Come tutti, sono incuriosito
Nessun libro è antico. Ovvero: storie su come i libri sopravvivano a chi li ha scritti, a chi li ha letti e a chi li ha posseduti (anche senza leggerli).
Come tutti, sono incuriosito e guardo con molta, moltissima attenzione, come i libri vengono disposti nelle case, sugli scaffali, nei mobili, nelle cosiddette librerie, che diventano biblioteche private e piccole autorappresentazioni del mondo delle persone. E ancora oggi mi sembra che non esistano eccezioni, che questo modo peculiare di rappresentare se stessi sia in fin dei conti sincero e rivelativo di una forma di carattere, di una forma di visione del libro come oggetto tutto sommato ingenua, anche quando si presenta in forme estremamente sofisticate. Tutti gli Adelphi insieme in un’infilata inconfondibile, o tutti gli Einaudi. I Millenni, la Pleiade o, inusitata maraviglia, i Gettoni, raccolti con pazienza e diposti in numero crescente sullo scaffale dalla scrivania verso la porta. Io non sono mai stato un collezionista, se non per un breve periodo, sufficiente a farmi assaggiare la carne nera di quella vanità sottile che si espone senza esporsi mai davvero: lo sai, vero?, che tra tutti questi c’è uno Strindberg che non troverai ma nemmeno se pregherai con tutte le tue forze.
E quel Delfini, oh no, nemmeno a parlarne. Non mi è mai capitato di entrare nel posto dove le persone conservano i loro libri senza sentire, perché indotto, perché fortemente fatto sentire, un senso di timore e di gratitudine. Vieni, Giovanni, ora ti faccio vedere. Come se venissi messo a conoscenza di una stanza segreta, di un doppio fondo della vita degli altri nel quale non ci sono moglie o marito, figli e parenti, nel quale il mondo non è pervenuto o, al contrario, nel quale il mondo è così condensato che quasi lo si direbbe prossimo all’implosione. Vieni a vedere dove sono nato, ecco quello che dicono tutti quelli che mostrano la propria biblioteca. E ogni volta non posso mancare di notare che alcuni hanno natali nobili, gelosamente e narcisisticamente mostrati, mentre altri sono nati due minuti fa, o sono nati morti, o non sono nati affatto. Quando entro nelle loro stanze per comprare, io, che sono un estraneo, vengo messo al corrente di quasi tutto e, allo stesso tempo, mi sento relegato ad un ruolo che del tutto non mi appartiene. Quanto mi viene mostrato, mi viene esposto perché in vendita e, allo stesso tempo, ma soprattutto nel momento in cui sgrano gli occhi e dico Oh!, è come se fosse sempre sul punto di essermi sottratto, come se bastasse una sola parola per chiudere la trattativa e rimettermi alla porta. Ah, c’è una cartolina in quel Bataille? Aspetta che questa la tengo, che me l’aveva spedita mia figlia da Lipari mentre io dovevo andare ad Amburgo a un convegno di implantologia.
Chi vende i propri libri raramente lo fa per denaro. Più spesso, come dicono , è una questione di spazio. Devono liberare spazio, così dicono. Credo che affacciarsi ogni giorno di fronte alla finestra bianca degli scaffali pieni di dorsi di libri ad un certo punto chiuda la prospettiva e l’idea che quelli siano davvero libri e trasformi quella percezione in qualcosa di simile a un rimprovero e a una resa dei conti con se stessi. Non leggerò mai Arno Schmidt, non mi ricordo nemmeno quando l’ho comprato, adesso vendo tutto, cazzo. Poi, invece, di fronte alla separazione, di fronte al boia che mi tocca essere quando entro lì dentro, ecco che improvvisamente tutto riprende senso: ah, avevo ventinove anni e stavo scrivendo la tesi di dottorato a Perpignan. Sai che questo libro una volta circolava solo in edizione bilingue?, sì lo so. Ecco che esce tutto di nuovo, tutte le storie che non hanno voluto raccontare, le malinconie che hanno taciuto, gli auguri non spediti e i biglietti d’amore finiti a fare da segnalibro. Questo foglio l’ho cercato per anni. Ed era tutto lì, sotto gli occhi, pronto ad essere ripreso, risistemato. Vite intere dimenticate in una citazione segnata a matita, o contrassegnata da un pezzo di giornale piegato e infilato tra una pagina e l’altra. No, no, questo non te lo do. D’accordo, dico io. Ma poi, alla fine, dopo tutti i discorsi e i rimpianti anche quel libro finisce nella scatola, forse perché abbiamo bisogno davvero di fare spazio e di dimenticare. Di togliere ossigeno vecchio per immettere ossigeno nuovo, altri biglietti, altre cartoline, altri segnalibri. Legare la nostra storia ad altre storie, e forse a storie nuove, ad altri romanzi e ad altre teorie. Mi capita spesso di comprare libri da persone di quella generazione che leggeva Brecht e Pasolini mentre questi erano ancora in vita, o appena morti, e vedo chiaramente l’attaccamento e il malcelato rimpianto che hanno nel separarsi dai libri che hanno comprato e letto e sui quali hanno costruito una loro idea delle cose. Non necessariamente sono persone colte o che lavorano con la parola scritta. Eppure, in loro, quando mi dicono che hanno bisogno di liberare spazio, c’è qualcosa che torna fuori e riaffiora. E non è certo la malinconia del non avere più vent’anni, ma forse la tristezza nel vedere come tutte quelle parole per le quali avevano lottato e sofferto siano diventate, alla fine, soltanto spazio da liberare, metri di scaffale, contanti da incassare. Come dopo un tradimento, me li immagino sempre dietro la porta, con i soldi in mano, o mentre tornano verso la cucina per farsi un caffè e chiedersi: ma cosa ho fatto? È stato meglio così, si rispondono poi, tutti.
Ci siamo conosciuti esattamente 40 anni fa ti ricordi? E questo libro l’avevo in mano pensando di fare colpo su di te. Adesso sono 36 anni che ci amiamo. Ci avresti creduto? Alfredo.
Alfredo, senza saperlo, o senza avere voglia di saperlo, aspettava quella che sarebbe poi diventata sua moglie tenendo in mano la prima edizione della Signorina Else di Arthur Schnitzler. Lei, Elsa, per tutta risposta, lo ha sposato, lasciato, e venduto tutti i suoi libri.