su quel set c'è anche un pubblicitario, un povero diavolo impegnato a portare a casa la pelle e il budget.
L'attore era simpaticissimo, un vero capo di un'agenzia, si chiamava Radicchio. Si è autorappresentato, ridendo di se stesso con molta bonomia. Come ho fatto anche con Claudio G. Fava in Ladri di Saponette, quando devo descrivere un mestiere, prendo uno che quel mestiere lo fa, uno intelligente, che capisca che non voglio prenderlo in giro ma enfatizzare qualcosa di suo. E che il capo dell'agenzia o l'account fosse asservito al cliente non ci piove, lo dico avendola fatta la pubblicità, non lo dico da fuori.
Poi c'è la scena della fiera campionaria: i protagonisti del film fanno da figuranti in uno stand dei Caschi Nolan.
I caschi Nolan non li ho scelti a caso, sono la mia prima regia pubblicitaria, che ho fatto nel '75-'76. E nasce tutto dal servizio militare... facevo la guardia insieme a uno che non conoscevo, ma tu chi sei, ma io lavoro in pubblicità, ma io lavoro alla Nolan, ma cosa fai alla Nolan, ma io faccio quello che fa la comunicazione, ah io lavoro da Bozzetto noi facciamo la pubblicità, ah ma...
Rataplan.
Ti sei procurato un cliente in quella situazione!
È nata così... era tutto molto naif... e siccome facevo il militare, ma nel frattempo lavoravo, la mattina dopo torno in Bozzetto e dico ho trovato un cliente, vuol fare uno spot però vorrei far la regia. Mi dissero ok, al massimo perdi un cliente tuo, perché non m'avrebbero mai fatto girare... fu la prima regia: vincemmo un Leone a Venezia. Da quel momento in Bozzetto ho fatto le regie.
Quindi quello stand Nolan è un omaggio.
Esatto. Subito dopo ho fatto un film industriale per la Nolan che vinse il festival del cinema industriale di Chicago, perché l'abbiamo fatto comico e però presentava bene il processo produttivo del casco. Allora io sono diventato il regista della Nolan che è diventata un'azienda mia amica... quindi, quando ho girato Ho fatto Splash, ho preso lo stand che avevamo costruito per la Nolan in fiera e non abbiamo dovuto farlo per il film...
Lì il tuo personaggio si è perso il '68 – ha dormito davanti alla tv per tanti anni, non l'ha vissuto – e arriva a cultura del consumo ormai accettata. Tu la tv l'hai anche fatta, non la condanni, ma ne denunciavi i pericoli. E oggi, che gli schermi si sono moltiplicati?
Oggi ci si può addormentare in tanti modi. Abbiamo moltiplicato le occasioni di rincoglionimento! Lo dico con simpatia, ma la televisione era già il tema del primo cortometraggio fatto con la Bozzetto che si chiamava "Oppio per oppio". La storia di uno che si avvelenava davanti alla televisione dimenticando tutto il resto. Il media è pericoloso. Io facevo la tv dei ragazzi e, qualsiasi cosa dicessi, la gente per strada mi fermava per commentarlo. Uscivo dalla sede di Torino, dove andavamo in diretta, prendevo il treno per tornare a Milano...
...e ti accorgevi della potenza...
...del potere che acquisivi, con una certa preoccupazione. Immagino che quelli che vanno in diretta tutti i giorni debbano avere un delirio di onnipotenza assoluto... quando ogni parola che dici il giorno dopo la dicono tutti, nel bene e nel male, questo è un potere vero! Io la tv l'ho fatta su Rete Quattro con Quo Vadiz. Era una rivista serale registrata e lì mi sono accorto che registrare la televisione era il delirio. Berlusconi non aveva ancora la diretta, dovevo fare due ore e un quarto di gag alla settimana in quattro giorni. Era come se facessi un film in quattro giorni!
Ladri di Saponette.
Però andò bene.
Sì ma io ero esaurito. Dopo dodici puntate Berlusconi voleva andare avanti ma io non potevo, non era Drive in, che aveva un format ripetitivo. Anche se avevo dei collaboratori, uno dei quali Salvatores. Perché Berlusconi ci dava il budget e poi ci lasciava liberi di fare quello che volevamo, per cui io dovevo gestire la produzione come se fosse una grande convention. Dopo dodici puntate dissi non posso più andare avanti perché avevo messo dentro anche i cartoni animati, avevo proprio rastrellato tutto quello che avevo fatto negli anni precedenti e di più non potevo, mi sarei ripetuto. Cosa che sarebbe stata la mia fortuna, farei televisione ancora oggi. A me però non sembrava bello, avevo l'ambizione – sbagliando – di non fare mai due volte la stessa cosa.
In sé non sembra sbagliato.
È sbagliato perché non è televisione.
Perché la televisione è seriale, intendi.
