A cosa gioca Georges Perec

Ci si salva (talora) giocando

 

Nel 1969, al Moulin d’Andé, luogo d’incanto in Normandia attorno a cui si era raccolta spontaneamente a partire dal 1966 un’informale comunità di scrittori, pittori e cineasti, Georges Perec e Jacques Roubaud, insieme al matematico Pierre Lusson, redigono il primo manuale francese sul gioco del go.

 

Pubblicato in Francia nel 1969 il Breve trattato sulla sottile arte del go esce ora in Italia, edizioni Quodlibet, tradotto e curato da Martina Cardelli, con una postfazione di Tiziana Zita, giocatrice abile del gioco del go, e un’intervista a Georges Perec del 1980 (A cosa gioca, Georges Perec?).

 

I tre autori del Breve trattato non sono esperti del gioco, come sottolinea Tiziana Zita, e del resto Georges Perec, nell’intervista riportata, sottolinea come la condizione per diventare un giocatore dignitosamente mediocre del go sia quella di dedicarvi almeno due ore al giorno.

 

Moulin d'Andé (qui è anche stato girato Jules e Jim)

 

Questo piccolo trattato, insomma, “nato dalla passione e dalla goliardia di tre dilettanti”, è ricco di imprecisioni e dimenticanze e, in perfetto stile oulipiano, cerca di fare di un manuale d’istruzioni un’opera letteraria, raccogliendo tanti giochi di parole e calembours quante regole e nozioni.

 

Il Breve trattato sulla sottile arte del go introduce alla tattica e alla strategia, certo, ma prima racconta delle storie e avverte il giocatore che tanto più penetrerà nelle raffinatezze del gioco e procederà nella conoscenza dell’arte credendo di essere sulla strada per scoprire tutto, tanto più avvertirà la promessa di un’abilità sempre più grande e comprenderà di non aver capito niente.

 

Gioco dei Giochi per questa ragione, il go, l’anti-scacchi – “gioco balordo” che gode di “un’incresciosa popolarità” –, contiene e preserva un mistero: “non è mai veramente possibile sapere se si è fatta la mossa che si doveva fare”. Una tensione lo attraversa: l’errore, lo scarto, la differenza sempre possibile, l’elemento imponderabile che farà sì che anche il computer, quando gli si insegnerà a giocare, lo farà tremando.

Libertà e vincolo: è il vacillare del senso attraverso cui, soltanto in un’intuizione – “il più alto grado di conoscenza che si può avere del gioco” – si dà a vedere l’inatteso.

 

“Esiste una sola attività cui si possa ragionevolmente accostare il go.

Lo avrete capito, è la scrittura”.

 

Anna Stefi

 

 

Intervista di Jacques Bens e Alain Ledoux pubblicata sul primo numero della rivista francese «Jeux et Stratégie», 1980.

G. Perec, P. Lusson, J. Roubaud, Breve trattato sulla sottile arte del go, Quodlibet, Macerata 2014.

 

La Bibliothèque del l’Arsenal (Paris), sede dell’Association Georges Perec, ospita fino al 15 febbraio 2015 l’esposizione: Oulipo, le littérature en jeu(x).

 

 

A cosa gioca, Georges Perec?

 

I giochi che preferisco, quelli ai quali gioco di più, sono giochi linguistici. I più semplici sono le parole crociate, e poi tutti i giochi che si praticano all’OuLiPo: privarsi di una o più lettere, aggiungerne altre, disporle in un certo ordine, imporsi questo o quel tipo di trasformazione ecc.

 

Tutto questo fa parte, secondo me, di un ambito più vasto, dove si tratta di «organizzare forme», e il cui modello più elementare potrebbe essere il puzzle. Il puzzle, in fondo, è il mio gioco preferito, o addirittura: il gioco per eccellenza. Una particolare forma di puzzle, che amo molto, è ad esempio il tangram: devi comporre figure i cui modelli sono già fissati tramite sette forme geometriche semplici, che possono combinarsi in diversi modi. È un gioco difficilissimo. Come vede sto menzionando solo giochi solitari… Anche se, in alcuni casi, i giochi con il linguaggio possono implicare un partner immaginario: colui che risolverà il problema delle parole crociate, per esempio, o che leggerà un testo basato su un gioco con le lettere.

