I greci e il mistero dell'esistenza / Creature di un sol giorno

23 Maggio 2020

In un momento come quello che stiamo vivendo, in un periodo di crisi che mina le nostre esistenze e desta panico e giuste preoccupazioni, val la pena di interrogarsi e magari, ancora una volta, interpellare i classici. Per conforto e per una riflessione sul senso di ciò che ci sta capitando. Vuoi perché abbiamo più tempo a disposizione, visto che le attività sociali sono ridotte al minimo, vuoi perché i classici, come suggeriva Calvino, sono quelle opere che non finiscono mai di dire quello che hanno da dire, resistono al tempo, e dunque, dalla distanza di un’epoca ormai lontanissima, ci dimostrano e ci fanno sperare che la nostra specie possa sopravvivere. Anche al maledetto Coronavirus. Perché, comunque sia, è con il tempo che dobbiamo confrontarci, sia che ne vogliamo considerare il singolo spezzone che servirà a trovare una cura o capire che cos’è l’uomo. Marina Cvetaeva, per spiegare la discesa che sperimentiamo alla nascita, così scriveva in ‘La Sibilla al bambino’:

 

«Vieni vicino al mio petto,
più stretto:
nascere, piccolo, è cadere nel tempo.
Dal non-dove, non-terra,
così rovinosa…
discesa!
Da spirito in – polvere!
Piangi, bambino, per te, per tutti:
nascere – è cadere nel corpo!
Piangi, piccolo, per il futuro, e ancora:
nascere – è cadere nel giorno!»

 

Nascere significa cadere nel tempo, nel corpo, nel giorno. E svanire è «la ventura delle venture», diceva Montale, che però chiedeva che gli si portasse il girasole impazzito di luce perché vaporasse la vita quale essenza. Già, ma qual è l’essenza più propria dell’essere umano? Come è possibile vivere aderendo a quella che è l’aspirazione più comune, la base che tutti ci mette d’accordo, e cioè la felicità? O la serenità, che di questi tempi sarebbe auspicabile per tutti? Risponde – seppure la sua non sia una riflessione su quanto stiamo affrontando oggi, e dunque è solo un pretesto – Mauro Bonazzi nel suo recente Creature di un sol giorno. I greci e il mistero dell’esistenza (Einaudi, 2020, pp. 156, euro 12,50). Partiamo dal il titolo, ripreso dall’ottava Pitica di Pindaro, che recita così: 

 

«Creature d’un sol giorno: che cos’è mai qualcuno

che è mai nessuno? Sogno di un’ombra

è l’uomo. Ma quando luce discenda da un dio

fulgida splende la luce sugli uomini

e dolce è la vita».

 

Siamo dunque creature effimere, bucate e mancanti, perennemente inquiete e sottoposte all’azione degli agenti esterni, degli altri e dell’Altro. Come ci ha mostrato Aristofane, nel Simposio platonico, per quanto riguarda la nostra incompletezza. D’altronde, essere creature di un sol giorno, effimere, implica il fatto di essere periture e soggette al tempo: entrambe le opzioni sono valide. Vale altresì per il Coronavirus che, a ragione, incute terrore e limita lo slancio che ci apparenta agli dei, rendendo impossibile lo svolgimento dei nostri compiti quotidiani, financo i più semplici. Nulla è più come prima, nessun contatto, nessuna azione può essere scevra da conseguenze, non ultime quelle che subdolamente si depositano in testa e nelle coscienze. Anche questo è da tenere in conto. Leopardi si diceva inerme di fronte all’indifferenza della natura. Anna Maria Ortese, in L’Iguana, ci ha spiegato l’inferno che ci si installa dentro, così:

«Si dice che l’Inferno sia calore, un calderone di pece, a probabilmente milioni di gradi sopra lo zero, ma in realtà il segno dell’Inferno è nel meno, invece che nel più, è in un freddo, Lettore, davvero assai orribile. Non solo vi è freddo, ma anche solitudine: nessuno ti parla più, e tu non riesci a parlare con alcuno. La tua bocca è murata. Questo è l’Inferno».

 

 

Ma ritorniamo a Bonazzi. Se, per Aristotele, l’uomo è animale politico e razionale, se il dissidio si apre tra queste due forme di vita, quella dell’azione e quella della conoscenza, che non sempre vanno di pari passo, quale sarà la via più breve e la più consona a quella che definiamo felicità? Non di certo la vita nel piacere, ché lascia comunque e sempre insoddisfatti, forse davvero la più effimera e svaporante – nonostante la riflessione dell’epicureismo riservi molti spunti interessanti – e neanche (e sta qui la sorpresa dell’Etica Nicomachea) la vita politica, quella che con maggiore chiarezza possiamo individuare nell’Iliade omerica, un modello dove la forza regna incontrastata: l’azione non si spegne mai, ma perde vite umane a profusione. La vita politica greca si colloca sulla linea che da Achille, campione della gloria personale, conduce a Pericle, che porta la città, la polis, a essere individuo collettivo. Ma anche quello di Pericle, in Tucidide, è discorso di guerra e dunque dipende dall’altro e dall’eliminazione del nemico. Non è dunque “funzione propria”, secondo Aristotele. La ragione non può nulla contro la forza del desiderio. Al tempo omerico, solo l’azione garantiva doni, onore e gloria, l’unica forma possibile di immortalità: l’azione come reazione contro la morte e l’oblio. Perché nulla possiamo contro la qualità più evidente dei mortali: il fatto incontrovertibile che moriremo.

