Il nuovo volume della collana «Riga» / Conversazione con Max Ernst (1969)
La televisione ha trasmesso recentemente un vecchio documentario, in cui si vede Renoir che, quantunque paralizzato, continua a dipingere davanti al suo cavalletto, mostrando una evidente felicità. Che impressione ti ha fatto questa straordinaria immagine?
Ne ho concluso che Renoir viveva in quella felice epoca nella quale nessuna incertezza interveniva a far esitare il pittore, buono o cattivo che fosse, quando al mattino si armava della sua cassetta di colori, partiva alla ricerca di un “motivo”, si accingeva al suo compito e, contento di sé, rientrava la sera. Ciò che distingue Renoir e Bonnard dalla maggior parte degli impressionisti, o postimpressionisti, è il temperamento sensuale, voluttuoso e quella evidente e contagiosa felicità, di cui parli. Non voglio soffermarmi sulla differenza tra talento e genio.
Si tratta piuttosto di una specie di innocenza.
Gli impressionisti non sovraccaricavano la loro coscienza di inutili dubbi capaci di intaccare la loro tranquillità o la loro gioia di dipingere. Per contro avevano una convinzione che in loro era certezza: credevano all’infallibilità di quel piccolo schermo chiamato retina, punto d’incontro tra il mondo oggettivo e il mondo soggettivo. Il problema della realtà di questi due mondi non si poneva per loro. La retina era fonte inesauribile di gioia.
Vuoi dire che a quel tempo il dubbio filosofico non aveva ancora intaccato i pittori?
No, però quando ho esordito al Salone d’Autunno dello “Sturm” a Berlino nel 1913, la pittura, in piena reazione contro l’Impressionismo, non mi appariva già più come un mestiere, un rifugio o un piacere gratuito, ma come il prologo di una rivoluzione.
Nel 1913 Renoir aveva ancora sei anni di vita davanti a sé.
Egli aveva trovato la sua strada e raggiunto l’età della felicità. La rivolta non era il suo forte. Essa sarebbe esplosa in un altro ambito, in un’altra generazione e si sarebbe generalizzata, almeno in Europa.
Tu, dunque, hai avvertito la necessità di una rivolta. Chi, attorno a te, in Germania, condivideva allora questo atteggiamento?
Durante gli anni universitari a Bonn, ho potuto constatare tra i miei amici pittori, poeti, studenti e giovani professori, l’unanime convinzione della necessità di uno sconvolgimento generale. Ne ho parlato a lungo nei miei Ricordi renani.
[...]
Vorrei che tu mi parlassi dei tuoi rapporti con André Breton. Quando nel 1924, al tuo ritorno dall’Estremo Oriente, è apparso il Manifesto del Surrealismo, quale effetto questo testo così importante ha esercitato su di te?
L’ho trovato meraviglioso, e sino a oggi non ho cambiato parere.
Dopo la pubblicazione della Storia naturale, hai pubblicato nel numero 9-10 de “La Révolution surréaliste”, nell’ottobre 1927, le Tre visioni di dormiveglia che contengono le tue prime precisazioni sulla tua concezione dell’automatismo come pure sul processo del “collage” e del “frottage”. Questi scritti di un così eccezionale interesse, nei quali affermavi la tua priorità e supremazia in tale campo, come sono stati accolti dal gruppo e, in particolare, da Breton? Gliene avevi già parlato, o si trattava di una assoluta novità?
Non ne avevo mai parlato prima di deciderne la pubblicazione, ma André Breton, col quale allora le mie relazioni erano molto cordiali (salvo qualche intermittenza), se ne è interessato spontaneamente. Mi ha persino aiutato a correggere qualche errore di francese.
Non è strano che in un gruppo così vivacemente preoccupato dei sogni, tu non ne abbia mai fatto cenno?
Sì, lo confesso, può sembrare strano, ma è soltanto la conferma del fatto che io mi tenevo a una certa distanza dalle esperienze surrealiste e dalle loro teorie. Avevo già avanzato dei dubbi sulla possibilità di “cambiare il mondo” con mezzi artistici o utopie verbali.
Gli altri pittori surrealisti provavano dubbi analoghi?