 

Potremmo immaginare (a parte La vita istruzioni per l’uso) un puzzle di lettere, o un puzzle letterario?

 

Certo: l’anagramma! Si prendono delle lettere a caso, poniamo eiarzinuloc, e poi si combinano diversamente per ottenere una parola. Si cerca, e si trova ulcerazioni. Il gioco si può ripetere molte volte con le stesse lettere. (Nel caso di eiarzinuloc è inutile, ulcerazioni è l’unica, o almeno credo…).

 

Tutti questi giochi con lettere e parole non sono però un po’ limitati? Certo, si possono fare una gran quantità di anagrammi, ma in fin dei conti la cosa non procura sempre lo stesso tipo di soddisfazione?

 

Sì, infatti mi servo di questi giochi come un musicista delle scale. Mi dico: «Ecco, ora scrivo un testo in cui le vocali appariranno in ordine alfabetico: a, e, i, o, u, a, e, i, o, u ecc.». È un modo di tenermi in forma, di esercitarmi. Una limitazione in sé e per sé, da sola, non ha mai dato un testo, al massimo un indovinello. Per me è anche un modo di entrare nell’universo dei giochi linguistici, che sono uno degli assi del mio lavoro.

 

Le parole crociate richiedono lo stesso tipo di esercizio?

 

Non proprio: le parole crociate sono in effetti un’attività piuttosto meccanica per quanto riguarda la costruzione della griglia. Ma con la ricerca delle definizioni, le cose cambiano. Diventa un gioco semantico… in realtà è un po’ come il puzzle. Quando la trovi, la soluzione ti sembra ovvia. Ma prima hai dovuto scoprire come un pezzo si incastra con un altro, cosa generalmente niente affatto ovvia! Con le definizioni delle parole crociate devi riuscire a creare un fenomeno analogo. Prendo un esempio semplicissimo, ovvero la definizione seguente: «Entre le zinc et le ballon» [tra lo zinco e il pallone]. Si penserà istintivamente a un aereo, o a una mongolfiera, infine a una risposta del tipo «dirigibile» o «zeppelin» ecc. Invece si tratta di un bancone da bistrot e di un calice1 e la parola da trovare è «sotto-bicchiere». Un’altra definizione, di Robert Scipion, che mi pare grandiosa, è «Du vieux avec du neuf» [Il nuovo con il vecchio]. La parola da trovare è «nonagenario»2. C’è invece un’intera categoria di giochi che non mi è affatto familiare: i giochi di logica, come il solitario, per esempio.

 

E i giochi detti «di società», o i classici giochi di strategia?

 

Mi sono molto interessato al go. E poi l’ho abbandonato perché in questo gioco entra in ballo un elemento molto difficile da dominare, e cioè il tempo che si può dedicare al gioco. Il mio professore di go mi disse che sarei potuto diventare un giocatore mediocre, dignitosamente mediocre, a condizione di giocare almeno due ore al giorno. Non mi era certo possibile, ma aveva ragione lui.

 

Eppure lei è stato un dei promotori del go in Francia.

 

Sì, le cose sono andate così: intorno al 1965 un professore di matematica, Chevalley, ha insegnato a giocare al mio amico Jacques Roubaud. A sua volta, Jacques Roubaud ha insegnato a giocare a due persone: a me e a Pierre Lusson. E tutti e tre abbiamo scritto un libro sul go, senza sapere che un altro giocatore, Giraud, conosceva da tempo il gioco e aveva scritto un manuale che non riusciva a far pubblicare. In seguito abbiamo fondato un club, e tutti i membri del club in brevissimo tempo sono diventati più bravi di noi…

 

Come spiega il relativo insuccesso del go in Francia?

 

Non è un insuccesso, a mio parere.