È seriale, vive di tormentoni, l'ha dimostrato nel tempo. Greggio è l'esempio assoluto di come la gente si affezioni a un modello intatto in venticinque anni, basta ogni anno inventare tre tormentoni nuovi... Quo Vadiz ancora oggi è un contenitore di idee da cui hanno attinto le idee per fare dieci anni di trasmissioni... Paperissima l'abbiamo inventata noi lì, la cassetta con gli sbagli. Ma l'abbiamo fatto una volta sola. Era un laboratorio di sperimentazione, solo che era troppo laboratorio! Poi ho fatto per due anni Pista! perché la televisione in diretta mi piaceva ancora di più, è meno alienante che girare un film in quattro giorni... però, fatto questo, l'offerta della Rai era: adesso lo fai tutti i giorni, e io non potevo caratterialmente, perché sarebbe diventata una routine, come oggi i format tipo L'Eredità, che hanno addirittura le telecamere computerizzate sempre sullo stesso movimento. La televisione si è evoluta così.
L'altro film importante per il tuo rapporto con la pubblicità è Ladri di saponette (1989).
Nel frattempo Fellini aveva fatto Ginger e Fred, nel quale dava della tv e della pubblicità una caricatura molto sua. Io non odiavo né la tv né la pubblicità perché le avevo fatte entrambe.
Il film fu finanziato da Fininvest. Eppure conteneva una polemica piuttosto esplicita contro le interruzioni pubblicitarie.
Allora, io abito a Milano. Avevo lavorato con Canale 5. Conoscevo Berlusconi. E Bernasconi, che all'epoca faceva cinema per Berlusconi. Per me era più facile andare da loro che alla Rai dove non conoscevo nessuno. Vado da loro, ma devo fare un film contro la pubblicità. Cosa gli dico? Quello che sempre creduto: non è un film contro gli spot, è un film contro la televisione che interrompe con la pubblicità i suoi programmi. E questo vale anche per la Rai, che all'epoca già metteva le interruzioni nel cinema, addirittura faceva il tg tra il primo e il secondo tempo.
Il film si svolge su diversi piani: c'è il finto film neorealista, le interruzioni pubblicitarie, lo studio tv nel quale sei stato invitato, il salotto di una famiglia che assiste al programma. Frammentazione degli schermi e della visione. È come dire che l'autore di cinema vive in un ambiente compromesso.
Che il suo film viene visto in un ambiente compromesso: con la luce accesa, mentre leggi il giornale, metti a letto i bambini, sparecchi, telefoni alla madre. Ma è inevitabile, non è colpa della pubblicità. È un dato di fatto... quando ti abitui a mischiare telepromozioni e spot, cinema e cronaca, tutto in una marmellata che viene fuori dallo stesso apparecchio, la gente ha un rapporto emotivo diverso con queste cose. Vede una strage al telegiornale, un film d'azione o una modella e non s'indigna più per le cose per cui si deve indignare, apprezza solo l'intuizione sul breve. In fondo è una fortuna della pubblicità, che è stata la prima frammentazione dell'immagine. Oggi quando lavoriamo per il web e ci dicono "non più di un minuto sennò la gente non lo scarica", per noi è normale, lo facevamo già negli anni settanta quando lavoravamo ai primi trenta secondi. In un minuto dici tutto, non hai bisogno di usarne quindici.
Da regista affermato però continuavi a girare spot pubblicitari. Anche allora tenevi tutto insieme.
Cosa che ho pagato. Questo tenere tutto insieme senza forme di snobismo mi ha... cioè io non sono il duro e puro, l'autore cinematografico che soffre per una sua estetica, e non sono l'autore pubblicitario di punta. Sono sempre stato uno che ha tradito quello che stava facendo. Facevo la tv ma non ero però un televisivo, facevo la pubblicità ma...
Questo è molto bello.
A me è piaciuto. Non vedo il problema nel fare cose molto diverse.
Ecco ma la domanda è: tu come ti definiresti?
Un curioso.
E un autore?
Sì, ma nel senso che sono autore delle cose che faccio, me le scrivo e me le penso, non sono l'autore con la A maiuscola da mettere in bacheca. Quando si dice "autore" si pensa subito a Bellocchio, no? Io non ho quella serietà che mi fa prendere sul serio le cose che faccio al punto da andare in giro a rappresentarmi come autore.
Ma sul tuo biglietto da visita cosa scrivi?
Non ce l'ho il biglietto da visita! Probabilmente proprio per questo motivo. Avevo solo un biglietto da visita con scritto "architetto", me l'ero fatto quando mi sono laureato. Ce li ho ancora tutti a casa...
Ora siamo al Centro Sperimentale, dove dirigi un corso di laurea in cinema d'impresa: mi pare che il rapporto con il mondo delle merci sia una costante per te.
Sto vivendo un fermento creativo che mi ricorda l'inizio della bottega di Bozzetto: è ripartito tutto dal basso, da ragazzi che attraverso nuovi canali ricreano a basso costo dei processi creativi. Vent'anni fa non potevi, perché per girare un film avevi bisogno della pellicola e di settanta persone di troupe.
Certo per i ragazzi l'esigenza di trovare maestri non cambia. Come fu Bozzetto per te.
È importante dare a questi ragazzi la possibilità di fare bottega, di conoscere qualcuno che i lavori ha imparato a farli tanto tempo fa ma non li insegna in maniera trombonesca. Che è la cosa più difficile, perché loro vengono trent'anni dopo quel che ho fatto io e se gli racconto le cose che ho già fatto, li annoio... devo dialogare, imparare da loro come comunicare la mia esperienza. È un salto mortale, ma anche una sperimentazione. E una cosa che mi tiene sempre di buon umore, ecco.