Arp certamente; non ha mai nascosto di essere rimasto imperturbabilmente Dada; Mirò non si è mai espresso, ma ha sempre agito a modo suo; Tanguy non parlava né della sua pittura né delle sue idee, salvo negli accessi – talora terrificanti – di furore improvviso. Non ho mai avuto la fortuna di essere in confidenza con Masson; lo scetticismo di Magritte era evidente nei quadri; il surrealismo di Dalì era fluido come la struttura dei suoi orologi. Per quanto riguarda Duchamp, non era un segreto per nessuno la sua negazione totale di ogni attività, incluso il sogno di poter cambiare la vita.
Breton non aveva dunque torto di diffidare dei pittori.
Dia pittori che poeti gli abbiamo dato del filo da torcere, lo ammetto. Per quanto mi riguarda, il mio ruolo era quello di membro incostante, ribelle, sempre sospettato di dissidenza, più di una volta espulso dal gruppo e altrettante volte supplicato di rientrarvi. (Éluard fungeva da ambasciatore itinerante tra Breton e me.)
Qual è stato, secondo te, in queste peripezie, il ruolo specifico di Breton?
Il merito di Breton è stato di mantenere per lungo tempo, in un gruppo assai poco omogeneo, una certa coerenza e di imporgli delle ambizioni, così alte da sfiorare l’utopia. E ciò in un’epoca moralmente torbida, politicamente frivola, economicamente deplorevole (soprattutto per la maggior parte dei componenti il gruppo). Il torto di Breton è stato di eliminare arbitrariamente dal gruppo, ma sempre sostenuto da una maggioranza di fedelissimi (ahimè!), poeti di eccezionale valore. Il primo escluso fu Robert Desnos. La cosa è avvenuta addirittura prima della costituzione del gruppo in quanto tale, nel 1923, credo. Primo delitto: aveva pubblicato una poesia in una rivista che non era la rivista di Breton (“Littérature”). Secondo delitto: quella poesia era stata scritta in alessandrini. Terzo delitto: aveva accettato, per uscire dalla condizione miserabile in cui si trovava, un posto (poco retribuito) nel giornale “Paris-Soir”. È nota la serie interminabile delle altre esclusioni, tra cui la mia decretata nel 1954, cioè quindici anni dopo che avevo lasciato il gruppo di mia iniziativa.
Queste divergenze non hanno avuto soprattutto cause di tipo affettivo?
Ho sempre notato tra i surrealisti sintomi ciclici di esaltazione seguiti da depressione. Breton stesso, benché così lucido, non era esente da tali crisi. Pensa alla sua adesione al partito comunista e alla sua rapida delusione; alla sua pretesa di trascinare tutto il gruppo in questa andata e ritorno; al suo voltafaccia improvviso nei confronti del trotskismo; al fatto che egli aveva chiesto ai componenti il gruppo di impegnarsi a boicottare la poesia di Paul Éluard con tutti i mezzi disponibili (questo accadeva nel 1939, quando Éluard rifiutò di convertirsi al trotskismo).
Ciò secondo te significa che il Surrealismo ha fallito?
Come ideale, certamente no, giacché ha caratterizzato un’epoca; come movimento organizzato invece lo provano i fatti e, in tal caso, il principale responsabile non ne è forse il capo? L’uccisione del capo è il titolo di un quadro dipinto da Matta a New York nel 1943. Particolare molto curioso: il quadro fu molto apprezzato da André Breton, che ne aveva compreso l’insolenza.
Tu hai l’aria di aver superato tutte queste difficoltà molto facilmente.
Ero fisicamente molto resistente, mentalmente molto recalcitrante agli attacchi diretti e per temperamento indulgente di fronte alle situazioni comiche.
Mi hai parlato della morte di Baargeld, sopravvenuta accidentalmente nel 1927 durante un’ascensione in montagna, e ciò nonostante fosse un alpinista provetto. Vi sospetti un suicidio che, a tuo avviso, tradirebbe il suo disinganno. Tutto ciò non ricorda il suicidio precedente di Vaché?
Infatti. E il medesimo disinganno, con l’aggiunta del medesimo dandismo, ha provocato più tardi altri suicidi.
Per quanto ti concerne, non hai trovato nella pittura un solido punto d’appoggio contro il disinganno?
Senza dubbio.
Se non è riuscito a “cambiare il mondo”, il Surrealismo a ogni modo ha profondamente modificato l’immagine del mondo, e la tua pittura, mi auguro che tu voglia convenirne, vi ha molto contribuito.