 

Eppure, quando se n’è cominciato a parlare, una decina di anni fa, si aveva l’impressione che il gioco si stesse diffondendo sempre di più. Invece oggi siamo ancora allo stesso punto, con piccoli club tra amici…

 

Forse perché è un gioco veramente difficile. E un po’ arido. Inoltre non ha beneficiato, come gli scacchi, di una specie di tradizione: in Francia tutti i giornali hanno una rubrica di scacchi. Ma poi, negli scacchi, si persegue un unico scopo: la presa del Re; e ci sono solo tre soluzioni: si vince, si perde, si pareggia. Il go invece è un gioco continuo, che richiede disposizioni d’animo molto diverse. Uno dei principali scogli del go, ad esempio, è capire quando la partita è terminata, in quale momento uno dei due giocatori controlla più territorio dell’altro, e come questo vantaggio si materializza! Quando nei resoconti delle partite leggiamo che qualcuno abbandona alla 60a o 90a mossa perché sa che alla fine perderà di due punti, ci sembra inverosimile. Eppure la maggior parte del tempo le differenze, almeno tra giocatori dello stesso livello, non sono maggiori di questa. E comunque, in questi anni, un francese è stato campione d’Europa.

 

Gioca ad altri giochi?

 

Gioco un po’ a bridge, ma in modo piuttosto mediocre. Sa cosa mi piace nel bridge? Quel doppio sistema: prima la dichiarazione, poi il gioco della carta, quella specie di intesa che si crea a partire da un codice semplicissimo, poiché in fondo ci si possono dire pochissime cose. Le dichiarazioni, con tutte le loro varianti, sono molto interessanti. Poi c’è sempre una parte legata al caso. Tutto sommato però non ho mai giocato tanto bene. Non credo di essere portato per le carte. Gioco un pochino a poker. Che altri giochi ci sono?

 

Tra i giochi con le lettere ce n’è uno molto diffuso, lo Scarabeo! Gioca bene a Scarabeo?

 

Non molto, no. È strano, sono talmente abituato agli anagrammi che mi aspetto sempre di essere brillante. E poi invece non funziona…

 

 

Ha mai provato a partecipare a un torneo?

 

No. E poi non penso che avrei molte possibilità di vincere, perché trovo un po’ limitante dover fare una sola parola quando ho sette lettere davanti agli occhi. Mi viene voglia di esagerare: una parola, poi l’inizio di un’altra, e collegarle tra loro. Di organizzare dei sistemi di serie. Invece mi ritrovo con persone che conoscono tutte le parole che contengono x o y ecc., che le hanno scovate da tempo e che applicano giudiziosamente il loro sapere. Mi spiego: lo Scarabeo non è un gioco molto creativo. Devi metterti sulle stelle rosse o sulle caselle dove le parole valgono triplo ecc… A me, quando faccio una partita di Scarabeo, interessa piazzare una parola da quattro lettere in un senso, per esempio orizzontalmente, e quattro parole verticali una accanto all’altra. Quando riesci a fare questo tipo di cose, ecco, è molto piacevole.

 

In fondo lei vorrebbe giocare a Scarabeo da solo!

 

Sì, ma invece di giocare a Scarabeo da solo, preferisco di gran lunga scegliere undici lettere e comporre quattrocento versi. O fare un palindromo. L’ispirazione ha un ruolo molto più importante. Mi viene in mente un altro gioco, che ancora nessuno conosce. Un mio amico, François Flahaut, ha appena inventato un gioco che forse proverà a vendere, un gioco che incita alla creatività. I giocatori hanno una serie di carte sulle quali sono scritte delle frasi. Devono poi mettere insieme due di queste frasi, inventando la storia che permette di collegarle. È molto interessante.

 

Così possiamo passare abilmente al rapporto tra il gioco e la creazione letteraria…

 

Scrivere, per me, è un modo di riorganizzare le parole del dizionario. O i libri che ho già letto. Alquanto banale, come vede.

 

Non tanto: quasi tutti scrivono per cambiare il mondo…

 