 

Solo la vita della specie continua incontrastata. Ma quella del singolo? Che ne è di quella? Possiamo essere felici sapendo che la nostra può non contare nulla? Possiamo esserlo sapendo che il nostro vicino magari è in fin di vita o in rianimazione e che forse la prossima volta toccherà a noi? Che diventa difficile anche stringere una mano mentre il sospetto si fa strada nei nostri cuori? Non siamo anche noi in uno stato di guerra sotterranea ma pericolosissima? Sacrosante le misure di prevenzione e contenimento, sacrosanto tutto ciò che limita il contagio. Non siamo preparati. O forse il nostro immaginario (letterario, storico, filmico) lo è. Ma non le strutture ospedaliere, non i protocolli medici. Siamo comunque inermi di fronte a ciò che ci minaccia, siamo come le foglie, dice Glauco nell’Iliade: «nasce una, l’altra dilegua». E quello che viene definito il poema della forza è in realtà il poema della morte. Nessuna presenza ha più peso e consistenza, all’interno dell’opera omerica. Lo sapevano anche Simone Weill e Rachel Bespaloff, entrambe ebree in fuga dal nazismo, che scrissero a Marsiglia, a pochi metri di distanza, e senza conoscersi, le pagine e le riflessioni più belle sull’Iliade. Così Bespaloff: 

«Ma niente di quello che hanno prodotto i popoli d’Europa vale il primo poema che abbia visto la luce presso uno di questi. È probabile che essi ritroveranno il genio epico quanto sapranno che niente è esente dall’azione del destino, quando impareranno a non ammirare la forza, a non odiare i nemici e a non disprezzare gli sventurati. È improbabile che ciò accada presto».

 

Niente è esente dall’azione del destino. Appunto. Dobbiamo tenerlo a mente. Dobbiamo trovare la forza, la determinazione di non agire, in questo momento, cioè stare a casa e lasciare che i medici facciano il loro lavoro. I medici, gli scienziati, i virologi e tutti gli uomini di scienza. Dobbiamo puntare ancora una volta a quella via che Aristotele indicava come la più felice, la più propria dell’essere umano: la conoscenza. Il pensiero è vita ed è ciò che ci rende divini, il fatto che «l’anima prima era tutta alata», come ci racconta Platone nel Fedro. È la canoscenza a cui vuol giungere l’Ulisse dantesco, snodo della modernità, che traghetta lo scaltro Odisseo omerico, l’uomo della nostalgia, che vuol solo ritornare a casa, in colui che tenta di assaltare il cielo, nonostante venga sconfitto – perché manca della grazia divina – e venga dunque scagliato nell’abisso, così come era successo agli “spiriti magni”, i filosofi, come Platone e Aristotele. E i poeti pagani, come Omero. Ma Aristotele, nell’Etica Nicomachea, riserva un’ulteriore sorpresa, quando dice:

 

«Non si deve dare ascolto a coloro che consigliano di porre mente, essendo uomini, a cose umane e non, essendo mortali, a cose immortali, ma, per quanto è possibile, bisogna sempre farci immortali e compiere ogni cosa per vivere in modo conforme a quella che, tra le cose che sono nell’individuo, è la più alta. Seppure infatti essa è la più piccola per la massa, per potenza e dignità è di gran lunga superiore a tutte le cose. E si converrà anche che ciascun uomo è questa cosa, se è vero che essa è l’elemento principale e migliore. Sarebbe dunque un assurdo se l’uomo non si scegliesse la vita che è propria, ma quella di un altro essere».

Bisogna farci immortali, sì. Ben sapendo che la nostra condizione è quella di esseri mortali. E dunque effimeri, come ricorda il titolo del libro, e come Bonazzi sottolinea in chiusura. La morte e la paura della morte ci sono connaturati, non possiamo sfuggirle. Eppure da questo traiamo i nostri progetti, le gioie e i fallimenti: la nostra esistenza è così bella e preziosa proprio perché fragile. Creature di un sol giorno che in un giorno contengono aperture infinite, viaggi interminabili. Un viaggio o più viaggi che richiedono senso. «All the interim is like a phantasma», diceva Shakespeare nel Giulio Cesare. 

 

Ma in tempi come questi, in notti come queste – che non sono quelle amorose shakespeariane di Il Mercante di Venezia – forse dobbiamo provare con maggior lucidità ad aderire alla nostra funzione propria e inoltrarci per la via più felice, per tutti: la conoscenza che sconfigge il male. E se Nietzsche, in La Gaia Scienza, ha proclamato la morte di Dio («Non alita su di noi lo spazio vuoto?»), badiamo almeno a tener desta un po’ di fortuna… che Dio ce la mandi buona, insomma. O meglio, puntiamo di nuovo alle stelle fidando nella scintilla che i nostri uomini di scienza portano in sé. 

Pensando a quella scintilla vengono in mente i meravigliosi versi che Alice Oswald distilla in Memorial, la sua indagine-riscrittura dell’Iliade: che siano di buon auspicio…

 

Come piccoli falò di stelle s’illuminano intorno alla luna

non tira un filo di vento

sotto una campana d’aria rovesciata 

nette si stagliano le nere rocce 

e il mondo si semplifica tra rupi e dirupi  

in notti come questa 

la luce è ineffabile erompe dai cieli  

e ogni stella porta dritta a dio

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