Ne convengo tanto più volentieri in quanto il mio modo di vedere non è unicamente una percezione delle apparenze, ma anche e soprattutto una presa di posizione spontanea, spesso velata, presentata sotto forma di immagini precise o confuse, dalle quali la farsa, l’ironia e il significato più profondo (per usare il linguaggio di Christian Dietrich Grabble1) non sono esclusi.
Questa è quella che tu definisci la tua attività (passività).
Dapprima ottengo automaticamente, mediante il “frottage” e altri procedimenti gestuali, un fondo caotico...
Vale a dire la passività che si collega con la percezione istintiva.
...poi, mediante un intervento della mente, cerco di interpretare questo caos, di dargli forme e significati ambigui, paranoici, favolosi, contraddittori, secondo una logica capovolta. Le soluzioni immaginate sono le uniche valide in tale gioco. Vere o false, esse conservano sempre le apparenze della logica classica,
Questa attività però resta strettamente legata alla tua visione? Non vi sono operazioni coscientemente distinte.
Solo la visione serve da filo conduttore. Verso il 1927, ho intitolato numerosi quadri Visione provocata da..., per esempio: da uno spago trovato sul mio tavolo, dalle parole “il padre immobile”. Parole, spago assolvono a una funzione “urticante”.
Come in una delle tue Visioni di dormiveglia, pubblicata appunto nel 1927. Significativamente, tale pubblicazione che conferma la tua statura di iniziatore e di istigatore, coincide con i tuoi primi successi spettacolari come pittore. Hai un contratto con Van Leer molto vantaggioso per quell’epoca, vivi con un fasto accentuato ulteriormente dall’aureola delle tue avventure femminili. È in questo modo che si manifesta il tuo “nido di contraddizioni”?
Ognuno sa che la nozione di identità implica in ogni essere, in ogni oggetto, in ogni idea la presenza simultanea o successiva di una infinità di contraddizioni. Ne possedevo (e ne posseggo ancora, voglio sperare) un nido ben stipato. Non mi preoccupo né di svelarle né di ostentarle. Il principio di ambiguità, che è l’essenza stessa dei miei collage, mi fornisce i mezzi per trovare soluzioni immaginarie, in cui tutto è permesso e niente è falso.
Sempre secondo il tuo principio, in base al quale assisti “da spettatore” alla loro nascita, dipingi in quel periodo alcune delle tue opere più indimenticabili: Alle 100.000 colombe, L’orda, Notte d’amore, Monumenti agli uccelli (1927); Fiore e testa animale, Giovane chimera alata, Loplop, superiore degli uccelli (1928). Il tipo di disinvoltura che caratterizza la maggior parte di queste opere è dovuta al fatto di aver adoperato il “frottage” come metodo di pittura? Questa operazione ha provocato in te un’euforia paragonabile a quella che tu attribuisci, in una delle prime Visioni di dormiveglia che ho già menzionato, a tuo padre quando disegnava con una “grossa matita” tirata fuori di tasca? Non hai per caso in quel momento sconfinato nella gioia erotica di dipingere, il che, forse ti ha fatto un po’ perdere di vista la parola d’ordine surrealista?
Sono sempre stato cosciente che l’abbandono volontario all’estasi che chiamiamo ispirazione (che Nietzsche chiamava ebrezza creatrice) è paragonabile al delirio prodotto dall’alcool e da altre droghe. Può comportare le stesse euforie e le stesse depressioni. Qualche volta mi è stato domandato perché non usassi l’oppio, la polvere bianca, l’hascisc, la mescalina. In pratica, perché no? Probabilmente perché il vocabolo “surreale” aveva per me altri significati. Che non escludevano l’euforia. E neppure la gioia erotica di dipingere. La gioiosa matita tirata fuori di tasca da mio padre mi ha probabilmente spinto a prendere la decisione di evadere dai conventi del Surrealismo ortodosso. Insomma per me e per qualche altro surrealista, per esempio Éluard, Man Ray, Magritte, Dominguez, Penrose, Méret Oppenheim, Leonor Fini, l’idea di erotismo non era incompatibile con una dottrina sul frontone della quale era ancora scritta la parola “Libertà”. Nel “Minotaure” (febbraio 1934?) Breton raccomandava ai pittori un “erotismo velato”.