Quello è un altro paio di maniche! Dunque, dicevo, all’inzio ci vuole una certa disponibilità nei confronti di un insieme. Di un catalogo, di un corpus. Si hanno a disposizione un certo numero di elementi e con questi si deve costruire qualcosa. Il primo lavoro che si rende necessario è una ridistribuzione, una riorganizzazione, quindi una disponibilità. Voglio dire che non ci si può accontentare di forme fisse, di modelli dati, di congegni prestabiliti. Da un certo punto di vista: «D’amore morir mi fanno, bella marchesa, i vostri begli occhi»3, è l’inizio della letteratura. Il risultato non è eccelso, ma il procedimento è lo stesso: quando M. Jourdain capisce che, sebbene il senso resti lo stesso, l’effetto «poetico» della sua frase cambia con l’ordine delle parole, scopre la letteratura. E credo che il primo metodo che si può utilizzare, per arrivare a questa consapevolezza, sia il gioco. Ecco cosa unisce il fatto che amo giocare con il fatto che amo scrivere. La vita istruzioni per l’uso è nato dall’idea di un puzzle. Il puzzle ha fatto nascere un uomo che fabbricava puzzle. E l’intero libro è venuto su come una casa le cui stanze si dispongono come i pezzi di un puzzle4. E tutto questo ha dato una macchina per raccontare molte storie.

 

Già. Questo oggi lo sappiamo bene. Ma è stato sempre così? Che ruolo ha il gioco ne Le cose, Quale motorino, W ecc.?

Ne Le cose non è molto evidente. Perché all’epoca nemmeno per me era molto evidente. E comunque Le cose è un libro che si è formato a partire da due letture: l’Educazione sentimentale, che si intravede in un gioco continuo di citazioni, e le riviste femminili: «Elle», «Madame Express» ecc. Poiché cercavo di esprimere quella che si dice una «situazione personale» nei confronti della società dei consumi, questa lettura si è sviluppata attraverso l’insegnamento di Roland Barthes, quindi con una certa portata critica, come quella dei suoi Miti d’oggi. Ma dal punto di vista del gioco, la cosa era ancora informe.

 

Eppure c’è del «gioco»… nel senso del montaggio cinematografico!

 

Ah sì, il décalage: è una nozione molto importante, per me. Infatti la incontriamo spesso: quando cerchiamo di risolvere un puzzle, o un problema di tangram, deve prodursi un certo slittamento tra quello che vediamo e quello che dovremmo vedere. Nel Motorino è invece molto più netto: c’è tutto un gioco sulle figure della retorica classica.

 

Passando a un altro campo, se mettiamo insieme lettere e logica, otteniamo la crittografia. Se n’è mai occupato?

 

Sì, me ne sono occupato, ma anche in questo caso in un modo del tutto laterale. Per esempio non so assolutamente risolvere quei codici la cui chiave è un numero. Non so proprio come fare. La maggior parte dei problemi crittografici, tuttavia, si risolvono utilizzando le leggi di frequenza delle lettere. È peraltro una delle cose che mi hanno dato l’idea di scrivere La scomparsa. Dato che la «e» è la lettera più frequente, la si sopprime, e si ottiene un testo che, se venisse codificato, sarebbe probabilmente molto difficile da decifrare con i metodi abituali.

 

Sarebbe stato ancora più difficile se avesse disseminato qualche «e» qui e là! E per quanto riguarda i giochi con i numeri?

 

Ah, non ho nessuna propensione per quelli… Eccetto le divisioni per nove. Passo il tempo a verificare che, quando un numero è divisibile per 9, la somma delle sue cifre è un multiplo di nove… C’è qualcosa che mi affascina nei numeri. Ecco una cosa che mi piacerebbe conoscere bene, credo la chiamino «numerologia»: sono tutte le proprietà dei numeri, i numeri primi, le divisibilità, ecc.

 

E i giochi logici?

 

Non sono molto a mio agio nemmeno con i giochi logici.

 

Non le piacciono le meravigliose storie di Lewis Carroll?

 

Ah sì: il gioco della logica, i giochi booleani? No, davvero, è difficilissimo per me risolverli. La storia delle Signorine di Bagdad, quella che racconta Jacques Roubaud, ho fatto una gran fatica a capirla… anche se mi dicono la soluzione, non riesco a capire come ci si arriva. Non è esattamente il mio campo… Io sono davvero confinato nell’universo delle lettere e delle parole. Per quanto anche quello sia un universo che non finirà mai di meravigliarci…

 

1 Zinc, per metonimia, in argot è il bancone; ballon il bicchiere da vino rosso.

 

2 Neuf significa allo stesso tempo «nuovo» e «nove».

 

3 Molière, Le bourgeois gentilhomme.

 

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