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Tu possiedi, a un livello raramente raggiunto da un pittore, la facoltà di mescolare tempi diversi e spesso, nei tuoi quadri, passato, presente e futuro si confondono. Il tuo “sguardo irritato” non è il tuo sistema per ignorare o sopprimere la durata reale?
Sguardo irritato, trance, chiaroveggenza, paranoia, schizofrenia, vera o simulata, mi sembrano stati normali acuti che ci permettono di vedere e di vivere come se il tempo esistesse soltanto allo stato abolito.
Anche nel caso de L’Europa dopo la pioggia hai preso le mosse da un “urticante” visivo?
Durante le riprese de L’âge d’or di Buñuel notato nello studio di Billancourt dei pannelli di compensato irregolarmente coperti di colore e stucco. Venivano usati per simulare in scena dei muri. Mi trovavo dunque di nuovo di fronte al famoso muro di Leonardo da Vinci che ha ricoperto una così considerevole importanza nelle mie “Visioni di dormiveglia”. Ho potuto ottenere in regalo da Buñuel tutti quei pannelli ed essi sono serviti come base per L’Europa dopo la pioggia e inoltre per Loplop presenta una ragazza, Lopolop presenta il mare in gabbia, ecc., dove i rilievi dello stucco sono visibili.
Quest’ultimo quadro, che adesso è al Museo di Antibes, non ha ispirato sensibilmente Dubuffet?
È appartenuto in passato a Joë Bousquet e quest’ultimo mi ha raccontato che all’inizio dell’occupazione, quando i profughi intellettuali si riunivano da lui a Carcassonne, Dubuffet non cessava di guardare il mio quadro, al punto addirittura di correre il pericolo di prendersi un torcicollo quando era in cattiva posizione per vederlo.
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Nel 1950 si è tenuta la tua esposizione da René Drouin. I tuoi quadri più belli dipinti durante e dopo la guerra erano riuniti: Napoléon in the wilderness, L’Europa dopo la pioggia (2a versione), La colazione sull’erba, Euclide, Il tempo e la durata, La suora portoghese, ecc. L’accoglienza parigina è stata molto tiepida e tu sei ripartito deluso per l’Arizona.
Né i critici né il pubblico sono stati calorosi, è vero; ma i nostri amici surrealisti, ortodossi o dissidenti, ci hanno validamente sostenuto e attorniato tanto che, a partire dal 1953, abbiamo deciso di ritornare a vivere in Francia. Questa volta per sempre, sia Dorothea che io. Vi abbiamo trovato entrambi un ambiente favorevole al nostro lavoro.
Nel 1954, nel momento in cui l’arte astratta era all’apogeo del successo, tu hai ricevuto il gran premio della Biennale di Venezia: ciò ha sensibilmente migliorato la tua situazione finanziaria, ma ha messo fine alle tue relazioni con il gruppo surrealista.
André Breton, che faceva di tutto per aiutare gli artisti in difficoltà, non ha mai potuto soffocare un modo d’irritazione quando uno di noi raggiungeva una certa agiatezza grazie alla sua pittura. Era un’incoerenza che si poteva perdonare a Breton, giacché egli aveva tanti altri meriti; ma nei giovani surrealisti puristi di terz’ordine, la cosa diventava semplicemente odiosa. Quando un pittore surrealista cessava di vivere in miseria, il gruppo cercava un pretesto per accusarlo di compromesso. Non sono stato il solo colpito, poiché Matta e Victor Brauner, tra gli altri, furono esclusi ugualmente. Per far piacere agli estremisti del gruppo, avremmo dovuto morire di fame-
A questo proposito ho trovato nel numero dell’ottobre 1967 della nuova rivista surrealista, “L’Archibras”, un trafiletto che concerne retrospettivamente il tuo contrasto del 1954 con il gruppo. Ricorda, tra i fautori della rottura, “una voce dura, implacabile, contraria a ogni attenuazione del rigore, senza requie nel denunciare l’esempio deplorevole offerto da un pittore un tempo ribelle e in seguito pronto ad accettare onori ufficiali. Quella voce – conclude “L’Archibras” – apparteneva a Simon Hantaï, Premio 1967 della Fondazione Maeght”.
Interessante.
Il tono di queste parole mi ricorda taluni cenni di te fatti da André Breton, in occasione di un colloquio che ho avuto con lui poco tempo prima della sua morte. Senza peccare di indiscrezione, posso dirti che aveva molto apprezzato la tua esposizione del novembre 1965 presso Iolas e che il ricordo della tua esclusione gli riusciva assai penoso.
La nostra rottura non mi ha impedito di conservare per la sua opera un’autentica ammirazione e tu sai che la sua morte mi ha profondamente addolorato.
Non credi che le condizioni in cui gli artisti attualmente debbono vivere e le pressioni alle quali essi sono sottoposti costituiscano le principali cause di questi tragici malintesi?
Sono troppo spregiudicato per soffrirne, ho sempre opposto una ostinazione intinta d’ironia a questo tipo di piccolezze e di malintesi che sono la sorte comune di quasi tutti gli artisti. Conosco due eccezioni: Picasso, il quale giovanissimo conduceva già una vita comoda grazie ai suoi folgoranti successi, e Marcel Duchamp, il quale, nonostante la sua cronica mancanza di denaro, ha inventato metodi geniali per aggirare tutti gli ostacoli. Una delle sue formule più grandiose è poco conosciuta: “Vorrei fare del parassitismo una delle Belle Arti”. L’ha usata per uscire con eleganza da una situazione che chiunque altro avrebbe trovato molto imbarazzante, nel momento in cui gli veniva presentato il conto in un costoso ristorante di New York, dove (senza un soldo in tasca) aveva invitato Bill Copley e un secondo ospite. Per Bill Copley che aveva appena ereditato dal padre adottivo una bella fortuna di cui aveva deciso di sbarazzarsi domandando consiglio a Duchamp, la formula sul parassitismo era quel ci voleva. Fu allora che egli fondò a Beverly Hills una galleria consacrata a opere invendibili.
E tra esse le tue occupavano un buon posto. È un fatto che per lungo tempo sei stato un vero pittore ambulante.
Tedesco di nascita, ma bandito dal mio paese natale, sono arrivato a Parigi come clandestino e ho vissuto a lungo sotto falso nome, bene o male, sino al momento in cui la mia origine tedesca mi è valsa l’internamento. Sono andato in esilio una seconda volta, ho preso la nazionalità americana, per tornare poi in Francia e prendere quella francese. Tre nazionalità successive, non c’è male per una sola vita.
Adesso i tre paesi ti rivendicano per la loro “cultura”.
Dopo essere stato in balìa delle peggiori difficoltà per cinquant’anni, dopo aver arricchito senza volerlo i collezionisti, senza rimpianti i mercanti, e senza sospettarlo tre “culture” nazionali diverse, ho finalmente la possibilità di vivere i miei ultimi anni al riparo dagli scocciatori e mi si concede, senza che io lo chieda, qualche trastullo di cui mi infischio sonoramente. È quello che si chiama un successo.
Il carattere di violento sarcasmo della tua esposizione del 1968 presso Iolas non è sfuggito a nessuno. Non facevi certo la figura dell’artista “arrivato”, credimi. Dal collage intitolato L’impeccabile, il cui punto rosso che l’ornava poteva indifferentemente significare che esibiva la Legion d’onore o che era già venduto, sino al Corpo insegnante per una Scuola di assassini, scolpito nella pietra dura di Vilhonnuer, nome che è tutto un programma, derisione e provocazione eguagliano in virulenza quelle del periodo Dada. Tu, senza dubbio, mantieni la convinzione che un artista non deve mai disarmare.
La dilettazione morosa non è il mio forte.
Quando sei stato ufficialmente interpellato per dipingere un soffitto, hai riposto che preferivi un pavimento; ma questo riferimento alla tua ossessione visiva del 1925 è stato preso come un’impertinenza, il che d’altronde forse era, e del progetto non se ne è fatto niente. Per contro hai accettato l’ordinazione di una fontana per Amboise.
È tutta un’altra cosa. Vi ho visto l’occasione di un omaggio a Leonardo da Vinci e, al medesimo tempo, alla Turenna che l’aveva accolto, come doveva accogliere me quattro secoli dopo, al mio ritorno dall’America. Non credo che l’indipendenza sia incompatibile con la gratitudine o l’educazione.
Che ne pensi dell’opinione sempre più diffusa tra i giovani secondo cui la pittura sarebbe in declino, dato che essa ai loro occhi ha cessato di essere un atto rivoluzionario?
Per conto mio non me ne accorgo; a ogni modo, visto che la minaccia esiste, cercherò di sbrigarmi.
Non ne dubito, soprattutto dopo aver visto la tua esposizione del 1969 da Iolas, dove tocchi probabilmente il vertice della felicità pittorica, anche se il tuo contributo si limita talvolta a qualche tocco di tempera sull’ingrandimento fotografico di un collage. Il tuo piacere malizioso è evidente come il “riso dei poeti” che invochi; ma hai la sensazione d’aver agito?
La pittura, secondo me, deve e può agire su due piani differenti e peraltro complementari: l’aggressione e l’esaltazione.
Il che spiega il contrasto tra la tua esposizione del 1968 e quella del 1969, la prima era una provocazione, che precedeva e, chissà, contribuiva a preparare gli avvenimenti del Maggio, la seconda, al contrario, era consacrata soprattutto alla festa.
Precisamente, e aggiungo che la festa è altrettanto rivoluzionaria della provocazione. È quanto hanno perfettamente capito il Dadaismo e, meglio ancora, il Surrealismo. Orbene, l’uno e l’altro contribuirono molto all’esplosione e allo sviluppo dei fatti del Maggio, è incontestabile.
Tu dunque pensi che i pittori hanno ancora un compito rivoluzionario da assolvere?
Sì, poiché continuo a credere che la politica è impotente senza l’esaltazione poetica.
Ovviamente occorre che la pittura sia sufficientemente vista e diffusa per poter agire in profondità, e ciò pone il problema della sua diffusione. Tu e Dorothea avete fatto tentativi di riproduzione mediante la “kamagrafia”, sistema elettronico di alta fedeltà. Sareste anche voi attratti dai multipli che si vedono proliferare dappertutto?
Riconosco che queste edizioni possono avere un’utilità sociale, come le stampe, in quanto aiutano la diffusione di opere diventate, nonostante noi, troppo costose, e quindi aumentano le possibilità di comunicazione tra l’artista e il pubblico. Questo è sempre il nostro problema.
Ma tu credi che i multipli possano sostituire completamente l’opera originale?
Ne dubito. Ciò che manca al multiplo, ciò che lo distingue nel dialogo tra spettatore e opera originale è paragonabile alla differenza che esiste tra un colpo di telefono tra due amanti e un dialogo a viva voce tra i due amanti stessi, faccia a faccia. Ciò che difetta sono espressioni facciali, sorrisi, malizie, carezze, ecc., in una parola la magia della presenza fisica. La magia della mano del pittore è sensibile nell’opera originale, ma affievolita quando la sostituisce un procedimento elettronico.
Si cita molto, oggi, il parere contrario di Marcel Duchamp.
Tu sai non meno di me che, su questo problema, la posizione di Duchamp non è stata né compresa né compromessa. Fedele allo spirito Dada, egli ha eluso ogni discussione. Quando ha firmato i suoi ready-made nel 1913 o 1914, era il solo a concedersi questa libertà. Questo conferiva grande valore al suo gesto. Quando ho saputo che Marcel aveva permesso a un mercante di Milano di moltiplicare i ready-made (di farne dei multipli), dapprima sono stato incuriosito. Il valore del gesto che costituiva tutta la bellezza dei ready-made mi sembrava compromesso. La sfida che aveva scandalizzato gli Stati Uniti e provocato tempeste d’entusiasmo nelle capitali europee dove Dada aveva messo radici rischiava di svuotarsi. In seguito mi sono domandato se non si trattava di un nuovo tentativo di urtare l’opinione pubblica, confondere gli spiriti, deludere gli ammiratori, incoraggiare gli imitatori a seguire il suo cattivo esempio, ecc. Interrogato da me, mi ha risposto ridendo: “Sì, era tutto questo”.
A tuo avviso, dunque, l’artista deve essere solo?
Non esistono regole. Dato che non sono né solitario di temperamento né gregario accanito, ho bisogno di solitudine, solo con me stesso, quando sento la spinta a dipingere, solo a due, quando sento la spinta a vezzeggiare. Altrimenti, sono per il proverbio arabo: “Dio benedica chi abbrevia le visite”.
L’automatismo che auspichi e che pratichi sempre non mira, come i multipli, a desacralizzare l’opera originale riducendo – cito le tue parole – “la parte attiva di colui che sinora era chiamato ‘autore’”?
L’automatismo è una scrittura. Ogni esperienza dunque è fondamentalmente diversa dalle altre, mentre, per quanto ne so, i multipli sono ripetizioni fabbricate in serie. Se i giovani artisti intendono misurarsi con l’industria, è affar loro. Ma attenzione alla macchina da scervellamento!2
La recente traduzione in francese del libro di John Russel, nonché la raccolta in volume dei tuoi scritti, mi spingono a pormi e a porti un’ultima domanda: Non è possibile che tu, nonostante la tua celebrità mondiale, sia un pittore ancora incompreso?
Non mi dispiace essere capito da una minoranza di spiriti acuti. Non mi dispiace essere visto “in diretta” come i poeti. Che l’intendenza mi segua o no mi lascia totalmente indifferente.
La tua vita è stata raccontata superlativamente da Patrick Waldberg, egli ha tratteggiato il tuo personaggio in modo leggendario, nessuno riuscirà mai a far di meglio su questo piano, ma è risaputo che Patrick ha orrore delle teorizzazioni generali sull’arte. Tu esprimi il tuo pensiero più o meno nei testi di Oltre la pittura, riuniti nei “Cahiers d’Art” nel 1937, ma come spieghi che nessuno abbia seriamente tentato di andare “oltre” le tue spiegazioni?
Ho sempre sperato che la mia opera fosse sufficiente per coloro che sanno vedere, mio caro Robert.
Non t’insegno nulla di nuovo, mio caro Max, ricordandoti che esistono motivazioni profonde di cui un artista anche se lucido come tu sei, non è necessariamente cosciente.
Senza ancora conoscermi personalmente, André Breton ha meravigliosamente intuito il senso dei miei primi collage, creati precisamente per riprodurre “ciò che si vedeva in me”, e li ha molto perspicacemente interpretati nella sua breve prefazione alla mia esposizione del Sans Pareil.
Si trattava in quel caso di una intuizione, di una corrente, se posso dire, magnetica tra due contemporanei che una ricerca affine calamitava. I termini stessi in cui Breton ga descritto questo contatto elettrico a distanza somigliano meno all’esposizione di un metodo che alla raffigurazione di un colpo di fulmine. Ben altri sono i metodi di indagine utilizzati dai critici attuali quando analizzano freddamente le opere e gli atti a posteriori. Per essi, tu fai ormai parte della “cultura” e a essi interessa soprattutto decifrare la verità della trasformazione che tu rappresenti, tenuto conto dei loro schemi e di ciò che essi definiscono l’irriducibilità degli spazi epistemologici nei diversi periodi della storia. Ho ben paura che tu non ci sfugga.
Inevitabile? No! Mi rendo conto che sarebbe fatica sprecata cercare di farne a meno! Tanto peggio! So d’altra parte che sarebbe degradante per me opporre argomenti all’aridità del loro linguaggio, alla freddezza dei loro metodi, al conformismo del loro comportamento. Secondo te, non sarebbe meglio lasciarli aggrovigliare nella melma della loro “cultura”, nei loro “spazi epistemologici”, nelle loro sottomissioni? Ti ricordi delle luminose parole di Robert Desnos, che risalgono all’epoca dei “sonni”: “Gli uccelli cavi di Max Ernst stimano le caverne dove si divertono le statue e dove si inscrivono le massime della sua musa Ernestine”? Siccome si tratta di te e di me in questo colloquio, penso che non sia illecito citare questo “gioco di parole” che è rimasto nella mia memoria commossa e che – visto che anche Desnos è rivendicato da “loro” per la loro “cultura” – dovrebbe bastare a “chiudere loro il becco” e a ringraziarti d’aver così bene guidato con le tue limpide domande le nostre scambievoli confidenze.
Questa intervista, datata 1969, è apparsa originariamente in Max Ernst, Écritures, Gallimard, Paris 1970, e ora, tradotta da Ippolito Simonis e Gian Renzo Morteo, fa parte del numero 42 di “Riga”, Max Ernst, ed. Quodlibet, 2021, a cura di Elio Grazioli e Andrea Zucchinali.